mercoledì 30 aprile 2008

Corte di Cassazione, sez. I, sentenza 31 marzo 2008 n. 8384

CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. I CIVILE - sentenza 31 marzo 2008 n. 8384 - Pres. Carnevale, Rel. Salvago - Bulfone c. Comune di Tavagnacco - (accoglie il secondo motivo di ricorso e cassa la sentenza con rinvio alla Corte di Appello di Trieste).

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. Il Tribunale di Udine, con sentenza del 21 agosto 2000 condannò il comune di Tavagnacco per l’avvenuta occupazione espropriativa di un terreno di proprietà di Eleonora e Ruggero Bulfone, nonché di Aurelia Marini (in catasto al fg.28, mappale 310) onde realizzarvi un parcheggio pubblico, al risarcimento del danno sia per l'illegittima ablazione dell'immobile, sia per il periodo precedente in cui era stato occupato senza titolo. Attribuì inoltre al solo Ruggero Bulfone un indennizzo per la reiterazione di un vincolo preordinato all'esproprio posto dal P.R.G. dell'ente appr. l’11 settembre 1980 di destinazione dell'area al menzionato parcheggio.
In parziale accoglimento dell'impugnazione del comune, la Corte di appello di Trieste, con sentenza del 2002, ha dichiarato non dovuto l'indennizzo per il vincolo apposto del comune che ha condannato al risarcimento del danno sia per l'ablazione del diritto dominicale dei Bulfone e della Marina, sia per l'illegittima detenzione del fondo fino alla sua irreversibile trasformazione, riducendone tuttavia gli importi, determinati: in favore di Ruggero Bulfone in € 33.012,80 + 6.627,17 in favore di Eleonora Bulfone in € 17.114,53 + 3.37,54, ed in favore della Marini in € 488,57. Ha osservato al riguardo: a) che il comune si era formalmente immesso in possesso del fondo e che non vi era prova che lo stesso aveva continuato ad essere utilizzato dai proprietari nel periodo successivo; b) che l'occupazione d'urgenza era stata autorizzata con decreto sindacale fino al 16 agosto 1992, sicché non poteva essere stata prorogata dalla legge 15 del 1991 ed era scaduta al momento dell'irreversibile trasformazione del bene verificatasi nel marzo 1993; e che quindi il decreto di esproprio emesso il 5 agosto 1994 doveva considerarsi tardivo; c) che era corretto il criterio di stima del valore dell'immobile seguito dal c.t.u. che aveva, da un lato preso atto dell'inclusione del terreno in zona edificabile; e lo aveva dall'altro assimilato ai fondi limitrofi compresi in zona B con indice di fabbricabilità 1,2 mc/mq.; e che sul valore in tal modo determinato andava applicato il criterio riduttivo introdotto dal comma 7 bis dell'art. 5 bis della legge 359/1992; d) che a Ruggero Bulfone non spettava il chiesto indennizzo perché il vincolo imposto dal P.R.G. del 1980 era inutilmente scaduto nel 1985 senza essere reiterato; perché dopo tale data egli aveva goduto del terreno secondo la sua destinazione originaria e non aveva provato di aver chiesto al comune di edificare, dimostrando anzi di aver continuato a gestire sull'immobile la propria pregressa attività commerciale.
Per la cassazione della sentenza, il Bulfone ha proposto ricorso per due motivi; cui resiste l'amministrazione comunale, la quale ha formulato a sua volta ricorso incidentale per due motivi. Entrambe le parti hanno depositato memoria.

MOTIVI DELLA DECISIONE

2. I ricorsi vanno, anzitutto riuniti ai sensi dell'art. 335 cod.proc.civ. perché proposti contro la medesima sentenza.
Il collegio deve poi dare atto che il comune di Tavagnacco con atto sottoscritto dai propri difensori, ha dichiarato di rinunciare al ricorso incidentale contro Eleonora Bulfone ed Aurelia Marini; sicché il giudizio introdotto da quest'atto nei confronti di dette parti va dichiarato estinto ai sensi dell'art. 390 cod.proc.civ.
Non può essere pronunciata condanna dell'ente pubblico rinunciante al pagamento delle spese processuali nei confronti della Bulfone e della Marini, perché costoro non hanno spiegato difese.
3. Con il primo motivo del ricorso principale, Ruggero Bulfone, deducendo violazione degli art. 2 legge 1187/1968.41 quinques legge 1150/1942; 17 legge 765 del 1967; 4 legge 10 del 1977; 4 e 5 legge 1/1978 censura la sentenza impugnata per aver disconosciuto il suo diritto ad ottenere l'indennizzo per il vincolo apposto dal comune sul proprio terreno con il P.R.G. approvato nel 1980, senza considerare: 1) che detto vincolo pur non formalmente reiterato nel 1985, si era di fatto protratto fino al 1989, allorquando il comune lo aveva ulteriormente riproposto approvando il progetto esecutivo per la realizzazione del parcheggio; 2) che l'assunto trovava conferma nella legge reg. 52 del 1991, la quale fa obbligo ai comuni di attuare entro un anno le opportune variazioni urbanistiche; 3) che in ogni caso alla prima scadenza del vincolo il terreno era rimasto soggetto alle misure di salvaguardia previste dall'art. 4 della legge 10/1977 che ne hanno impedito l'edificazione fino alla adozione della variante adotta da parte del comune nel 1990, 4) che, d'altra parte, seguendo l'interpretazione della Corte di appello, i comuni ben potrebbero alla scadenza del vincolo non reiterarlo e nel contempo restare inerti si da assoggettare gli immobili privati alle misure di salvaguardia a tempo indeterminato; per poi compiere negli anni successivi l'opera pubblica in tal modo evitando di corrispondere l'indennizzo, e mantenendo il terreno vincolato; 5) che egli aveva chiesto più volte in quegli anni l'eliminazione del vincolo senza mai ricevere risposta dal comune, in tal modo determinandosi quella situazione per la quale la giurisprudenza amministrativa attribuisce al titolare del bene il diritto all'indennizzo o al risarcimento del danno.
Tutte queste censure sono infondate, pur se va corretta ai sensi dell'art. 384 cod.proc.civ. la motivazione con cui la Corte territoriale ha respinto la richiesta del Bulfone.
Con la nota sentenza 55 del 1968, la Corte Costituzionale, dichiarò l'illegittimità costituzionale dell'art. 7 della legge urbanistica 1150 del 1942 nella parte in cui consentiva alla p.a., senza la previsione di un indennizzo, l’apposizione su immobili privati di vincoli temporanei (ma di durata illimitata), preordinati al successivo (ma incerto) trasferimento del bene per ragioni di interesse generale, sia ipotesi di vincoli che, pur consentendo la conservazione della titolarità del bene, erano tuttavia destinati ad operare immediatamente una definitiva incisione profonda, al di là dei limiti connaturali, sulla facoltà di utilizzabilità sussistenti al momento dell'imposizione (e cioè di vincoli immediatamente definitivi inerenti a proprietà non destinate a esser trasferite). Ciò perché "tali imposizioni a titolo particolare non possono mai eccedere, senza indennizzo, quella portata, al di là della quale il sacrificio imposto venga a incidere sul bene, oltre ciò che è connaturale al diritto dominicale" quale viene riconosciuto in un determinato momento storico. E perché dunque doveva considerarsi in contrasto con l'art. 42 Costit. la sottrazione di immobili, quando essi siano da considerarsi edificabili in base all'ordinamento vigente nel momento in cui il vincolo intervenga, alla possibilità di utilizzazione rappresentata dalla destinazione a nuove costruzioni o comunque ad altri proficui impieghi di ordine urbanistico.
Alla declaratoria di incostituzionalità segui la legge 1187 del 1968, che adeguò la legislazione precedente alla decisione della Consulta, stabilendo tra l'altro (art. 2), che i predetti vincoli avrebbero perso efficacia qualora, entro cinque anni dalla data di approvazione del piano regolatore generale, non fossero stati approvati i relativi piani particolareggiati od autorizzati i piani di lottizzazione convenzionati.
Con la successiva sentenza 92 del 1982 la stessa Corte Costituzionale ritenne la legittimità costituzionale delle disposizioni degli artt. 1, 2 e 5 della legge n. 1187 del 1968, rilevando che il legislatore ha la facoltà di scelta tra la previsione di un indennizzo e la predeterminazione di un termine di durata dell'efficacia del vincolo. E che la suddetta normativa andava interpretata nell'ambito del sistema che si è venuto ad integrare successivamente alla sua emanazione; ed in particolare, che la cessazione del vincolo fa venire meno soltanto lo specifico onere relativo ed il titolare del bene viene a trovarsi quindi nella medesima situazione di tutti gli altri aventi un diritto reale sui beni: restando cosi assoggettato a tutto quanto la legge e gli strumenti urbanistici, compreso il programma pluriennale di attuazione, dispongono.
Con la decisione 579 del 1989, affermò che la temporaneità e la indennizzabilità dei vincoli urbanistici di natura espropriativa sono tra loro alternative, per cui l’indeterminatezza temporale comporta il diritto all'indennizzo. E con la recente sentenza 179 del 1999 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale degli art. 7 e 40 della legge urbanistica 1150 del 1942, nonché dell'art. 2 della legge 1187 del 1968, nella parte in cui consentivano all'Amministrazione di reiterare i vincoli urbanistici scaduti «preordinati all’espropriazione o che comportino l'inedificabilità, senza la previsione di indennizzo, osservando: a) che la reiterazione in via amministrativa degli anzidetti vincoli decaduti (preordinati all'espropriazione o con carattere sostanzialmente espropriativo), ovvero la proroga in via legislativa o la particolare durata dei vincoli stessi prevista in talune regioni a statuto speciale non sono fenomeni di per sé inammissibili dal punto di vista costituzionale: potendo esistere ragioni giustificative accertate attraverso una valutazione procedimentale (con adeguata motivazione) dell'amministrazione preposta alla gestione del territorio o rispettivamente apprezzate dalla discrezionalità legislativa entro i limiti della non irragionevolezza e non arbitrarietà; b) che tuttavia anche in questi casi, una volta oltrepassato il periodo di durata temporanea (periodo di franchigia da ogni indennizzo), il vincolo urbanistico (avente le anzidette caratteristiche), se permane a seguito di reiterazione, non può essere dissociato, in via alternativa all'espropriazione, dalla previsione di un indennizzo.
Con la conseguenza più volte evidenziata dalla giurisprudenza di questa Corte e da quella amministrativa, che per i vincoli derivanti da pianificazione urbanistica, il fatto costitutivo del diritto all'indennizzo non è individuabile nell'imposizione originaria di un vincolo di inedificabilità, e neppure nella protrazione di fatto del medesimo dopo la sua decadenza; ed il relativo obbligo sorge in seguito all'atto che formalmente ed esplicitamente lo reitera una volta superato il primo periodo di ordinaria durata temporanea del vincolo (quale determinata dal legislatore entro limiti non irragionevoli, come indice della normale sopportabilità del peso gravante in modo particolare sul singolo): non desumibile nel caso di protrazione di fatto dello stesso e neppure per implicito da atti di diniego di domande di autorizzazione lottizzatoria o di concessione (Cass. 1754/2007; 24099/2004; 4333/2003; Cons. St. V,1172/2003; 1486/1996).
Questa disciplina trova del resto conferma nell'art. 39 del T.U. sulle espropriazioni per p.u. appr. con d.p.r. 327 del 2001, pur successivo ai fatti di causa, il quale prevede a favore del proprietario "una indennità, commisurata all'entità del danno effettivamente prodotto" soltanto "nel caso di reiterazione di un vincolo preordinato all'esproprio o di un vincolo sostanzialmente espropriativo". Pertanto, nel caso concreto del tutto correttamente la sentenza impugnata ha disconosciuto il diritto del Bulfone a percepire detto indennizzo, una volta che lo stesso ricorrente ha riferito da un lato che il vincolo di piano era stato imposto sul suo terreno con il P.R.G. comunale approvato nel 1980; ed ha ammesso dall'altro che nel 1985, data della sua naturale scadenza ex art. 2 della legge 1187 del 1968, non era stato prorogato, né reiterato dall'amministrazione comunale.
4. Non è, poi, possibile confondere taluno di detti provvedimenti con la delibera 29 ottobre 1990 n. 76 con cui il comune di Tavagnacco, dopo avere annullato la propria precedente delibera 13/1989, menzionata dal ricorrente (che deve quindi considerasi tamquam non esset), ha approvato la variante urbanistica al p.r.g. unitamente al progetto per la realizzazione del parcheggio: in quanto la scadenza del termine quinquennale del vincolo di destinazione di piano impresso in base all'art. 2 1. 1187/1968, ha come conseguenza (Cass. 967/1992; Cons. St.1326/1998; 518/1992; Ad. plen.7/1984), per un verso, che l'area interessata dall'atto impositivo del vincolo risulta sprovvista di regolamentazione urbanistica, e vada assoggettata alla disciplina dell'art. 4 camma ultimo l. n. 10 del 1977 (prevista per i comuni privi di strumenti urbanistici generali). Ma, per altro verso tale situazione di inedificabilità conseguente alla sopravvenuta inefficacia di talune destinazioni di piano (cd. vuoto urbanistico) è per sua natura provvisoria, e destinata a durare fino all'obbligatoria integrazione del piano (o del programma di fabbricazione), divenuto parzialmente inoperante; con la conseguenza che l'autorità comunale ove non reiteri il vincolo (con previsione di indennizzo), ha l'obbligo di provvedere all'integrazione suddetta stabilendo la nuova destinazione da assegnare all'area: cosi come il comune ha fatto con la ricordata delibera, significativamente denominata dalle parti "variante" al piano, divenuto parzialmente inoperante, che la delibera del Consiglio comunale ha dunque provveduto ad integrare (Cass. 14333/2003; 11158/1998; Cons. St. IV,6442/2002; 6415/2001; 479/1997).
Ed il ricorrente non sembra dubitare di tale funzione del provvedimento in questione avendo ricordato la legge reg. Friuli-Venezia Giulia 52 del 1991, pur essa successiva alla vicenda procedimentale in esame, che proprio nell'ipotesi di cessazione dell'efficacia dei vincoli preordinati all'esproprio, pone a carico dei comuni l'obbligo (art. 36,comma 2°) di "adottare nel termine di un anno una variante al P.R.G., finalizzata a verificare lo stato di attuazione del piano e ad apportare le variazioni eventualmente ritenute necessarie, nonché a determinare il conseguente fabbisogno di servizi pubblici e di attrezzature di interesse collettivo e sociale". E stabilisce, infine, che "Qualora il Comune non provveda entro il termine predetto, la Giunta regionale dà l'avvio al procedimento sostitutivo di cui all'articolo 120".
Vero è che il comune di Tavagnacco ha provveduto a tale integrazione dopo ben 6 anni dalla scadenza del vincolo, durante i quali il terreno è rimasto assoggettato ai limiti di edificabilità nonché alle misure di salvaguardia di cui al menzionato art. 4 della legge 10 del 1977. Ma è pur vero che la situazione di inerzia della p.a. successivamente alla decadenza quinquennale del vincolo, non è equiparabile alla compressione del diritto dominicale provocata dai vincoli preordinati all'esproprio, né definibile come espropriazione di valore (Cass. 14333/2003 cit.; Cons. St. 5178/2002), attesa la provvisorietà del regime urbanistico caratterizzato dall'applicazione dei limiti di salvaguardia previsti dalla norma in questione per le aree bianche; che, se da un lato non elimina una redditività del fondo diversa dallo sfruttamento edilizio, dall'altro non crea nel proprietario alcuna aspettativa in ordine al conferimento di particolari qualità edificatorie oltre quei limiti, o ancor meno riguardo a possibili lottizzazioni.
E d'altra parte quest'ultimo, non resta senza tutela a fronte dell'inerzia dell'ente territoriale, ben potendo, ove vi abbia interesse, promuovere gli interventi sostitutivi della Regione oppure reagire alla stessa attraverso la procedura di messa in mora e tipizzazione giurisdizionale del silenzio davanti al giudice amministrativo; che invece il Bulfone nel caso concreto non ha attivato. Di modo che solo in caso di persistente inerzia a seguito di questa procedura potrà configurarsi la lesione al bene della vita, identificabile non già nello "ius aedificandi" -attesa l'impossibilità di affidamento del proprietario in merito a specifiche qualificazioni dei suoli nell'esercizio del potere discrezionale inerente alla pianificazione del territorio- bensì nell'interesse alla certezza circa le possibilità di adeguata e razionale utilizzazione della proprietà; di cui va ravvisata lesione risarcibile, alla stregua dei canoni di correttezza e buona fede, nello svolgimento del rapporto qualificato e differenziato tra soggetto pubblico e privato che nasce per effetto della sentenza conclusiva del giudizio di tipizzazione del silenzio (Cass. 11158/1998 cit.; Cons. St. 2107/1999; 621/1997).
5. Con il primo motivo del ricorso incidentale, da esaminare a questo punto, il comune di Tavagnacco, deducendo violazione degli art. 71 della legge 2359/1865, 14 legge 10 del 1977 in relazione alla legge 865/1971, nonché difetto ed insufficienza di motivazione, censura la sentenza impugnata per aver ritenuto che esso ente aveva occupato senza titolo il terreno Bulfone dal 30 aprile 1990 al 24 luglio 1992 e liquidato il risarcimento del danno per tale occupazione, senza considerare che la stessa era stata meramente formale e mai seguita da una effettiva presa di possesso del fondo; che su di esso non era stata realizzata alcuna opera fino a quest'ultima data; e che le prove orali e fotografiche espletate avevano confermato tale situazione di fatto. In tal modo la Corte di appello era incorsa pure in un errore di diritto posto che anche l'indennità di occupazione deve essere liquidata non per il solo fatto che è stato emesso il relativo decreto, ma quando sia fornita la prova di un reale pregiudizio per il proprietario: prova che deve risultare non dal mero verbale di consistenza del fondo, bensì dalla effettiva utilizzazione del terreno da parte dell'occupazione: anche perché in mancanza di essa trova applicazione la normativa dell'art. 20 della legge 865 del 1971 sulla inefficacia del decreto di occupazione, ove non seguito nel successivo trimestre dalla effettiva presa in possesso del bene.
Il motivo è in parte inammissibile ed in parte infondato.
L'amministrazione comunale non ha infatti contestato quanto accertato dalla sentenza impugnata, che cioè il consiglio comunale dell'ente con delibera 13 del 16 marzo 1989 aveva annullato l'intero procedimento espropriativo fino ad allora svolto, rinnovandolo con delibera 76/1990; cui aveva fatto seguito soltanto in data 29 giugno 1992 il nuovo decreto autorizzativo dell'occupazione temporanea del terreno; per cui per il periodo precedente è fuori luogo invocare le disposizioni delle leggi 2359/1865 e 865/1971 nonché i principi giurisprudenziali inerenti a questo istituto, non applicabile nell'ipotesi di occupazione illegittima di immobili da parte della p.a.: disciplinata esclusivamente dalla normativa dell'art. 2043 cod.civ., che perciò nel caso concreto è stata correttamente osservata dalla sentenza impugnata.
La Corte territoriale ha tuttavia accertato che in data 30 aprile 1990, con formale e regolare verbale, che nessuna delle parti ha impugnato, il comune si era immesso in possesso del fondo Bulfone (senza averne titolo); per cui ha giustamente applicato sia pure per analogia -e d'altra parte in conformità alle regole sull'onere della prova contenute nell'art. 2697 cod.civ. -, il principio secondo cui se è vero che non può lamentare alcun danno chi non ha perso il godimento del bene, è pur vero che la formale redazione di un verbale di immissione in possesso non resta priva di rilevanza: giacché fa presumere che il beneficiario dell'occupazione stessa si sia effettivamente impossessato dell'immobile e che il proprietario di questo subisca, durante l'occupazione, il duplice danno di aver perso la facoltà di godimento del bene e di vedersi limitata la facoltà di disporne. Con la conseguenza che, nell'ipotesi di avvenuta redazione del verbale di immissione in possesso, (che è atto diverso da quello di consistenza del bene), non è sul proprietario che incombe la prova di aver sofferto la perdita del possesso dell'immobile, bensì è il beneficiario di questo a doverne dimostrare la mancata effettiva esecuzione (Cass. 25523/2006; 13582/2002; 2583/2002).
Nella sentenza impugnata, inoltre, vi è un'articolata motivazione del convincimento della Corte territoriale in ordine all'assenza di detta prova da parte del comune: si fa riferimento, infatti, alla circostanza che quella testimoniale ha posto in evidenza soltanto il fatto del tutto pacifico che il comune nessun'opera e nessun lavoro vi aveva realizzato fino all'agosto 1992; e che quella fotografica aveva confermato l'assunto del proprietario ribadito nell'interrogatorio formale, che egli non aveva più utilizzato il fondo rimasto, dopo la presa di possesso dell'amministrazione, non coltivato ed abbandonato: a differenza del terreno di Eleonora Bulfone, la quale ne era ritornata in possesso soltanto per una limitata porzione.
Non è riscontrabile, quindi, neppure la mancanza od insufficienza di motivazione lamentata dal ricorrente; mentre le diverse valutazioni in fatto prospettate con la doglianza non possono trovare ingresso nel presente giudizio di legittimità, nel quale le valutazioni operate dal giudice del merito dei fatti e delle risultanze probatorie non sono censurabili, ove il convincimento dello stesso giudice sia - come nel caso di specie - sorretto da motivazione immune da vizi logici e giuridici.
6. Con il secondo motivo, il comune, deducendo altre violazioni delle norme già indicate,nonché dell'art. 115 cod.proc.civ. e vizi di motivazione, si duole che la Corte di appello abbia ritenuto ravvisabile nel caso un'ipotesi di occupazione appropriativa per l'inutile scadenza del periodo di occupazione temporanea in coincidenza con il termine del 16 agosto 1992 indicato nel decreto 29 giugno 1992: senza considerare che la stessa era consentita per 36 mesi e non poteva retroagire, come pur indicato nel provvedimento, dal 1989, in quanto siffatto potere non è attribuito al sindaco da alcuna norma di legge. E, d'altra parte l'art. 22 della legge 158 del 2001 aveva prorogato l'occupazione di un biennio, per cui qualunque interpretazione si fosse data al provvedimento che l'autorizzava, la stessa era ancora in corso alla data del decreto di esproprio, emesso il 5 agosto 1994; che aveva regolarmente concluso il procedimento espropriativo.
Anche questa censura è infondata: proprio per le ragioni esposte dall'amministrazione comunale che anzitutto il sindaco non poteva sanare ex post una occupazione svoltasi e protratta di fatto, senza provvedimento ablatorio; e perciò necessariamente disciplinata direttamente dal disposto dell'art. 2043 cod.civ. e non più da scelte discrezionali dell'ente pubblico o dai suoi poteri autoritativi. E che, quindi, il decreto sindacale 26 giugno 1992 laddove autorizzava l'occupazione temporanea del terreno Bulfone per 36 mesi a decorrere dalla precedente deliberazione n. 41 del 22 giugno 1989, si poneva in contrasto con i primi due commi dell'art. 20 legge 865/1971, per i quali detta occupazione deve necessariamente seguire il provvedimento amministrativo che la dispone, iniziare dalla data di immissione in possesso dell'immobile e protrarsi fino a 5 anni successivi a tale momento.
Senza considerare che nel caso concreto il comune ha annullato l'intero procedimento ablativo e, quindi, la prima dichiarazione di p.u. dell'opera del 1989 -da considerasi tamquam non esset, per il noto effetto retroattivo dei provvedimenti di annullamento; con la conseguenza che, mancando tale necessario presupposto,non sarebbe stato comunque possibile autorizzare l'occupazione di urgenza dell'immobile Bulfone: per tale ragione nuovamente disposta, dopo la rinnovazione della dichiarazione di p.u., con il menzionato decreto sindacale del 22 giugno 1992, il quale tuttavia ha stabilito quale termine finale per la stessa -non importa se in conseguenza dell'intendimento di farne retroagire gli effetti o per altre scelte operative- la data del 16 agosto 1992.
L'accertamento di tale scadenza da parte della sentenza impugnata non è infatti contestabile una volta che la stessa ha riferito non solo che tale data era "espressamente" apposta nel provvedimento quale termine finale dell'occupazione, ma che lo stesso sindaco del comune nel corso degli anni 1992 e 1993 aveva rivolto al Comitato di controllo numerose istanze per ottenere l'autorizzazione alla proroga di esso, una volta che il periodo originariamente indicato nel provvedimento era inutilmente spirato senza l'adozione del decreto di esproprio. E, d'altra parte non era consentito né alle parti, né al giudice aggiungere l'ulteriore termine di 36 mesi avente nel provvedimento originario tutt'altra funzione, si da modificarne il contenuto e da sostituirlo inammissibilmente con un provvedimento diverso da quello adottato dall'amministrazione comunale, avente quale scadenza la data del 29 giugno 1995,ovvero altra successiva; che l'atto, invece, non conteneva.
Pertanto del tutto correttamente la Corte di appello, essendo stato il decreto pronunciato il 22 giugno 1992, non ha applicato la proroga biennale introdotta dall'art. 22 della legge 158 del 1991, poiché ne difettava la condizione espressamente richiesta da detta legge, che l'occupazione d'urgenza fosse già "in corso" alla data della sua entrata in vigore; e preso atto che l'occupazione con esso autorizzata era scaduta il 16 agosto 1992, ha dichiarato che l'irreversibilmente trasformazione dell'immobile prima del sopravvenire del decreto di esproprio, ne ha pronunciato la cd. occupazione acquisitiva in capo al comune di Tavagnacco: perciò tenuto per l'illegittima ablazione, al risarcimento del danno arrecato ai proprietari.
7. Con il secondo motivo del ricorso principale, il Bulfone, deducendo numerose violazioni delle leggi urbanistiche 1150/1942 e 1187/1968, delle leggi 10/1977 ed 1 del 1978, nonché di quelle sull'espropriazione per p.u. censura la sentenza impugnata per aver determinato il danno per l'occupazione appropriativa subita con il criterio riduttivo introdotto dal comma 7 bis dell'art. 5 bis dato il carattere edificatorio del terreno: a) senza applicare l'ulteriore aumento del 10% previsto dalla menzionata norma ad integrazione della stima ridotta dalla stessa stabilita; b) recependo acriticamente le risultanze della c.t.u. che aveva determinato il prezzo in comune commercio dell'immobile con riferimento alla zona B e non a quella A ove lo stesso era ubicato, avente un indice di fabbricabilità più elevato; e muovendo dall'erroneo presupposto che altrimenti il terreno sarebbe stato inedificabile per il limite posto dallo strumento urbanistico alla ricostruzione ed al restauro degli edifici già esistenti; c) non aveva tenuto né degli atti di vendita di terreni della zona A, da esso ricorrente prodotti, si era avvalso del minore indice di edificabilità della zona B, pari a 1, 2 mc/mq.; d) non aveva tenuto conto neppure dei danni sofferti dalla propria attività imprenditoriale che doveva invece essere ristorata in base alla normativa contenuta nell'art. 15 della legge 865/1971.
Le censure sono fondate nei limiti appresso precisati.
La più recente giurisprudenza di questa Corte ha ripetutamente affermato (Cass. sez. un.19551/2003, nonché 9683/2000; 4838/2000) che anche per la determinazione del danno da occupazione appropriativa, vale la suddivisione su cui è impostato il sistema dell'art. 5 bis della legge 359 del 1992, tra aree edificabili ed aree prive di siffatta destinazione, che non è disapplicabile in nome di una più congrua reintegrazione patrimoniale del proprietario del fondo; e valgono, di conseguenza, i principi sulla rilevanza delle "possibilità legali ed effettive di edificazione", associata ad una verifica oggettiva e non legata a valutazioni opinabili, che può esser data solo dalla classificazione urbanistica dell'area in considerazione E che induce ad attribuire alla stessa destinazione edificatoria solo se, e per il solo fatto che, come tale, essa risulti classificata al momento dell'apposizione del vincolo espropriativo dagli strumenti urbanistici, secondo un criterio di prevalenza o autosufficienza della edificabilità legale.
In ottemperanza a questi principi la Corte di appello ha accertato che il terreno Bulfone ricadeva in zona residenziale di tipo "A" del P.R.G. comunale entrato in vigore il 15 maggio 1992 (pag. 22 e 23 sent.), e che a tali terreni aventi perciò destinazione edificatoria era stato attribuito l'indice massimo di fabbricabilità di 3 me/mg. previsto da detto strumento urbanistico; e non ha d'altra parte considerato il vincolo sull'area a parcheggio imposto dalla ricordata delibera comunale del 1990, in base alla regola posta dall'art. 5 bis, 3° comma, secondo la quale nella stima dell'area espropriata deve prescindersi dal vincolo preordinato all'esproprio.
E tuttavia la giurisprudenza ha specificato altresì che la destinazione urbanistica ad usi edilizi della zona cui appartiene il fondo, quale presupposto necessario a conferire in astratto la natura edificatoria, deve essere completata dalle condizioni che in concreto inducono a determinarne il valore venale (cd. "edificabilità di fatto"), con riferimento in primo luogo ad essa e ad essa soltanto; per cui la determinazione del valore del fondo può avvenire sia con metodi analitico-ricostruttivi, tesi ad accertare il valore di trasferimento del fondo; sia con metodi sintetico-comparativi, volti invece a desumere dall'analisi del mercato il valore commerciale del fondo.
Ove, infatti, si privilegino questi ultimi (come rientra nei poteri discrezionali del giudice di merito e come ha fatto in concreto la Corte di appello) devono prendersi a comparazione esclusivamente immobili omogenei, aventi perciò analoga disciplina urbanistica (Da ultimo Cass. 22961/2007): e non certamente aree ubicate in altre zone soggette a diversa disciplina urbanistica e perciò prive di qualsiasi rappresentavita rispetto ai fondi da valutare: come hanno fatto la consulenza tecnica e la sentenza impugnata avvalendosi come indice di comparazione del prezzo in comune commercio di fondi inclusi nella zona B. Mentre se la decisione avesse inteso avvalersi del metodo cd. analitico ricostruttivo doveva effettuare il calcolo in base all'indice urbanistico 3 me/ma. peculiare della zona A cui apparteneva l'immobile e non in base a quello di 1,2 mc/mq. della zona B (Cass. 1161/2007; 13958/2006; 3766/2006): a nulla perciò rilevando che quest'ultimo fosse stato prescelto dal c.t.u. per il fatto che "nella zona A non vi è la possibilità di edificare se non nell'ambito di progetti attuativi e le aree libere risultano inedificabili". In quanto a prescindere dalla insanabile contraddizione con l'accertata esistenza di un indice di edificabilità più elevato proprio nella zona A, e con lo stralcio dello strumento urbanistico relativo a quest'ultima zona riportato in ricorso (e non contestato dal comune) che detto indice conferma, la Corte deve ribadire che l'edificabilità va da un minimo (tendente a zero) ad un massimo, con una vasta gamma di situazioni quantitative intermedie su cui incide in misura determinante proprio l'edificabilità effettiva - quale attitudine del suolo ad essere sfruttato e concretamente destinato a fini edificatori; e può venir ridotta (o addirittura esclusa) non soltanto dalle caratteristiche morfologiche della zona e da altre circostanze ostative di fatto a realizzazioni edilizie (Casa. 22961/2007 cit.; 18680/2005; 1025/2004; 16710/2003; 1739/2003) ma ancor prima dalle specifiche disposizioni urbanistiche riguardanti altezze, cubature, distanze, zone di rispetto, limiti e rapporti per zone omogenee e simili; le quali vengono perciò a completare i presupposti necessari a conferire in astratto natura edificatoria ad un'area e devono necessariamente venir osservate nella determinazione del suo concreto valore venale.
Di modo che, nella formula sopra citata (possibilità legali ed effettive di edificazione), l'edificabilità di fatto, lungi dal costituire elemento pleonastico, va considerata come il complesso delle condizioni che in presenza della destinazione urbanistica all'edificabilità, inducono alla determinazione del valore in concreto dell'area (Cass. 2871/2005; 1739/2003, nonché sez. un. 172/2001) : e per il suo apprezzamento assumono questa volta rilievo gli strumenti attuativi di terzo livello invece inidonei ad incidere sul requisito dell'edificabilità legale dell'area. Per cui il giudice di rinvio dovrà tenere conto di tutti questi elementi.
8. Il Collegio deve aggiungere che nelle more del giudizio il criterio di stima delle aree edificabili stabilito dal menzionato comma 7 bis dell'art. 5 bis è venuto meno per effetto della recente sentenza 349 del 2007 della Corte Costituzionale, che, accogliendo il dubbio sollevato da questa Corte di Cassazione con l'ordinanza di rimessione 11887 del 2006, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del comma 7° bis del menzionato art.5 bis: perché la norma, non prevedendo un ristoro integrale del danno subito per effetto dell'occupazione acquisitiva da parte della pubblica amministrazione, corrispondente al valore di mercato del bene occupato, è in contrasto con gli obblighi internazionali sanciti dall'art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU e per ciò stesso viola l'art. 117, primo comma, della Costituzione. Ciò perché la Corte europea con specifico riferimento alla disciplina dell'occupazione illegittima ha ritenuto che la liquidazione del danno stabilita in misura superiore all'indennità di espropriazione, ma in una percentuale non apprezzabilmente significativa, non permette di escludere la violazione del diritto di proprietà, cosi come è garantito dalla norma convenzionale; ed ha da tempo affermato espressamente che il risarcimento del danno deve essere integrale e comprensivo di rivalutazione monetaria a far tempo dal provvedimento illegittimo. E perché, d'altra parte, anche alla luce "delle conferenti norme costituzionali, principalmente dell'art. 42, non si può fare a meno di concludere che il giusto equilibrio tra interesse pubblico ed interesse privato non può ritenersi soddisfatto da una disciplina che permette alla pubblica amministrazione di acquisire un bene in difformità dallo schema legale e di conservare l'opera pubblica realizzata, senza che almeno il danno cagionato, corrispondente al valore di mercato del bene, sia integralmente risarcito".
Pertanto dal giorno successivo alla pubblicazione di questa decisione (art. 136 Costit. e 30, 3° comma legge 87 del 1953) non è più possibile applicare il meccanismo riduttivo introdotto dall'art. 5 bis,comma 7° bis a meno che il rapporto non sia ormai esaurito in modo definitivo, per avvenuta formazione del giudicato o per essersi verificato altro evento cui l'ordinamento collega il consolidamento del rapporto medesimo, ovvero per essersi verificate preclusioni processuali, o decadenze e prescrizioni non direttamente investite, nei loro presupposti normativi, dalla pronuncia d'incostituzionalità (Cass. 16450/2006; 15200/2005; 22413/2004): così come, del resto, stabiliva l'art. 5 bis citato, con riguardo al passaggio in giudicato della definizione dell'indennità di espropriazione, in sede giudiziale.
Si deve aggiungere che nelle more del giudizio è intervenuto l'art. 2 della legge 244 del 2007, il cui comma 89 sub e) ha modificato l'art. 55 del T.U. sulle espropriazioni per p.u. appr. con d.p.r. 327/2001, disponendo che "nel caso di utilizzazione di un suolo edificabile per scopi di p.u., in assenza del valido ed efficace provvedimento di esproprio alla data del 30 settembre 1996, il risarcimento del danno è liquidato in misura pari al valore venale del bene"; per cui siccome il Bulfone con i motivi di impugnazione ne ha rimesso in discussione il quantum impedendo la definitiva ed immodificabile determinazione da parte della Corte di appello, il giudice di rinvio dovrà ricalcolarlo in base al parametro reintrodotto da quest'ultima norma.
Detto indennizzo, essendo destinato ex art. 42 Costit. a tener luogo del bene espropriato, non può tuttavia superare in nessun caso il valore che esso presenta, in considerazione della sua destinazione legale (il valore cioè che il proprietario ne ritrarrebbe se decidesse di porlo sul mercato con la destinazione stabilita dallo strumento urbanistico); e perciò non può tener conto di altre destinazioni di fatto impresse dal proprietario, quale quella prospettata dal Bulfone il quale ha dedotto di essere in possesso di autorizzazione alla gestione di un esercizio commerciale per la vendita di prodotti alimentari ed agricoli: né del valore dell'azienda, rimasta estranea all'espropriazione dell'immobile.
D'altra parte, lo stesso ricorrente ha invocato al riguardo il disposto dell'art. 15 della legge 865 del 1971, che imponendo di tener conto nella stima della indennità, del valore agricolo del bene, anche in relazione all'esercizio dell'azienda agricola, si riferisce esclusivamente all'ipotesi qui non ricorrente di terreni cui lo strumento urbanistico generale non abbia riconosciuto destinazione edificatoria; e la valutazione debba avvenire se si tratti di espropriazione legittima, mediante il criterio riduttivo tabellare di cui al successivo art. 16. Mentre se deve liquidarsi il danno per l'occupazione appropriativa, deve essere compiuta all'interno della categoria suoli inedificabili, in conseguenza di una destinazione del bene pur diversa da quella agricola, ma ugualmente compatibile con la sua ormai accertata inedificabilità: e perciò con prezzi di mercato ben lontani da quelli assai più elevati peculiari del mercato edilizio utilizzati per accertare il valore del terreno Bulfone: avente, invece destinazione edificatoria.
9. Assorbito pertanto l'ultimo profilo della censura relativo alla liquidazione degli interessi sulla somma dovuta a titolo di risarcimento del danno, la Corte deve cassare la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto; con rinvio alla Corte di appello di Trieste in diversa composizione che provvedere ad una nuova liquidazione di detto risarcimento attenendosi ai principi esposti, nonché alla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.

La Corte, riunisce i ricorsi, dichiara estinto quello incidentale nei confronti di Eleonora Bulfone ed Aurelia Marini; accoglie il secondo motivo di quello principale, respinge tutti gli altri sia del ricorso principale, che dell'incidentale; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia anche per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità alla Corte di appello di Trieste, in diversa composizione.
Cosi, deciso in Roma il 13 febbraio 2008.
Il Consigliere est.
Il Presidente
Depositata in segreteria il 31 marzo 2008.

domenica 27 aprile 2008

TAR LOMBARDIA - MILANO, SEZ. II - sentenza 18 aprile 2008 n. 1229

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE PER LA LOMBARDIA
(Sezione II)

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

Sul ricorso n.5004/1997 proposto da
Luigi Galli, Attilia e Aldo Briata, Itala Binda, Pierangelo Cirea e Marisa Allevi, tutti rappresentati e difesi dall’ Avv. Liberto Losa, elettivamente domiciliati in Milano, Via L. Mascheroni 19;

contro

Comune di Gallarate, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avv. Roberto Bono, elettivamente domiciliato in Milano, Via Foro Bonaparte 63;

e nei confronti di

Ester Bertelli, rappresentata e difesa dall’Avv.Romano Cajelli, elettivamente domiciliata in Milano, Piazza S. Maria Beltrade 2;

per l'annullamento

della D.I.A. presentata ai sensi dell’art 2 L. 662/96 al Comune di Gallarate dai Sigg. Ester Bertelli e Siro Bonicalzi in data 30.4.97 relativa alla posa in opera di un cancello su passo carraio privato in Gallarate, Via Passo Valles 18;
del provvedimento prot. 1060/739 del 2.7.97 a firma del Direttore del Dipartimento per il Territorio del Comune di Gallarate con cui si è preso atto, con effetto di sostanziale assenso, dell’avvenuta presentazione della DIA;
di tutti gli atti ad esso preordinati, consequenziali o comunque connessi.
VISTO il ricorso con i relativi allegati;
VISTI gli atti di costituzione in giudizio del Comune intimato e della controinteressata;
VISTI gli atti tutti della causa;
Uditi, ai preliminari della pubblica udienza del 12 Marzo 2008, relatore il Ref. Silvana Bini, l’Avv.Ferrari in sostituzione dell’Avv. Losa per parte ricorrente e l’Avv.Bono per l’Amministrazione Comunale resistente;
Considerato in fatto ed in diritto quanto segue:

FATTO

I ricorrenti espongono:
- di essere proprietari di aree, nel Comune di Gallarate, sulle quali sorgono edifici ad uso residenziale, cui si accede principalmente da Via Passo Valles;
- che nell’ultima settimana di luglio 1997 è stato realizzato un cancello che inibisce il transito pedonale e veicolare della stessa strada;
- di aver appreso, a seguito di verifiche, che in data 30.4.1997 i Sigg. Bertelli e Bonicalzi hanno depositato in Comune una DIA per la realizzazione del suddetto cancello e che con atto del 2.7.97 prot. 10060/793 il Direttore del Dipartimento per il Territorio del Comune di Gallarate ha preso atto, con effetto di sostanziale assenso dell’avvenuta presentazione della DIA.
Avverso gli atti in epigrafe indicati i ricorrenti articolano i seguenti motivi di censura:
Violazione e falsa applicazione di legge: art 2 comma 60 L. 662/96; art 11 L. 1150/42 in relazione al PRG di Gallarate; art 31 L. 1150/42; eccesso di potere per travisamento e illogicità manifesta;
Parte ricorrente sostiene che la strada è inserita nel tratto viario comunale e quindi il manufatto realizzato dai controinteressati si pone in contrasto con la destinazione di zona.
Si costituivano in giudizio il Comune e la controinteressata, sollevando eccezioni di inammissibilità del ricorso e chiedendo il rigetto del ricorso.
Con ordinanza istruttoria n. 173 del 19.12.2007 venivano richiesti chiarimenti in ordine al giudizio civile innanzi al giudice ordinario, relativo alla esistenza del diritto di passaggio sulla Via Valles a favore dei ricorrenti.
In data 19.2.2008 i ricorrenti depositavano copia della sentenza della Corte di Appello di Milano, in cui veniva riconosciuto a favore dei Sigg. Cirea e Allevi il diritto di servitù di passaggio a favore dei mapp. 496, 2697 e 1722 a carico del mapp. 668 da esercitarsi lungo il confine.
Alla pubblica udienza del 12 Marzo 2008, la causa è stata trattenuta dal Collegio per la decisione.

DIRITTO

1) I ricorrenti gravano la DIA con cui è stata assentita la posa di un cancello a chiusura di una strada, unitamente al provvedimento con cui il Tecnico Comunale prende atto dell’avvenuta presentazione della DIA. Stante l’esistenza di un provvedimento esplicito di presa d’atto della DIA, con cui il Comune ha espressamente attestato, all’esito dell’istruttoria tecnica, l’ammissibilità dell’intervento previsto dalla d.i.a. in questione, si deve respingere l’eccezione relativa alla diretta impugnabilità della d.i.a.
2) Vanno respinte anche le ulteriori due eccezioni, relative l’una alla carenza di interesse e l’altra all’inammissibilità del ricorso per indeterminatezza dei motivi. Partendo da quest’ultima si osserva che l’onere della specifica esposizione dei motivi su cui il gravame è fondato, con l'indicazione delle disposizioni di legge o di regolamento che si ritengono violate è assolto quando il ricorso giurisdizionale, complessivamente considerato, evidenzia quelle circostanze dalle quali possa desumersi il vizio denunciato e gli elementi costitutivi della fattispecie, da cui discende la pretesa azionata. Nel caso di specie, seppure in forma non analitica, detto onere si deve ritenere assolto,in quanto i ricorrenti hanno indicato la situazione di fatto e le disposizioni che riterrebbero violate dalla DIA impugnata.
Parimenti si deve riconoscere un interesse in capo ai ricorrenti, che, dall’accoglimento del ricorso affermano di poter esercitare il passaggio su Via Passo Galles, facoltà attualmente preclusa a causa proprio del posizionamento del cancello.
3) Passando all’esame del merito del ricorso, il Collegio osserva che parte ricorrente sostiene l’illegittimità del provvedimento in quanto il cancello assentito determina l’impossibilità di esercitare il transito pedonale e carraio su una strada vicinale destinata da tempo immemorabile all’uso pubblico.
La giurisprudenza ha riconosciuto l’illegittimità di ogni interclusione a strade, anche private o vicinali, soggette a servitù di pubblico transito.
Il presupposto è però che si tratti di una strada pubblica o privata soggetta a servitù di pubblico transito.
A tal fine si richiede la sussistenza dei requisiti del passaggio (esercitato iure servitutis publicae da una collettività di persone qualificate dall'appartenenza ad un comunità territoriale), della concreta idoneità della strada a soddisfare esigenze di generale interesse (anche per il collegamento con la pubblica via) e del titolo valido a sorreggere l'affermazione del diritto di uso pubblico, che può identificarsi anche nella protrazione dell'uso stesso da tempo immemorabile (ex multis, Cons. Stato, Sez. V, 4 febbraio 2004 n. 373; T.A.R. Emilia Romagna Parma, 25 maggio 2005, n. 287).
Nel caso di specie l’affermazione dei ricorrenti sull’esistenza della servitù di pubblico transito sull'area interessata non è stata supportata da elementi probatori, necessari a rivelare la sussistenza del suddetto diritto in capo alla collettività.
Nè la sentenza della Corte d’Appello di Milano, con cui ai ricorrenti è stato riconosciuta la servitù di passaggio sulla strada che corre sul confine dei mappali collegando gli immobili di loro proprietà con la Via Passo Valles, può essere elemento che prova la servitù di pubblico passo, in quanto in detta pronuncia viene riconosciuto un diritto solo ai proprietari del fondo limitrofo, diritto per il cui esercizio possono agire in sede civile.
L’Amministrazione ha quindi assentito il posizionamento di un cancello precludendo il passaggio su un’area, che, stando alla documentazione prodotta, non può qualificarsi come strada pubblica, né coma strada strade soggetta a servitù di pubblico transito, ma al più strada gravata da servitù di passaggio a favore di un altro mappale.
3) Conclusivamente il ricorso deve essere respinto.
In considerazione della complessità della situazione di fatto, le spese di giudizio vengono compensate.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia, Sez. II, definitivamente pronunciando sul ricorso in epigrafe, lo respinge.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa.
Così deciso in Milano, nella Camera di Consiglio del 12 Marzo ’08 e del 9 Aprile ‘08, con l'intervento dei magistrati:
Mario Arosio - Presidente
Silvana Bini – Referendario est.
Carmine Russo - Referendario
Depositata in data 18 aprile 2008.

martedì 22 aprile 2008

Consiglio di Stato, V, 14 aprile 2008, n. 1600

REPUBBLICA ITALIANA N. 1600/08 REG.DEC.

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO N. 1606 REG.RIC.


Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, (Quinta Sezione) ANNO 2007

ha pronunciato la seguente


SENTENZA


sul ricorso n. 1606/07 Reg. Gen., proposto da IMPIANTI ELETTRICI CIMITERIALI A. PIAZZOLI s.r.l., in persona del legale rappresentante in carica, rappresentata e difesa dagli Avv.ti Enzo Robaldo e Pierfrancesco della Porta, elettivamente domiciliata presso il secondo in Roma, via Lorenzo Valla n. 2;

CONTRO

il Comune di Novate Milanese, in persona del Sindaco in carica, rappresentato e difeso dagli Avv.ti Marco Locati e Antonella Giglio, elettivamente domiciliato presso il secondo in Roma, via A. Gramsci n. 14;

E NEI CONFRONTI

di ZANETTI IMPIANTI ELETTRICI s.r.l., in persona del legale rappresentante in carica, rappresentata e difesa dall’Avv. Francesco Adavastro ed elettivamente domiciliata presso lo studio del dott. Alfredo Placidi in Roma, via Cosseria n. 2;

per la riforma

della sentenza 9 gennaio 2007 n. 4 del Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, sede di Milano, sezione prima, resa tra le parti.

Visto il ricorso con i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio delle parti intimate;

Vista l’ordinanza collegiale 17 maggio 2007 n. 2473;

Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;

Visti gli atti tutti della causa;

Alla pubblica udienza del 29 gennaio 2008, relatore il consigliere Angelica Dell'Utri, uditi gli avv.ti Ribaldo, Giglio e Adavastro;

Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue:


F A T T O


Con ricorso notificato i giorni 15, 16 e 17 febbraio 2007 e depositato il 22 seguente la Impianti ELETTRICI Cimiteriali A. Piazzoli s.r.l. (costituita a seguito di trasformazione da Impianti Elettrici Cimiteriali A. Piazzoli di Manferdi Mara & C. s.n.c.) ha proposto appello avverso la sentenza 9 gennaio 2007 n. 4 del TAR Lombardia, Milano, Sez. I, con la quale, a seguito dell’accoglimento del ricorso incidentale proposto da Zanetti Impianti Elettrici s.r.l., è stato dichiarato inammissibile il suo ricorso diretto all’annullamento della gara indetta dal Comune di Novate Milanese per l’affidamento in concessione a trattativa privata del servizio di illuminazione elettrica votiva delle aree cimiteriali per gli esercizi finanziari 2006-2011.

L’appellante ha premesso di aver partecipato, ancora in forma di società in nome collettivo, a tale procedura unitamente alla predetta Zanetti restata aggiudicataria per aver presentato l’offerta più vantaggiosa, nonostante ella in sede di gara ne avesse chiesto l’esclusione per mancata produzione del piano economico. La predetta pronuncia, che muove dalla qualificazione della concessione in questione come di pubblico servizio con conseguente applicabilità alla fattispecie dell’art. 113, co. 5, lett. a), del D.Lgs. n. 267 del 2000, si basa sulla qualità di società di persone dell’Impresa ricorrente, ossia di soggetto al quale non può essere conferita la titolarità del servizio a norma della disposizione indicata.

A sostegno dell’appello la Piazzoli ha dedotto:

A.- Sull’erroneità dell’appellata sentenza.

1.- Inammissibilità del ricorso incidentale proposto da Zanetti.

La sentenza non si è pronunciata sulla sua eccezione secondo cui nella lex specialis il Comune non ha mai qualificato la procedura concorsuale come gara preordinata all’affidamento di un “servizio pubblico locale” e non ha neppure richiamato il cit. art. 113, anzi ha strutturato la gara secondo altre disposizioni normative, cioè il D.Lgs. n. 358/92 che, analogamente a quanto previsto dall’art. 34 D.Lgs. 163/2006, non prevede limitazioni alla partecipazione a gare basate sulla natura giuridica dei concorrenti, tanto che sono state invitate altre società di persone ed un’unica società di capitali. Quindi era inammissibile il ricorso incidentale di Zanetti, con il quale erano stati impugnati soltanto i verbali della commissione nella parte in cui Piazzoli non era stata esclusa e non anche la lex specialis di gara, in particolare la lettera d’invito (non potendo essa ritenersi compresa nella dizione di stile “gli altri atti e provvedimenti inerenti la medesima procedura”), la cui impugnazione, in presenza del ricorso principale dell’altra sola concorrente Piazzoli volto a contestare sotto vari profili la stessa lex specialis, avrebbe peraltro condotto all’annullamento degli atti contestati ed al conseguente rinnovo delle operazioni concorsuali. Né l’onere di impugnare espressamente la lex specialis vale per il ricorrente principale e non per quello incidentale.

2.- Inidoneità del ricorso incidentale a neutralizzare l’interesse a ricorrere della Piazzoli.

In subordine, poiché nella specie erano in discussione gli esiti di una procedura selettiva ristretta a soli due concorrenti e si contestava sia in via principale che in via incidentale la lex di gara, il TAR avrebbe dovuto semmai adottare una pronuncia di annullamento dell’intera gara che fosse di impulso alla rinnovazione delle operazioni concorsuali; peraltro, il ricorso principale andava esaminato prioritariamente perché involgente una fase antecedente a quella dell’ammissione dei concorrenti. Né può escludersi l’interesse della Piazzoli perché all’epoca dell’indizione della gara era una società di persone, essendo la gara riservata a società di capitali, posto che l’affidamento in questione, avente un oggetto complesso, non era mai stato qualificato dal Comune come “servizio pubblico locale” e, d’altra parte, in sede di rinnovazione la stessa Piazzoli sarebbe comunque legittimata a partecipare avendo nel frattempo mutato la propria natura giuridica.

3.- Infondatezza del ricorso incidentale proposto dalla Zanetti.

3.1.- In ulteriore subordine, l’affidamento di cui trattasi non può essere ricondotto nel campo di applicazione del cit. art. 113 poiché l’attività di illuminazione votiva non rientra nell’ambito dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, bensì in quella dei servizi, la cui concessione differisce dall’appalto sol perché il corrispettivo è il diritto a gestire i servizi, sicché si trasferisce al concessionario l’alea della gestione economica (di qui la necessità della presentazione in sede di gara del piano economico finanziario della gestione). Pertanto l’affidamento dell’attività illuminazione votiva è regolato dalla disciplina delle concessioni di servizi e non dalle specifiche regole che riguardano l’affidamento dei servizi pubblici locali, né (come ritiene il Comune, che lo qualifica “contratto attivo”) può ritenersi escluso dalla disciplina prevista per gli appalti comunitari, la quale non consente la discriminazione dei potenziali concorrenti in ragione della forma societaria. D’altra parte, la L.R. Lombardia 12 dicembre 2003 n. 26, concernente i servizi pubblici locali, non annovera nel proprio ambito di applicabilità il servizio di illuminazione votiva cimiteriale; ma quand’anche si ritenesse servizio pubblico locale, la stessa legge regionale non prevede alcuna limitazione per detta ragione.

3.2.- In ogni caso, alla stregua del criterio della prevalenza economica in base ai contenuti sostanziali effettivi del rapporto, ed a prescindere dal nomen iuris attribuito dalle parti, è possibile qualificare l’affidamento in parola come concessione di costruzione e gestione piuttosto che di servizi, atteso che le attività sussumibili nel concetto di servizi sono minoritarie, mentre assolutamente prevalente è la manutenzione; ed in materia di lavori le disposizioni normative sia comunitarie che nazionali non consentono la limitazione di cui sopra.

4.- Contrarietà dell’art. 113, co. 5, D.Lgs. n. 267/2000 rispetto al diritto comunitario.

Nella parte in cui non consente alle società di persone di concorrere per l’affidamento dei servizi pubblici locali, la detta norma dev’essere disapplicata per contrarietà rispetto al diritto comunitario o, sospeso il giudizio, va rimessa alla Corte di Giustizia della CE la questione pregiudiziale concernente la compatibilità della medesima con i principi comunitari individuati dagli artt. 39 (libera circolazione dei lavoratori all’interno della Comunità), 43 (libertà di stabilimento), 48 e 81 (intese restrittive della concorrenza) del Trattato istitutivo della CE; questione, del resto, già rimessa dal TAR Lombardia in relazione ad un affidamento del servizio pubblico di igiene ambientale connesso alla raccolta dei rifiuti, per cui non si comprende come non abbia ritenuto di adottare analogo provvedimento nel caso in esame, richiedente peraltro un’organizzazione imprenditoriale più semplice rispetto a quel servizio.

5.- Illegittimità costituzionale in relazione all’art. 113, co. 5, D.Lgs. n. 267/2000.

La stessa norma contrasta altresì con gli artt. 3 (con riferimento all’art. 34, D.Lgs. n. 163/2006) e 117, co. 1, Cost., essendo lo Stato tenuto a rispettare i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario nell’esercizio della potestà legislativa.

B.- Sulla fondatezza del ricorso principale proposto dinanzi al TAR per la Lombardia.

6.- Violazione di legge (artt. 3. co. 8, L. n. 415/1998 e 19, co. 2 bis, L. n. 109/1994). Eccesso di potere per contraddittorietà, irragionevolezza ed indeterminatezza della lex specialis di gara. Eccesso di potere per travisamento e difetto di istruttoria. Violazione delle norme e dei principi generali in materia di gare pubbliche.

In materia di concessioni di servizi, come definite dal diritto comunitario, il piano economico finanziario è documento imprescindibile dell’offerta e la sua congruenza rappresenta condizione preliminare ed essenziale per garantire l’attendibilità della proposta e la sua concreta fattibilità in relazione alla concessione posta in gara, tanto che è specificamente previsto dal combinato disposto degli artt. 3, co. 8, L. n. 415/1998 e 19, co. 2 bis, L. n. 109/1994, nonché degli artt. 30, co. 7, e 143, co. 7, D.Lgs. n. 163/2006.

E’ dunque evidente che Zanetti, non avendo presentato tale piano, avrebbe dovuto essere esclusa dalla gara anche nel caso in cui la concessione possa essere definita di lavori e non di servizi, con conseguente aggiudicazione in favore di Piazzoli, unica ad aver prodotto regolare offerta. In subordine, ove si ritenesse che Zanetti non poteva essere esclusa perché la lex di gara non prescriveva la produzione del piano, quest’ultima andrebbe annullata perché formulata in violazione delle dette disposizioni.

7.- Violazione di legge (art. 97 Cost., D.Lgs. n. 157/1995). Eccesso di potere per irragionevolezza, contraddittorietà e perplessità della lex specialis di gara. Violazione delle norme e dei principi generali in materia di gare pubbliche.

In subordine, la lex di gara è illegittima poiché il Comune ha fatto applicazione dell’art. 11 del D.Lgs. n. 358/1992 in materia di pubbliche forniture, inconferente rispetto all’oggetto dell’affidamento costituito da una concessione di servizi, invece del più rigoroso art. 12 del D.Lgs. n. 157/1995.

8.- Violazione di legge (art. 97 Cost., artt. 30, 31 e 38 Direttiva 2004/18/ CE, artt. 7 e 10, D.Lgs. n. 157/1995 e/o artt. 7 e 9 D.Lgs. n. 358/1992). Eccesso di potere per irragionevolezza della lex specialis di gara. Eccesso di potere per travisamento, difetto di istruttoria e di motivazione. Violazione delle norme e dei principi generali in materia di par condicio, massima partecipazione, pubblicità e trasparenza.

In ogni caso, la procedura è illegittima perché non vi erano i presupposti per procedere a trattativa privata e perché non sono stati concessi alle imprese partecipanti termini adeguati per la formulazione delle offerte.

8.1.- In particolare, a norma delle regole comunitarie vi era l’obbligo di procedere all’affidamento mediante gara (principi della parità di trattamento e di non discriminazione secondo la nazionalità), di adeguata pubblicità (principi di trasparenza e di non discriminazione), oltre che di fissare una durata non eccessiva della concessione (principio della proporzionalità), di accettare specifiche tecniche, controllo, certificati e qualifiche prescritti in altri Stati membri (principio di mutuo riconoscimento).

8.2.- Quanto al ricorso alla trattativa privata, l’Amministrazione non ha fornito alcuna motivazione sulle relative ragioni e comunque non ne sussistevano i presupposti prescritti dagli art. 9, D.Lgs. n. 358/92 o 30 e 31, Direttiva 2004/18/CE.

8.3.- E’ stato previsto un termine per la ricezione delle offerte (19 maggio 2006, cioè 22 giorni dalla lettera d’invito inviata il 28 aprile 2006) eccessivamente ristretto e, in ogni caso, nettamente inferiore a quello previsto in materia dall’art. 10, D.Lgs. n. 157/95, ovvero dagli artt. 7, D.Lgs. n. 358/92 o 38, cit. Direttiva, pari a 40 giorni dalla data di spedizione della lettera d’invito. Né è stata fornita motivazione sull’urgenza tale da giustificare il mancato rispetto del detto termine.

Qualora si ritenessero non applicabili direttamente le menzionate disposizioni, esse costituirebbero comunque un parametro di ragionevolezza, nella specie comunque violato. Né vale opporre che ella è riuscita a presentare offerta, poiché i termini in questione sono posti affinché un’impresa possa elaborare un’offerta sufficientemente ponderata.

9.- I predeterminati criteri di valutazione dell’offerta economicamente più vantaggiosa non sono corretti, laddove è stato stabilito di attribuire fino a ben 60 punti su 100 allo “importo fisso di concessione”, che così è risultato determinante, mentre avrebbero dovuto privilegiarsi le ragioni dell’utenza (“canone annuo a favore dell’utenza” e “quota di allacciamento nuova utenza”, invece valutabili con punti fino a 30 e, rispettivamente, 10).

C.- Domanda risarcitoria, configurabile nel duplice contenuto del danno emergente e del lucro cessante.

Il Comune e la Zanetti si sono costituite in giudizio ed hanno svolto difese.

Con ordinanza 17 maggio 2007 n. 2473 la trattazione della causa è stata rinviata, in attesa della pronuncia in via pregiudiziale della Corte di Giustizia delle Comunità europee sulla questione dell’interpretazione della normativa comunitaria in relazione alla compatibilità con essa o meno, tra l’altro, dell’art. 113, comma 5, del D.Lgs. 18 agosto 2000 n. 267 ss.mm.ii. nella parte in cui riserva ai soli operatori che rivestono la forma giuridica di “società di capitali” la possibilità di ottenere l’affidamento di servizi pubblici locali.

In date 16 e 17 ottobre 2007, 21 e 22 gennaio 2008 le parti hanno prodotto ulteriori memorie.

All’odierna udienza pubblica l’appello è stato posto in decisione.

D I R I T T O


1.- Si controverte della gara a “trattativa privata ai sensi dell’art. 9 lettera d) del D.Lgs. 358/92”, da aggiudicarsi con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, indetta dal Comune di Novate Milanese con lettera d’invito in data 28 aprile 2006 per l’affidamento in concessione per cinque anni, rinnovabile per altri quattro anni, del servizio di “gestione, integrazione, sostituzione e manutenzione del sistema di illuminazione elettrica votiva su cappelle, colombari, ossari, cinerari, lapidi, concessioni temporanee, ecc. entro le perimetrazioni dei cimiteri del Comune di Novate Milanese, con diritto di esclusiva del concessionario”.

A tale gara hanno partecipato la Zanetti Impianti Elettrici s.r.l. e la Impianti Elettrici Cimiteriali A. Piazzoli & C. s.n.c.; la prima è risultata aggiudicataria. La seconda è insorta avanti al TAR Lombardia, chiedendo l’annullamento dell’aggiudicazione, non avendo la Zanetti prodotto il piano economico finanziario, nonché, in subordine ed in via gradata, dell’intera gara in quanto la relativa lex specialis non aveva prescritto la presentazione di tale documento, per aver la stessa lex di gara applicato il D.Lgs. n. 358 del 1992 in materia di forniture anziché il D.Lgs. n. 157 del 1995 in materia di servizi e, infine, per carenza dei presupposti della trattativa privata, fissazione di termini non adeguati alla formulazione delle offerte e, comunque, per omessa motivazione in ordine alle ragioni del ricorso alla trattativa privata. La società Impianti Elettrici ha chiesto, inoltre, il risarcimento del danno.

A sua volta la Zanetti ha proposto ricorso incidentale finalizzato all’esclusione della ricorrente principale in quanto società di persone e non di capitali, come tale carente del requisito di partecipazione a gara per la concessione di servizi pubblici a termine dell’art. 113 , comma 5, lett. a), del D.Lgs. n. 267 del 2000.

Con la sentenza n. 4 del 2007, appellata in questa sede, il TAR ha dichiarato inammissibile il ricorso principale in accoglimento del ricorso incidentale.

2.- Col primo motivo di appello la Impianti Elettrici Cimiteriali A. Piazzoli, nel frattempo trasformatasi in società a responsabilità limitata, si duole che il ricorso incidentale di primo grado non sia stato dichiarato inammissibile per omessa impugnazione della lex di gara, non prevedente limitazioni alla partecipazione in base alla natura giuridica del concorrente e neppure che si trattasse di concessione di servizi pubblici alla quale fosse applicabile il cit. art. 113, in effetti non richiamato.

Al riguardo, la Sezione osserva che ai fini della qualificazione del servizio da commettere come di “servizio pubblico locale”, la Zanetti non avrebbe potuto ritenersi onerata ad impugnare la lex specialis che tanto non specificava. Invero, tale qualificazione discende direttamente dall’oggetto del servizio stesso, costituito dall’illuminazione votiva dei cimiteri comunali, il quale sol per questo in altro non può consistere che in un servizio pubblico, in quanto assunto dal Comune e mirante a soddisfare il sentimento religioso e la pietas di coloro che frequentano il cimitero, consentendo pertanto al Comune stesso di realizzare fini sociali e promuovere lo sviluppo civile della comunità locale a termine dell’art. 112 del D.Lgs. 18 agosto 2000 n. 267, recante testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali (cfr., proprio in tema del servizio di cui si discute, tra le tante, Cass., sez. un., 27 aprile 2000 n. 294, oltre a Cons. St., sez. VI, 7 aprile 2006 n. 1893 richiamata nella sentenza appellata). Più precisamente, si tratta di concessione di servizio pubblico locale a rilevanza economica, perché richiede che il concessionario impieghi capitali, mezzi, personale da destinare ad un’attività economicamente rilevante in quanto suscettibile, quanto meno potenzialmente, di produrre un utile di gestione e, quindi, di riflettersi sull’assetto concorrenziale del mercato di settore.

Dunque, per l’aspetto considerato il ricorso incidentale era ammissibile.

3.- Col secondo motivo l’appellante contesta la priorità data dal TAR all’esame del ricorso incidentale, sostenendo che, poiché si era in presenza di soli due concorrenti, il primo giudice avrebbe dovuto esaminare entrambi i gravami e, se mai, annullare l’intera gara affinché l’Amministrazione procedesse poi alla sua rinnovazione.

Il Collegio è ben consapevole dell’attuale coesistenza di due contrastanti orientamenti giurisdizionali sul punto, l’uno coincidente con la tesi così prospettata dall’appellante ed in passato affermato dalla Sezione (cfr. le decisioni nn. 7140 e 5583 del 2004), l’altro inteso a ribadire, anche nell’ipotesi di soli due concorrenti, la pregiudizialità del ricorso incidentale quando sia diretto a privare il ricorrente principale della legittimazione attiva in ordine all’impugnazione dei risultati della gara. Orientamento, quest’ultimo, al quale recentemente la Sezione è meditatamente tornata ad aderire (cfr. la decisione 21 giugno 2006 n. 3689).

Più precisamente, è stato rilevato che, pure nell’ipotesi suddetta – qui ricorrente -, l’esame del ricorso incidentale “assume rilievo pregiudiziale, in ragione della funzione difensiva e conservativa che è propria di tale mezzo di impugnazione, quale strumento di tutela della posizione del controinteressato”. Ciò in quanto il controinteressato vincitore della gara non potrebbe mai tutelare la propria posizione con una semplice eccezione di illegittimità dell’ammissione alla gara del ricorrente principale, né con la proposizione di un ricorso principale, poiché: “- nel corso della procedura, l’atto di ammissione, avendo natura endoprocedimentale, non è autonomamente impugnabile; - all’esito della procedura di gara, il vincitore non vanta alcun interesse differenziato a contestare l’ammissione degli altri concorrenti, avendo conseguito, di norma, la massima utilità sostanziale offerta dalla procedura; - in caso di infondatezza del ricorso principale, il ricorso incidentale sarebbe privo di interesse; - in caso di accoglimento del ricorso principale, infine, il controinteressato non sarebbe comunque legittimato a contestare il titolo di legittimazione del ricorrente principale”. Si è pertanto concluso nel senso che “se, dunque, è conforme a principi fondamentali del diritto processuale che l’esame del ricorso incidentale si svolga prioritariamente, in modo da paralizzare, in caso di fondatezza, la cognizione dell’impugnazione principale, l’interesse all’accertamento del difetto di legittimazione del ricorrente incidentale assume carattere recessivo e secondario”; ed infatti il giudizio “si arresta ad un momento logicamente anteriore, cui si collega l’effetto dell’accertamento dell’inutilità della impugnazione principale, posto che il ricorrente, dovendo essere escluso dalla gara, non avrebbe comunque potuto beneficiare della esclusione dell’aggiudicatario”.

Tale soluzione, con le puntuali argomentazioni che la sorreggono, si attaglia al caso di specie ed il Collegio è di ugual avviso. Ne deriva l’infondatezza del motivo d’appello anzidetto.

4.- Le considerazioni svolte nel precedente paragrafo 2) in ordine alla qualificazione della concessione in questione come di servizio pubblico locale consentono di disattendere anche la prima parte del motivo seguente, con la quale, nel sostenere l’infondatezza del ricorso incidentale della controinteressata, si tende a negare che la fattispecie rientri nell’ambito, appunto, dei servizi pubblici locali e che quindi possa essere ricondotta nel campo di applicazione del cit. art. 113, dunque della preclusione del conferimento della titolarità del servizio alle società non di capitali ai sensi del comma 5, lettera a). Al riguardo, basta aggiungere da un lato che, per le stesse considerazioni, è irrilevante che la legge regionale della Lombardia 12 dicembre 2003 n. 26 non menzioni espressamente il particolare servizio pubblico locale di cui si discute; e, dall’altro lato, che erroneamente l’appellante adduce l’inesistenza in tale normativa regionale di una regola ostativa all’ammissione alle gare per l’affidamento di concessioni di servizi pubblici locali delle società di persone, giacché una disposizione siffatta è invece testualmente posta, conformemente alla normativa nazionale, dall’art. 2, comma 6, secondo cui “L’erogazione dei servizi è affidata a società di capitali scelte mediante procedura ad evidenza pubblica o procedure compatibili con la disciplina nazionale e comunitaria in materia di concorrenza”.

Parimenti da disattendere è la seconda parte dello stesso motivo, con cui si deduce, in sostanza, l’inapplicabilità del detto art. 113 del D.Lgs. n. 267 del 2000 sotto altro aspetto, e cioè perché in realtà l’affidamento si riferirebbe, avuto riguardo alla prevalenza economica della manutenzione rispetto ai servizi, ad una concessione di costruzione e gestione soggetta alla normativa in materia di lavori non prevedente la preclusione di cui innanzi.

Come la Sezione ha già avuto modo di chiarire, con argomentazioni ancor oggi pienamente condivise dal Collegio, la differenza tra le ipotesi della concessione di lavori pubblici e quella della concessione di servizi pubblici va rinvenuta nel tipo di nesso di strumentalità che lega la gestione del servizio alla realizzazione dell’opera; si avrà perciò concessione di costruzione ed esercizio se la gestione del servizio è strumentale alla costruzione dell’opera, in quanto diretta a consentire il reperimento dei mezzi finanziari necessari alla realizzazione, mentre si versa in tema di concessione di servizi pubblici quando l’espletamento dei lavori è strumentale, sotto i profili della manutenzione, del restauro e dell’implementazione, alla gestione di un servizio pubblico il cui funzionamento è già assicurato da un’opera esistente. In particolare, tanto è stato affermato proprio con riguardo al servizio pubblico di illuminazione cimiteriale, ravvisandosi per esso la seconda ipotesi nella considerazione che i lavori affidati al concessionario nell’ambito della gestione del servizio stesso afferiscono non ad un’opera nuova, ma alla manutenzione ed implementazione degli impianti esistenti (cfr. la decisione 11 settembre 2000 n. 4795).

5.- Col quarto motivo si deduce la contrarietà dell’art. 113, comma 5, T.U.E.L. rispetto al diritto comunitario.

Sulla questione pregiudiziale di interpretazione dell’art. 26, nn. 1 e 2, della direttiva del Consiglio 92/50/CEE del 18 giugno 1992 e successive modifiche, che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di servizi, in relazione al disposto del detto art. 113, comma 5, lett. a), e degli artt. 2, comma 6, della cit. L.R. Lombardia n. 26 del 2003 (oltre al successivo art. 15, comma 1, che al primo fa rinvio in tema di affidamento del servizio di gestione dei rifiuti urbani), la Corte di Giustizia C.E., investita con ordinanza dello stesso TAR Lombardia n. 117 del 16 giugno-31 luglio 2006 in una causa concernente la gestione del servizio pubblico locale di igiene ambientale in territorio comunale con valore superiore alla soglia di applicazione della menzionata direttiva, ha affermato (sent. 18 dicembre 2007 n. 357/06) che detta norma comunitaria “osta a disposizioni nazionali come quelle in esame (…), che impediscono a candidati o offerenti (…) ad erogare il servizio di cui trattasi (…), di presentare offerte nell’ambito di una procedura di aggiudicazione di pubblici appalti di servizi il cui valore superi la soglia di applicazione della direttiva 92/50, soltanto per il fatto che tali candidati od offerenti non hanno la forma giuridica corrispondente ad una determinata categoria di persone giuridiche, ossia quella delle società di capitali”. In particolare la Corte, ritenuta l’applicabilità ai fatti della causa principale della direttiva suddetta ratione materiae e ratione temporis, ha affermato che il divieto di “scartare” i candidati o offerenti solo in relazione al fatto che essi non rivestano una determinata forma giuridica si evince dall’art. 26 della stessa (peraltro sostanzialmente ricalcato dall’art. 4 della successiva direttiva 2004/18), secondo cui ai raggruppamenti di prestatori di servizi “non può venir richiesto di assumere una forma giuridica ai fini della presentazione dell’offerta” (n. 1) e i candidati o offerenti “non possono venir respinti soltanto per il fatto che (…) essi avrebbero dovuto essere persone fisiche o persone giuridiche” (n. 2). Tuttavia la Corte non ha risolto, in quanto non rilevante, analoga questione riferita direttamente ai principi comunitari individuati dagli artt. 39, 43, 48 e 81 del Trattato, pur posta dal giudice del rinvio.

Nella specie, le disposizioni di diritto interno sopra indicate non possono essere disapplicate in esecuzione diretta della pronuncia in parola, se non altro perché è pacifico tra le parti come il valore del servizio del cui affidamento si controverte non superi la soglia comunitaria. E nella disciplina dei contratti sotto soglia non è necessario che il legislatore nazionale si attenga alle direttive comunitarie, essendo tenuto solo all’osservanza dei principi fondamentali del Trattato; questione, questa, che, come detto, la Corte ha assorbito.

Peraltro, la Sezione ritiene di poter prescindere dal sollevare al riguardo una nuova pregiudiziale interpretativa, risultando sin d’ora chiara la sussistenza di analogo contrasto della richiamata normativa nazionale e regionale e, di qui, la disapplicabilità per questa via della stessa normativa nella concreta fattispecie in esame, ancorché sotto soglia.

Invero, premesso che il Trattato considera i “servizi” secondo ampia e residuale nozione, ossia nel senso di prestazioni che non rientrino nei concetti di merci, capitali e persone, va evidenziato che, come osservato dalla Commissione europea nelle osservazioni – sulle quali fa leva parte appellante nella memoria del 16 ottobre 2007 - presentate alla Corte nella causa in parola, la ratio che ispira le disposizioni di diritto derivato poste dall’art. 26, nn. 1 2, della direttiva 92/50 in altro non può rinvenirsi che nei canoni essenziali, espressi dal Trattato, quanto meno dagli artt. 43 e 49, della libera circolazione delle merci, della libertà di stabilimento e della libera prestazione dei servizi, dunque della concorrenzialità, nonché in quelli che ne derivano, quali i principi di parità di trattamento e non discriminazione, di proporzionalità e trasparenza (d’altro canto pienamente coerenti ai generalissimi principi di cui agli artt. 3 e 97 Cost.), e di riconoscimento reciproco.

Per inciso, e pur tenuto conto dell’inapplicabilità ratione temporis alla fattispecie del codice dei contratti pubblici di cui al D.Lgs. 12 aprile 2006 n. 163, ma a conferma che tali canoni devono comunque essere osservati in qualsiasi procedura di individuazione del privato contraente, può osservarsi come l’art. 30 del detto codice, nell’escludere dalla sfera di operatività del codice medesimo – ad eccezione appunto dello stesso art. 30 - le concessioni di servizi, richiede che la scelta del concessionario avvenga “nel rispetto dei principi desumibili dal Trattato e dei principi generali relativi ai contratti pubblici e, in particolare, dei principi di trasparenza, adeguata pubblicità, non discriminazione, parità di trattamento, mutuo riconoscimento, proporzionalità”.

E’ evidente che i principi in parola non possono ritenersi rispettati con riguardo al caso di specie, concernente un servizio (pubblico locale) non di particolare complessità tale da richiedere per il suo espletamento una specifica ed articolata organizzazione imprenditoriale, essendo notorio che il servizio stesso era invece svolto nelle piccole realtà anche da ditte individuali. Deve perciò affermarsi, in definitiva, che la limitazione alle società di capitali si risolve in una ingiustificata e discriminante preclusione nei confronti di piccole strutture dell’accesso al mercato dei servizi di settore senza, peraltro, apprezzabili vantaggi circa la qualità del servizio da rendere; e ciò anche con conseguente effetto distorsivo dell’effettiva concorrenzialità nell’ambito dello stesso mercato.

Né, in tale quadro, appaiono conferenti le deroghe all’imposta conformità alle regole del Trattato rinvenibili negli artt. 45 e 46 (dettate per il capo II del titolo III, concernente il diritto di stabilimento, ma applicabili pure al capo III del medesimo titolo, concernente i servizi, in virtù del rinvio di cui all’art. 55), riguardanti infatti attività che partecipino all’esercizio di pubblici poteri, nonché motivi di ordine pubblico, pubblica sicurezza e sanità. Neppure conferente sarebbe il richiamo alle limitazioni alla applicazione delle stesse regole, limitazioni consentite dall’art. 86 (richiamato dall’appellata Zanetti) in vista dell’adempimento di una “specifica missione”, giacché tale – parziale – deroga è riferita esclusivamente al caso di “imprese incaricate della gestione di servizi di interesse economico generale o aventi carattere di monopolio fiscale”, certamente non ricorrente nella specie, in cui non è oltretutto ravvisabile alcuna “specifica missione”.

Dunque, nel caso concreto in trattazione gli artt. 113, comma 5, lett. a), del T.U.E.L. e 2, comma 6, della L.R. Lombardia n. 26 del 2003 vanno disapplicati, con la conseguenza che dev’essere negata la sussistenza di causa di esclusione dalla partecipazione alla gara a trattativa indetta dal Comune di Novate Milanese della società Piazzoli in quanto di persone e non di capitali, con l’ulteriore conseguenza dell’infondatezza dell’anzidetto ricorso incidentale della controinteressata Zanetti. In questo senso, perciò, la sentenza appellata dev’essere riformata.

6.- A questo punto della trattazione, assorbito il quinto motivo d’appello, vanno affrontati i successivi motivi diretti a far valere la fondatezza del ricorso principale di primo grado dell’attuale appellante. In proposito, occorre preliminarmente disattendere l’eccezione di inammissibilità dello stesso ricorso principale per acquiescenza prestata alla lettera d’invito, sollevata dall’appellata Zanetti. Infatti, sia gli specifici contenuti di tale lettera di volta in volta contestati, sia la scelta in essa esplicitata della trattativa privata (a cui si connettono, peraltro, determinate clausole come quella relativa al termine fissato per la presentazione delle offerte), non appaiono aver quella lesività immediata che ne imponga l’altrettanto immediata impugnazione e, correlativamente, consenta di ravvisare l’acquiescenza a seguito della partecipazione senza riserve. Non si vede, difatti, quali ostacoli alla partecipazione dell’impresa Piazzoli le scelte e le prescrizioni impugnate avrebbero comportato, assurgendo invece ad elementi incidenti (salvo le precisazioni esposte in prosieguo, ma afferenti ad una parte dell’impugnativa e non al suo complesso) sull’aggiudicazione, dunque impugnabili solo a tale esito e nell’ipotesi in cui questo non fosse favorevole alla stessa impresa.

7.- Ciò posto, va ricordato che col sesto motivo d’appello, coincidente col primo dedotto davanti al TAR, la Piazzoli si duole della mancata esclusione dalla gara della Zanetti per non aver allegato all’offerta il piano economico finanziario o, in subordine, dell’illegittimità della lex di gara per non aver previsto l’obbligatoria produzione del piano, previsto per le concessioni di lavori pubblici dall’art. 19, comma 2 bis, della legge in materia di lavori pubblici, applicabile alle concessioni di servizi a termine dell’art. 3, comma 8, della legge 18 novembre 1998 n. 415.

Al riguardo, la Sezione rileva che l’indicato comma 2 bis dell’art. 19 della legge n. 109 del 1994 (comma aggiunto dall’art. 3 l. 18 dicembre 1998 n. 415, e modificato dall’art. 7 comma 1, l. 1 agosto 2002 n. 166) configura il piano economico finanziario come elemento del contratto e non come documento da allegare a pena di inammissibilità all’offerta, mentre, come già rilevato, non è applicabile alla fattispecie il codice dei contratti, dunque il combinato disposto dei relativi artt. 30, comma 7, e 143, comma 7, secondo cui il piano dev’essere contenuto anche nell’offerta; ad ogni modo, l’estensione alle concessioni di servizi delle disposizioni del detto comma 2 bis, stabilita dall’art. 3, comma 8, della legge n. 415 del 1998 (e, non diversamente, dall’appena citato art. 30, comma 7, del codice dei contratti) è prevista solo se “compatibile”, ossia ove la concessione importi consistenti investimenti soggetti ad ammortamento, tali da richiedere la verifica dell’equilibrio economico-finanziario di base e consentire l’eventuale modifica del piano stesso nel corso della concessione per effetto del mutamento di determinate condizioni. Ma non è questo il caso in esame, in cui gli investimenti richiesti non risultano avere siffatta consistenza (pertanto legittimamente la lettera d’invito nulla ha prescritto) e, d’altra parte, il contrario non è sostenuto e tanto meno dimostrato nella censura dedotta in primo grado e riproposta in questa sede.

8.- Il motivo seguente si incentra, come già il secondo motivo del ricorso principale di primo grado, sull’assunta erroneità della lex di gara nel punto in cui, ai fini dell’integrazione dei requisiti di ammissione a gara, richiama l’art. 11 del D.Lgs. n. 358 del 1992, il quale in tema di forniture richiede determinate condizioni (tra cui l’assenza di condanne, con sentenza passata in giudicato, per qualsiasi reato che incida sulla moralità professionale o per delitti finanziari: lett. b), anziché il più rigoroso art. 12 del D.Lgs. n. 157 del 1995, che in tema di servizi prescrive l’assenza di sentenze di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell’art. 444 c.p.p., oltre che di condanne passate in giudicato, per qualsiasi reato che incida sulla moralità professionale o per delitti finanziari (lett. b).

In ordine alla clausola della lettera d’invito così contestata, però, l’appellante non adduce l’insussistenza in capo alla Zanetti del requisito configurato ai sensi della norma invocata, né ciò risulta altrimenti, sicché deve concludersi per l’inesistenza di lesività della stessa clausola, con conseguente carenza di interesse alla sua impugnazione da parte della Piazzoli, atteso che all’eventuale annullamento in parte qua della lettera d’invito ella non trarrebbe il vantaggio dell’esclusione della Zanetti; impugnazione che, pertanto, deve ritenersi inammissibile a prescindere dall’esame della fondatezza o meno della relativa deduzione.

9.- Con l’ottavo motivo, già terzo in primo grado, si censura sotto vari profili il ricorso del Comune alla trattativa privata. La doglianza è tale da investire l’intera procedura, che in caso di accoglimento dovrebbe essere perciò rinnovata, con l’effetto di rimettere in discussione il rapporto controverso.

Non senza dire che al prescelto modulo procedimentale informale si correla (come accennato sopra) l’ulteriore scelta del Comune in ordine alla fissazione parimenti informale di un ristretto termine ultimo di ricezione delle offerte, il quale – com’è ragionevolmente ipotizzabile - ben può aver impedito alla Piazzoli, che pure ha presentato offerta, di articolare la propria proposta con maggior ponderazione in relazione a tutti e ciascuno dei parametri di valutazione indicati dall’Amministrazione e, quindi, ad avanzare un’offerta suscettibile di qualificarsi come economicamente più vantaggiosa in base agli stessi parametri.

Non v’è dubbio, quindi, sull’ammissibilità della doglianza medesima, sorretta, diversamente da quanto ritenuto al precedente paragrafo, da evidente interesse a ricorrere, sia pur strumentale. Ne consegue che non può essere seguita l’eccezione formulata al riguardo dall’appellata Zanetti.

Nel merito, il motivo ora in esame va condiviso in ordine al profilo con il quale si denuncia difetto di motivazione circa le ragioni per le quali l’Amministrazione non ha ritenuto di indire una gara pubblica.

La più volte ricordata lettera d’invito, che non risulta preceduta da alcuna determinazione di indizione della procedura da cui possano evincersi le dette ragioni, non reca a sua volta alcuna indicazione in proposito, limitandosi a precisare che la procedura di gara prescelta è la “trattativa privata ai sensi dell’art. 9 lettera d) del D.Lgs. 358/92”.

A parte l’inconferenza del corpo normativo così richiamato, che disciplina gli appalti pubblici di forniture ai quali l’oggetto della concessione di cui trattasi non può essere collegato neppure in via analogica, detta lettera d) nel primo comma indica la trattativa privata come la quarta delle procedure che è possibile prescegliere e nel secondo comma definisce tale procedura, senza però menzionare i casi in cui è consentito farvi ricorso, invece enumerati dai successivi quarto e quinto comma. A tali disposizioni la lettera d’invito non fa alcun rinvio, sicché non è ricostruibile l’iter logico seguito dal Comune per pervenire alla medesima scelta, di per sé caratterizzata da discrezionalità amministrativa. Per questo aspetto, peraltro, le ragioni esposte in questa sede dalla difesa dell’Amministrazione appellata non sono utili ad integrare la riscontrata carenza.

D’altro canto, proprio in considerazione di tale carenza neppure può escludersi la configurabilità in concreto di una legittima causa giustificatrice della ripetuta scelta.

Tanto rilevato, va osservato che ciò si pone in aperto contrasto col generalissimo principio immanente nell’ordinamento secondo cui la trattativa privata costituisce modulo di formazione della volontà contrattuale dell’amministrazione pubblica di carattere eccezionale, suscettibile di essere applicato esclusivamente in presenza di specifici presupposti da individuarsi ed esplicitarsi a monte della procedura, proprio per giustificare la deroga alle regole ordinarie dell’evidenza pubblica. Non è poi revocabile in dubbio che siffatto principio debba trovare applicazione anche in tema di affidamento di servizi pubblici locali; proprio nel particolare servizio di illuminazione votiva dei cimiteri è stato difatti pure recentemente ribadito da questo Consiglio di Stato che “l’obbligo di seguire le procedure concorsuali pubbliche discende direttamente, senza che vi sia necessità di nessuna altra specifica disposizione, dalle norme contenute nel R.D. 18 novembre 1923, segnatamente dagli articoli 3 e 6, e nel R. D. 23 maggio 1924 n. 827, in particolare dall’articolo 41, norme che impongono, per ogni attività contrattuale della Pubblica Amministrazione, il ricorso a procedure concorsuali aperte ai soggetti idonei per eseguire opere o servizi e per fornire beni alle Amministrazioni stesse” (cfr. Sez. VI, 7 aprile 2006 n. 1893)

10.- Per le considerazioni sin qui esposte, ed assorbita ogni altra doglianza, il ricorso di primo grado della Piazzolli merita di essere accolto quanto alla domanda di annullamento degli atti impugnati.

Diversamente è per l’ulteriore domanda risarcitoria, anch’essa riproposta in questa sede. Il predetto annullamento è stato infatti pronunciato per il rilevato vizio di difetto di motivazione, il quale consente, anzi esige la rinnovazione della procedura di individuazione del concessionario emendata dal vizio riscontrato; rinnovazione comportante un nuovo esercizio del medesimo potere, connotato – come detto innanzi – da discrezionalità amministrativa, sicché solo all’esito di una nuova determinazione conclusiva della procedura potrà valutarsi la sussistenza o meno dei prescritti presupposti del pregiudizio risarcibile derivante dal primo provvedimento annullato.

11.- In conclusione, in questi limiti l’appello dev’essere accolto. Tuttavia, la complessità delle questioni giuridiche sottoposte all’esame della Sezione consiglia la compensazione tra le parti delle spese dei due gradi.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quinta, accoglie il ricorso in appello in epigrafe e, per l’effetto, in riforma della sentenza appellata accoglie per quanto di ragione il ricorso principale di primo grado, respinge il ricorso incidentale di primo grado ed annulla i provvedimenti impugnati con detto ricorso principale.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 29 gennaio 2008 con l’intervento dei magistrati:

Raffaele Iannotta Presidente

Cesare Lamberti Consigliere

Claudio Marchitiello Consigliere

Vito Poli Consigliere
Angelica Dell’Utri Costagliola Consigliere, est.

L’ESTENSORE IL PRESIDENTE

f.to Angelica Dell’Utri Costagliola f.to Raffaele Iannotta

IL SEGRETARIO

f.to Rosi Graziano



DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 14-04-2008

(Art. 55, L. 27/4/1982, n. 186)

p.IL DIRIGENTE

f.to Livia Patroni Griffi






N°. RIC. 1606/07



N°. RIC. 1606/07



EDG



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domenica 20 aprile 2008

CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V - sentenza 14 aprile 2008 n. 1665

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Quinta Sezione, ha pronunciato la seguente

DECISIONE

sul ricorso in appello n.r.g. 10273/2006, proposto da EDILTECNICA s.r.l., GUALANDI GIULIANO s.r.l. e ACQUA & VERDE NORD s.r.l. in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avv.ti Alessandro Savini e Luigi Strano ed elettivamente domiciliata in Roma, Viale di Villa Grazioli, 13 presso lo studio dei detti legali;

contro

- COMUNITA’ MONTANA DEL FORTORE, in persona del rappresentate pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avv. Giuseppe Abbamonte ed elettivamente domiciliata in Roma, via G. Porro, 8 presso lo studio di questi;
e nei confronti
- IMPRESA BUCCIONE MICHELE s.r.l., in proprio e quale capogruppo mandataria dell’A.T.I. con C.M.M. COSTRUZIONI GENERALI, e EDILTECNICA s.n.c. DI CASAMASSA ROBERTO & C., in persona dei rispettivi rappresentanti legali pro tempore, non costituitesi in giudizio;
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania - Sezione VIII di Napoli - n. 798/2006 del 9 agosto 2006;
Visto il ricorso con i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio della Comunità Montana del Fortore;
Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;
Visti gli atti tutti della causa;
Designato relatore, alla pubblica udienza del 19 febbraio 2008 il presidente consigliere Giuseppe Severini ed udito, altresì, l’ avvocato Savini come da verbale d’udienza;
Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue.

FATTO

È qui impugnata la sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania (Napoli), VIII, n. 798/2006 del 9 agosto 2006 con cui sono stati respinti:
1) - il ricorso presentato da Ediltecna s.r.l., Gualandi Giuliano s.r.l.e Acqua e Verde Nord s.r.l. contro la Comunità Montana del Fortore, nonché nonché Buccione Michele s.r.l., CMM costruzioni generali s.r.l. e Edil tecnica s.n.c. di Casamassa Roberto & C., per l’annullamento:
a) della nota prot. 2959 del 25 maggio 2004, con cui il dirigente dell’ufficio tecnico della Comunità Montana del Fortore aveva comunicato l’esclusione dalla gara relativa all’appalto dei "lavori di sistemazione idraulica dell’asta del fiume Fortore e consolidamento dei centri urbani del bacino";
b) di ogni altro atto connesso, incluso il provvedimento prot. 3179 del 4 giugno 2004, con cui il dirigente dell’ufficio tecnico della Comunità montana del Fortore aveva comunicato i motivi di esclusione e il provvedimento di aggiudicazione provvisoria dell’appalto in favore dell’ATI tra le imprese Buccione Michele s.r.l., CMM costruzioni generali srl e Edil tecicna s.r.l. di Casamassa Roberto & C., nonché del provvedimento di aggiudicazione, ove intervenuto nelle more del giudizio;
2) - l’atto per motivi aggiunti depositato il 12 ottobre 2004, rigardante:
a) la determinazione n. 102 del 18 maggio 2004 con cui il segretario generale della Comunità Montana del Fortore aveva approvato le risultanze della gara di licitazione privata e disposto l’aggiudicazione definitiva dei "lavori di sistemazione idraulica dell’asta del fiume Fortore e consolidamento dei centri urbani del bacino" in favore dell’ATI costituita tra le imprese Buccione Michele s.r.l., CMM costruzioni generali s.r.l. e Edil tecnica s.n.c. di Casamassa Roberto & C.;
b) il contratto d’appalto dei lavori rep. 594 stipulato il 17 luglio 2004 tra la Comunità Montana del Fortore e l’ATI aggiudicatrice e registrato in San Bartolomeo in Galdo il 20 luglio 2004, n. 3605 serie 1;
c) ogni atto connesso.
Si è costituita la Comunità Montana del Fortore, contestando l’appello.

DIRITTO

1. L’appello è fondato e va accolto.
2. Il ricorso respinto dal Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania si riferiva all’esclusione – per non aver presentato nelle modalità previste dal d.P.R. n. 445 del 2000 idonee attestazioni in merito ai rappresentanti legali - dell’appellante ATI dalla gara di licitazione privata per l’aggiudicazione dei "lavori di sistemazione idraulica dell’asta del fiume Fortore e consolidamento dei centri urbani del bacino", indetta per un importo a base d'asta di € 2.209.033,37 dalla Comunità Montana del Fortore. Le imprese dell’ATI, a seguito di accesso agli atti di gara, avevano riscontrato che, ponderando le offerte, sarebbero state aggiudicatarie dell’appalto.
La sentenza ha rilevato che, sebbene non si rinvenisse negli atti di gara l’indicazione precisa dell’elemento formale ritenuto mancante nella autocertificazione, non era contestato tra le parti, ed era anzi evincibile dalla lettura dei documenti, che questo dovesse essere individuato nella mancanza dell’indicazione di cui al secondo comma dell’art. 48 (Disposizioni generali in materia di dichiarazioni sostitutive") d.P.R. n. 445 del 2000, che prevede che in tali atti – peraltro su moduli predisposti dalla amministrazione - vada inserito "il richiamo alle sanzioni penali previste dall'articolo 76, per le ipotesi di falsità in atti e dichiarazioni mendaci ivi indicate".
Per le ricorrenti, la dichiarazione sostitutiva si perfezionerebbe con la sola firma e l’allegazione della copia del documento, non dovendosi dare rilievo al mancato testuale richiamo alle sanzioni penali.
Per l’Amministrazione, invece, il richiamo è cogente, tanto che nella specie quarantadue partecipanti alla gara su quarantasei vi avevano adempiuto.
Il giudice di prime cure ha ritenuto il ricorso infondato perché della semplificazione documentale amministrativa è aspetto fondante, tra l’altro, una disciplina della dichiarazione sostitutiva che ne subordina l’efficacia all’applicazione di regole formali di facile applicazione. L’applicazione di sanzioni penali ad un uso improprio delle dichiarazioni sostitutive va condotta. Per la prevenzione della dichiarazione mendace, il legislatore ha imposto un particolare vincolo di forma, interno alla dichiarazione, perché l’atto sia contemporaneamente veicolo delle dichiarazioni del privato e mezzo di prova della considerazione delle conseguenze dell’uso distorto dello strumento. Nel che, secondo la sentenza, va ravvisata la funzionalizzazione della dichiarazione di parte, contenuta nell’atto redatto secondo lo schema normativo, non solo quale tramite dei contenuti di fonte privata, ma anche come rappresentazione dell’avvenuta conoscenza della disciplina cogente.
Il richiamo alle sanzioni penali previste dall'art. 76, per le ipotesi di falsità in atti e dichiarazioni mendaci ivi indicate, è perciò essenziale alla stessa dichiarazione, la cui valenza sostitutiva viene espressamente ricollegata al rispetto delle previsioni di forma.
La mancata espressa indicazione della clausola di legge priva la dichiarazione sostitutiva della cogenza, e la fa entrare nel procedimento come un qualsiasi atto di parte, senza vincolo alla pubblica amministrazione. È quindi corretto non considerare equipollenti a una dichiarazione sostitutiva le attestazioni di parti mancanti del richiamo alle conseguenze penali scaturenti dalle affermazioni mendaci.
La mancanza poi non era sanabile con un comportamento successivo, e non era titolo per una richiesta dell’amministrazione di integrazione, che sarebbe stata ultronea e lesiva della par condicio.
La ATI appellante afferma che l’omessa indicazione del richiamo delle sanzioni penali non inficiava l’offerta e perciò essa non doveva essere esclusa dalla gara, di cui diversamente sarebbe stata aggiudicataria. Perciò torna a domandare, con l’annullamento dell’impugnata sentenza, l’annullamento degli atti originariamente impugnati. Alla domanda di annullamento degli atti aggiunge la richiesta di risarcimento dei danni, sub specie di danno emergente e lucro cessante, con rivalutazione e interessi.
In senso contrario argomenta e conclude la Comunità Montana del Fortore.
3. La questione centrale su cui si incentrano le prime due censure alla sentenza di primo grado è se, in una gara d’appalto pubblico, l’omessa indicazione formale del richiamo delle sanzioni penali di cui all’art. 76 (L) d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445 sulla documentazione amministrativa (il quale art. 76 fa rinvio, per il mendacio, alle sanzioni del codice penale e delle leggi speciali in materia) infici la dichiarazione medesima per difetto di uno degli elementi formali previsti dall’art. 38 del medesimo decreto.
Ritiene il Collegio, diversamente dal giudice di primo grado, che al quesito debba darsi risposta negativa per le seguenti ragioni;
a) siffatta ragione di esclusione non era espressamente prevista dal bando di gara, né comunque è contemplata dalla legge, come conseguenza dell’omissione in esame. Di più: a ben vedere, anche a prescindere dalla previsione delle conseguenze negative dell’omissione, la clausola in questione non era richiesta espressamente, giacché il disciplinare di gara solo prevedeva (punto 1.3) la presentazione di "dichiarazione/i sostitutiva/e resa/e ai sensi del D.P.R. n. 445/2000" circa la sussistenza dei requisiti richiesti per la partecipazione all'incanto e all'assenza di condizioni ostative. Comunque, per quanto concerne le conseguenze, né le disposizioni circa le dichiarazioni sostitutive del d.P.R. n. 445 del 2000, né la lex specialis di gara imponevano a pena di esclusione il richiamo espresso, nel documento, del rinvio alle sanzioni penali per le dichiarazioni false, di cui all’art. 76. Non solo: la comminatoria dell’esclusione era prevista solo nei seguenti termini: "la domanda, le dichiarazioni e la documentazione di cui ai punti 1, 2, 3, 4, 5, 6 e 7, a pena di esclusione dalla gara, devono contenere quanto previsto ai predetti punti", sicché nemmeno per relationem era dato ricavare un tale precetto e una tale sanzione.
Posta in concreto questa mancata espressa indicazione, vale ricordare che – secondo la regola della massima partecipazione - in tema di gare di appalto per lavori e servizi pubblici, in virtù del principio del favor partecipationis le clausole del bando richieste a pena di esclusione devono essere chiare e puntuali e, in caso di oscurità o non chiarezza, devono essere interpretate nel modo meno restrittivo (Cons. Stato, V, 28 settembre 2005, n. 5194; VI, 7 giugno 2006, n. 3417; V, 28 giugno 2006, n. 4222).
b) era onere dell’amministrazione appaltante precisare un tale vincolo di forma nei moduli predisposti per le dichiarazioni sostitutive, così come le era imposto dall’art. 48, comma 2, dello stesso d.P.R. n. 445 del 2000, ma l’amministrazione non vi ha provveduto, sicché la appellante si è trovata a dover compilare la dichiarazione sostitutiva senza un modulo cui riferirsi.
c) a tutto concedere, il rilievo penale delle dichiarazioni false o infedeli prescinde dalla sottoscrizione di una siffatta clausola, come è dimostrato anche dal fatto che la falsità rileva anche se una tale clausola non è sottoscritta.
Queste considerazioni, di loro concludenti, rendono ultronea l’indagine sul comportamento che l’amministrazione avrebbe dovuto tenere una volta riscontrata l’assenza della clausola prima di procedere all’esclusione (cioè circa l’invito alla regolarizzazione).
A parte tutto ciò, deve rilevarsi la singolarità del fatto che una siffatta ragione di estromissione non era esternata nel provvedimento di esclusione né nella sua comunicazione (la nota prot. n. 2959 del 25 maggio 2004 comunicava l'esclusione dalla procedura di gara senza manifestare specifiche motivazioni; solo a richiesta di chiarimenti, l'Amministrazione con nota prot. n. 3179 del 4 giugno 2004 rispose che l’esclusione era dovuta al fatto che "le dichiarazioni sostitutive dei rappresentanti legali delle Imprese Ediltecna S.r.l., Gualandi Giuliano S.r.l. e Acqua & Verde Nord S.r.l. non sono state rese ai sensi del D.P.R 445/00 (punto 3 del disciplinare di gara)"). La puntuale ragione dell’esclusione, con riguardo all’art. 76, è stata ricostruita solo successivamente dalla sentenza (benché dando atto che fosse pacifica tra le parti). Essendo assorbenti le considerazioni testé fatte, non è qui il caso di affrontare il tema di una tale ricostruzione deduttiva del contenuto del principale provvedimento amministrativo impugnato.
Mette conto però, più in dettaglio, precisare le ragioni per cui questa causa di esclusione dalla gara non può essere ritenuta prevista dalla legge.
Anzitutto, è il caso di rilevare che nessuna disposizione primaria contempla chiaramente una tale conseguenza negativa. Ma nemmeno è dato ricavarla dal sistema.
Le formalità delle dichiarazioni sostitutive sono regolate dall'art. 38 d.P.R. n. 445 del 2000, che al comma 3 soltanto prevede che "le istanze e le dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà da produrre agli organi dell'amministrazione pubblica o ai gestori o esercenti di pubblici servizi sono sottoscritte dall'interessato in presenza del dipendente addetto ovvero sottoscritte e presentate unitamente a copia fotostatica non autenticata di un documento di identità del sottoscrittore". A parte siffatti elementi estrinseci, l’elemento contenutistico in questione non risulta prescritto dalla norma: nessun riferimento vi è fatto alla necessaria inclusione, nel documento, di un riferimento alle sanzioni penali ex art. 76.
Nemmeno vale riferirsi – come fa l’impugnata sentenza - all'art. 48, perché questo soltanto specifica che "nei moduli per la presentazione delle dichiarazioni sostitutive le amministrazioni inseriscono il richiamo alle sanzioni penali previste dall'art. 76, per le ipotesi di falsità in atti e dichiarazioni mendaci ivi indicate". Si tratta, com’è palese dal significato proprio delle parole e come si è accennato, di precetto posto a carico della amministrazione in sede di predisposizione dei moduli, di fronte al cui inadempimento non è affatto stabilito che debba supplire spontaneamente il privato.
D’altra parte, va considerato che l’ordinamento rifugge dai formalismi inutili, specie quando le loro conseguenze sono produttive di un effetto negativo, per di più grave come la restrizione della competizione in una gara pubblica. A questo proposito, è bene considerare che della non essenzialità di una tale clausola dà ragione di sistema la considerazione che, in caso di dichiarazione sostitutiva mendace, la qualificazione come falso e le relative conseguenze penali prescindono dall'avvenuto uso in concreto della formula, in base al principio, espresso all’art. 5 Cod. pen., per cui nessuno può invocare a propria scusa l’ignoranza della legge penale (seppure assunto con le mitigazioni di cui a Corte cost., 24 marzo 1988, n. 364, che ammette come scusante l’ignoranza inevitabile: peraltro difficilmente invocabile in fattispecie come queste). L’ignoranza della legge penale, di principio, non scusa il falso dichiarante, sia che egli abbia invocato per iscritto l’art. 76, sia che non lo abbia invocato. Non si vede dunque perché sia necessario, a pena di estromissione dalla gara, che egli rilasci una siffatta dichiarazione formale.
È appena il caso, perciò, di porre l’attenzione direttamente sul contenuto dell’art. 76 - che si vorrebbe da richiamare nelle dichiarazioni - e rilevare che questo, a sua volta, è in realtà privo di specificazione o determinatezza perché si limita a fare generico rinvio, per il rilascio di dichiarazioni mendaci e per la formazione o l’uso di "atti falsi" nei casi previsti da quel testo unico, alle sanzioni "ai sensi del codice penale e delle leggi penali in materia": sicché, anche a tutto voler ammettere, la sua invocazione nulla aggiunge e nulla sottrae alla conoscenza delle norme penali puntuali che colpiscono quel tipo di falso e dunque all’operatività effettiva delle disposizioni che saranno valutate congrue circa le false dichiarazioni. Dunque una dichiarazione come quella che vorrebbe l’impugnata sentenza nulla aumenterebbe, circa l’evitabilità dell’ignorantia legis sulla qualificazione del fatto commesso, ai criteri di diligenza usuali per circostanze e figure come queste, già di loro idonee a configurare la possibilità di conoscenza del precetto e dunque l’evitabilità dell’ignoranza medesima. La conseguenza è quella dell’operatività delle norme penali indipendentemente da siffatte integrazioni formali della dichiarazione sostitutiva. Corretto al proposito è l’argomento dell’appellante che, diversamente opinando, si dovrebbe giungere a, paradossalmente, configurare la scusabilità penale in ogni caso di pretermissione della clausola. Tutt’al più si può dire che si potrebbe giungere ad altre conclusioni - pur se nell’angolazione di questa subordinata ipotesi e sempre fermo il dominante principio di inescusabilità penale - se la disposizione dell’art. 76 non fosse generica e richiamasse specifiche norme penali.
In sintesi, anche ad una valutazione sostanzialistica (cioè che prescinda dalla circostanza della mancata previsione nel bando della conseguenza dell’esclusione e che guardi piuttosto all’interesse dell’amministrazione procedente a ricevere solo dichiarazioni veritiere), tutto ciò mostra che nella dichiarazione sostitutiva che il partecipante deve formare – in assenza di un modulo predisposto dall’amministrazione ai sensi dell’art. 48 (R) d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445 sulla documentazione amministrativa - e deve presentare in una gara d’appalto pubblico, la formalità della apposizione della clausola del richiamo dell’art. 76 (L) (che rinvia per le falsità alle sanzioni del codice penale e delle leggi speciali in materia) è priva di una reale utilità nell’autocertificazione del partecipante alla gara. Dunque mostra che - da un punto di vista complessivo – è senza un’autentica ragione qualificare una tal clausola come essenziale nel tipo di dichiarazione sostitutiva che il dichiarante così presenta per partecipare alla gara, e farne discendere la grave conseguenza dell’esclusione dalla gara in caso di omissione. Avuto riguardo alle effettive conseguenze penali del falso, la sua omissione in concreto non aggrava dunque il rischio di dichiarazioni mendaci: questo rilevante effetto pratico, bilanciato con il detrimento per l’interesse pubblico e per la concorrenza che deriva invece dalla restrizione del numero dei partecipanti, conduce a senz’altro privilegiare il mantenimento in lizza della dichiarante. Per conseguenza, la dichiarazione sostitutiva resta valida anche in mancanza di questa clausola (utile per inutile non vitiatur) e quest’assenza non è causa di esclusione dalla gara, sempre che una siffatta conseguenza non sia espressamente comminata dalla sua lex specialis.
Corretto, ed assorbente, è allora quanto viene assunto nel primo e nel secondo motivo di appello, vale a dire che il Tribunale amministrativo ha fatto cattivo governo delle disposizioni in tema di dichiarazioni sostitutive previste dal d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445 e del potere di esclusione. Per quanto si è ora rilevato, non è corretto assumere che per quell'art. 48 il richiamo delle sanzioni penali previste dall'art. 76 per le falsità in atti e le dichiarazioni mendaci costituisca un elemento essenziale ed indefettibile della dichiarazione sostitutiva resa dal privato (in assenza, va aggiunto, di un modulo appositamente predisposto dall’amministrazione), con la conseguenza che la mancata indicazione di siffatta "clausola di legge" nella dichiarazione sostitutiva costituisca motivo di esclusione dalla gara.
La conseguenza è che l’appellante ATI non doveva, per una siffatta ragione, essere estromessa dalla gara, come invece illegittimamente è stato fatto con il principale degli atti impugnati, cioè quello di esclusione (dalla cui illegittimità discende direttamente quella degli altri). Erroneamente ha dunque deciso il giudice di primo grado rifiutando l’annullamento degli atti impugnati. Va qui dunque disposto questo annullamento insieme all’annullamento dell’impugnata sentenza.
4. Quanto al risarcimento dei danni patrimoniali consequenziali ai provvedimenti illegittimi, il cui diritto segue detto loro annullamento, il Collegio ritiene che la domanda di risarcimento per equivalente vada accolta nei sensi che seguono allo scopo di compensare il ricorrente del pregiudizio patito per effetto della violazione delle regole di imparzialità, di correttezza e di buona amministrazione posta in essere con i provvedimenti medesimi, che per il loro effetto di alterazione della concorrenza nel caso concreto ledono sia il principio di par condicio, sia quello della massimizzazione della convenienza amministrativa; e che per l’assenza dell’esternazione delle ragioni dell’esclusione offendono anche fondamentali regole di correttezza intersoggettiva (onere del clare loqui).
Va al riguardo considerato che appare esatto quanto sostenuto dall’appellante, vale a dire che, senza l’esclusione, la ricorrente sarebbe divenuta effettivamente l’aggiudicataria della gara perché aveva offerto un ribasso (19,89%) maggiore di quello offerto dall’ATI risultata aggiudicataria (19,64%).
Circa l’an debeatur le voci di danno da risarcire sono quelle da riconoscere come conseguenze dirette ed immediate degli illegittimi provvedimenti in questione e della colpevole inerente condotta dell’amministrazione, da presumere incauta - quanto ordinariamente evitabile - in ragione dell’inesistenza di un quadro normativo realmente incerto od oscuro, della prevedibile gravità delle conseguenze dell’effetto estromissivo, della sintomatica carenza di un’espressa motivazione circa le ragioni dell’esclusione. Dette voci sono quelle relative al ristoro del danno emergente, sub specie di spese vive sostenute per la partecipazione alla gara, e del lucro cessante come perdita di occasione favorevole di guadagno (chance) sotto forma di utile ritraibile dall'esecuzione dei lavori, altrimenti assegnati.
Per ciò che attiene al quantum debeatur, i criteri di precisa quantificazione del sacrificio da ristorare - da definire secondo la procedura di specificazione di cui all’art. 35, comma 2, d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80 (come sost. dall’art. 7 l. 21 luglio 2000, n. 205) - saranno, per ciò che riguarda le spese vive sostenute per la partecipazione alla gara, tutte quelle documentate ed esibite dall’appellante. Per ciò che riguarda invece il lucro cessante come indebita sottrazione delle chances di guadagno da esecuzione dei lavori, il danno andrà presunto in ragione dell’usuale 10% del valore dell’appalto. È infatti criterio consolidato che, ai fini della quantificazione di un siffatto danno, nella determinazione forfetaria ed automatica del margine di guadagno presunto nell'esecuzione di appalti di lavori pubblici, trovi applicazione analogica l'art. 345 l. 20 marzo 1865, n. 2248, All. F - ora sostanzialmente riprodotto dall’art. 122 del regolamento di cui al d.P.R. 21 dicembre 1999, n. 554 - che quantifica al 10% del valore dell'appalto l'importo da corrispondere all'appaltatore in caso di recesso facoltativo dell'amministrazione (Cons. Stato, V, 8 luglio 2002, n. 3796). Ragioni di necessaria concretezza nella determinazione del detrimento patrimoniale impongono di considerare che il riferimento di base per il calcolo di detta percentuale presuntiva sia quello della base d’asta, come ribassato dalla offerta del ricorrente (cfr. Cons. Stato, IV, 15 febbraio 2005, n. 478.).
Al tutto si dovranno aggiungere rivalutazione ed interessi dalle date corrispondenti ai previsti pagamenti contrattuali del corrispettivo dell’appalto sino alla pubblicazione della presente sentenza.
Non va accolta, invece, la domanda risarcitoria dell’ATI appellante per quanto concerne il preteso, ma da essa indimostrato, danno da assunta perdita di qualificazione e il suo mancato miglioramento in occasione di altre gare. Anche a tutto concedere sul nesso causale, spettava infatti comunque ad essa richiedente, in virtù dell’onere probatorio che la gravava, dare specifico e documentale conto di come e, con maggior dettaglio, di quanto si fosse prodotto un siffatto effetto qualificatorio e di come e di quanto questo si fosse riflesso, e concretamente, in altre successive gare. In difetto di tale dimostrazione, non si pone la questione della verifica del collegamento causale.
5. L’appello va pertanto accolto, la sentenza di primo grado va riformata e per l’effetto vanno annullati i provvedimenti impugnati in primo grado e l’amministrazione appaltante va condannata al risarcimento dei danni nei termini e secondo i criteri descritti.
Per conseguenza, l’appellata e soccombente Comunità Montana del Fortore va condannata alla rifusione delle spese processuali dei due gradi del giudizio sostenute dell’attuale appellante, da liquidare in complessivi € 8.000 (ottomila).
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quinta, accoglie l’appello e per l’effetto annulla i provvedimenti impugnati. Condanna la Comunità Montana del Fortore al risarcimento dei danni in favore dell’appellante Ediltecnica s.r.l.,, nei termini e secondo i criteri indicati in motivazione. Condanna la stessa Comunità Montana del Fortore alla rifusione delle spese processuali dei sue gradi del giudizio sostenute dell’appellante, che liquida in complessivi € 8.000 (ottomila).
Ordina che la sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma, dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta), nella camera di consiglio del 19 febbraio 2008, con l'intervento dei Signori:
Cons. Giuseppe Severini, Presidente ed estensore
Cons. Marco Lipari
Cons. Caro Lucrezio Monticelli
Cons. Marzio Branca
Cons. Nicola Russo
Il PRESIDENTE ESTENSORE
f.to Giuseppe Severini
DEPOSITATA IN SEGRETERIA il 14-04-2008.