giovedì 26 giugno 2008

TAR SICILIA - CATANIA, SEZ. IV - sentenza 7 giugno 2008 n. 1121


REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale della Sicilia, Sezione staccata di Catania – Sezione Quarta – nelle persone dei magistrati
Dr. Ettore Leotta – Presidente
Dr. Dauno F.G. Trebastoni – Primo Referendario, Relatore est.
Dr.ssa Giuseppa Leggio – Primo Referendario

ha pronunciato la seguente

S E N T E N Z A

sul ricorso n. 343/06,

proposto dalla Digitecnica srl, rappresentata e difesa dall’avv. Roberto Caruso, e domiciliata presso il suo studio, a Catania, c.so Italia 207,
contro
il Comune di Catania, non costituito,
per l’esecuzione del giudicato
derivante dalla sentenza n. 3582 del 15 dicembre 2004 del Giudice di Pace di Catania.
udito, alla Camera di Consiglio del 21 maggio 2008, il relatore Primo Ref. Dauno F.G. Trebastoni, e uditi, come da verbale, i difensori delle parti.
visti l’art. 37 della L. n. 1034/1971, e l’art. 27, n. 4, del R.D. n. 1054/1924.
ritenuto in fatto e in diritto quanto segue.

Fatto e Diritto

A seguito di opposizione del Comune avverso decreto ingiuntivo ottenuto dall’attuale ricorrente, con sentenza n. 3582/2004 il Giudice di Pace di Catania ha dichiarato la cessazione della materia del contendere per l’adempimento del debito principale da parte dell’opponente, e condannato il Comune a pagare le spese del procedimento monitorio, liquidate nel decreto opposto in € 288,71, oltre IVA e CPA, nonché a pagare le spese del giudizio, liquidate in € 562,50, di cui € 280,00 per onorario, € 220,00 per diritti, ed € 62,50 per spese generali 12,50%, oltre IVA e CPA.
Notificata in forma esecutiva il 03.02.2005, la sentenza è passata in giudicato.
In data 18 novembre 2005 la ricorrente ha notificato al Comune una diffida ad adempiere, rimasta inevasa, ai sensi dell’art. 90 del R.D. n. 642/1907. A seguito dell'ulteriore inadempienza da parte del Comune, il 19 gennaio 2006 la ricorrente ha notificato un ricorso, depositato il successivo 3 febbraio, al fine di ottenere l’ottemperanza mediante la nomina di commissario ad acta. Con sentenza n. 1273 del 20.07.2007 questa Sezione ha accolto il ricorso, e per l’effetto:
ha dichiarato l’obbligo del Comune di dare esecuzione al giudicato, e di adottare le necessarie determinazioni amministrative e contabili, nel termine di giorni 30 dalla comunicazione in via amministrativa della sentenza, ovvero dalla sua notificazione ad opera di parte;
ha delegato, in caso di ulteriore inadempienza, il Prefetto di Catania a designare un Funzionario della Prefettura quale Commissario ad acta, affinché provvedesse, entro ulteriori giorni 90 dalla scadenza del termine predetto, ad eseguire il giudicato;
ha condannato il Comune al pagamento, in favore della ricorrente, delle spese di giudizio, liquidate in € 600,00, di cui € 300 per spese, oltre IVA e CPA, nonchè al pagamento del compenso dovuto al Commissario, liquidato nella misura di € 200,00, oltre che delle spese di viaggio ed indennità di missione.
Con istanza depositata il 17 dicembre 2007 il commissario ha chiesto una proroga del termine di 30 giorni, per l’acquisizione dei previsti flussi di cassa derivanti dagli introiti Ici.
Con sentenza n. 262 del 14 febbraio 2008 questo Collegio ha accolto l’istanza, e per l’effetto ha prorogato il termine già concesso di ulteriori 120 giorni, decorrenti dalla scadenza del termine originario.
Con istanza depositata il 9 maggio 2008 il commissario ha chiesto una ulteriore proroga del termine, di altri 120 giorni.
Il Collegio ritiene la proroga richiesta opportuna, in relazione agli adempimenti da porre in essere ed alle oggettive difficoltà del compito da eseguire, ma con le precisazioni che seguono.
Tuttavia, il Collegio intende ribadire che il Commissario ha il potere e dovere di non limitarsi ad attendere che il Comune incassi delle somme, bensì di provvedere all’esecuzione dell’incarico anche mediante l’adozione di variazioni di bilancio, stipulazione di mutui e prestiti, alienazioni di beni anche mediante trattativa privata, o quant’altro necessario per l’assolvimento del mandato, anche in deroga a qualsiasi normativa.
Come già precisato da questa Sezione (cfr. sentenza n. 2003 del 4 novembre 2005), nel caso in cui l’Ente, nell’esercizio della sua attività, abbia emesso mandati di pagamento a titoli diversi da quelli vincolati, senza seguire l'ordine cronologico delle fatture così come pervenute per il pagamento o, se non è prescritta fattura, delle deliberazioni di impegno da parte dell'ente stesso, e non siano disponibili altre somme, il commissario può utilizzare, al fine dell’esecuzione del giudicato, anche quelle destinate al pagamento delle retribuzioni al personale dipendente e dei conseguenti oneri previdenziali per i tre mesi successivi, al pagamento delle rate di mutui e di prestiti obbligazionari scadenti nel semestre in corso, ed all’espletamento dei servizi locali indispensabili.
I provvedimenti di liquidazione, ed i conseguenti mandati di pagamento, dovranno trovare esecuzione con priorità rispetto a tutti gli altri provvedimenti del Comune. Una volta emessi i provvedimenti di liquidazione, il commissario potrà emettere anche i mandati di pagamento, e trasmetterli direttamente all’istituto tesoriere, presso il quale avrà nel frattempo depositato la propria firma. Una volta espletate tutte le operazioni – a conclusione delle quali, nel caso non sia stato già emesso dagli uffici competenti, potrà emettere egli stesso anche il provvedimento di liquidazione e il mandato relativo alle proprie competenze – invierà a questa Sezione una dettagliata relazione sugli adempimenti realizzati e sull’assolvimento del mandato ricevuto.
Il Collegio ritiene inoltre opportuno precisare che:
l’Istituto tesoriere, nel caso di mancanza di liquidità (cassa), dovrà trattenere i mandati di pagamento, e provvedere al pagamento con priorità via via che dovessero pervenire incassi a favore del Comune, fino al totale soddisfo;
dal punto di vista degli obblighi gravanti sull’Istituto tesoriere, agli effetti penali il servizio di tesoreria gestito da un’azienda di credito è da considerare pubblico (cfr. Cass. Pen. Sez. VI, 12 aprile 1991), e i soggetti che gestiscono il servizio sono da ritenere a tutti gli effetti incaricati di pubblico servizio (anche ai sensi di quanto previsto dall’art. 328 c.p. – "rifiuto di atti d’ufficio. Omissione"), con la conseguenza che essi sono tenuti a consentire al commissario ad acta – nominato dal TAR per l’ottemperanza ad una sentenza rimasta ineseguita proprio dall’Ente per conto del quale il servizio viene svolto – di svolgere tempestivamente il proprio compito, senza frapporre inerzia o ostacoli di sorta;
come questo Tribunale ha ormai più volte avuto modo di affermare in numerose sentenze, relative proprio al Comune di Catania (cfr., ex multis, 19 marzo 2008 n. 498), per il commissario ad acta, in quanto "longa manus" del giudice amministrativo, valgono gli stessi poteri di quest’ultimo, con la conseguenza che deve essere ritenuto titolare del potere di emanare i necessari provvedimenti amministrativi anche in deroga alle norme che disciplinano la competenza alla loro emanazione, e la stessa attività sostanziale (vedi anche TAR Catania 5 maggio 2007 n. 768, secondo cui le prescrizioni di cui all’art. 119, comma 6, Cost. – che non consentono ai Comuni, alle Province ed alle Regioni di ricorrere all’indebitamento per fare fronte a spese non d’investimento maturate dopo l’8 novembre 2001 – non si applicano ai commissari ad acta nominati dal giudice amministrativo in sede di giudizio di ottemperanza);
come precisato dalle stesse sentenze, ivi compresa la prima citata, in sede di ottemperanza la priorità assoluta è l’esecuzione del giudicato, che non può essere ostacolata dai normali itinera burocratici, che avrebbero dovuto essere messi in atto a tempo debito;
nei casi più gravi di mancato adempimento da parte dell’Amministrazione, come da parte dell’Istituto tesoriere, all’obbligo di rendere possibile l’attività del commissario, il giudice amministrativo potrà disporre l’intervento della forza pubblica (cfr. T.A.R. Sicilia, Catania, sez. III, n. 2399/1995).

p.q.m.

il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia – Sezione staccata di Catania – Sezione Quarta, accoglie l’istanza del Commissario ad acta, e per l’effetto proroga il termine già concesso di ulteriori 180 giorni, decorrenti dalla scadenza del termine originario, onerando il commissario di adeguarsi alle prescrizioni in motivazione precisate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Amministrazione, ed incarica la Segreteria di darne comunicazione alle parti, nonché al Commissario ad acta presso la sua sede di servizio.
Così deciso, a Catania, nella Camera di Consiglio del 21 maggio 2008.
L’estensore Il presidente
dott. Dauno F.G. Trebastoni dott. Ettore Leotta
Depositata in Segreteria il 07 giugno 2008.

mercoledì 25 giugno 2008

CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. UNITE CIVILI - sentenza 5 giugno 2008 n. 14826

FATTO

Con atto di citazione notificato il 10.7.1992, l'Arcidiocesi di Napoli, già proprietaria di un fondo con annessa casa colonica sito in (omissis), e riportato in Catasto al foglio (omissis), particelle (omissis), convenne in giudizio, davanti al Tribunale di Napoli, l'Amministrazione provinciale di Napoli, chiedendo accertarsi il proprio diritto alla retrocessione di una parte dell'immobile (particella (omissis), in parte, e particelle (omissis), per intero), ovvero al pagamento del relativo controvalore, oltre all'indennità per illegittima occupazione.
A fondamento della domanda, espose che con decreto del 23.8.1963, n. 65911 il Prefetto di Napoli aveva disposto l'espropriazione dell'intero fondo in favore dell'Amministrazione Provinciale, ai fini della costruzione del Nuovo Ospedale Psichiatrico; per la realizzazione dell'opera era stata peraltro utilizzata solo un'area della superficie di mq. 5.600, inclusa nella particella (omissis), mentre per l'area residua l'Amministrazione Provinciale aveva rinunciato all'espropriazione, dichiarando di non averla mai occupata e di aver promosso la rettifica del decreto di esproprio, che però non era mai intervenuta.
Si costituì l'Amministrazione Provinciale, ed eccepì di non aver più la disponibilità del fondo, assumendo che con verbale del 23.6.1982 l'intero complesso ospedaliero era stato consegnato all'Unità Sanitaria Locale n. (omissis), in attuazione del decreto del 27.5.1982, n. 4025, con cui la Regione Campania aveva trasferito ai Comuni l'esercizio delle funzioni sanitarie in materia di assistenza psichiatrica, attribuendo agli stessi gli immobili e le relative attrezzature. In subordine, eccepì l'inammissibilità della domanda di retrocessione, per mancanza del provvedimento discrezionale con cui si dichiarava che l'immobile non serviva più alla realizzazione dell'opera, aggiungendo, nel merito, che il fondo, pur non essendo stato utilizzato, costituiva parte integrante del complesso ospedaliere.
L'attrice chiamò quindi in causa l'Usl n. (omissis), estendendo alla stessa la domanda proposta nei confronti della convenuta.
Con sentenza del 26.8.2002, il Tribunale di Napoli, dato atto della mancanza del decreto di cui alla L. 25 giugno 1865, n. 2359, art. 61, dichiarò il difetto di giurisdizione del giudice ordinario.
Con sentenza depositata il 21.1.2005, la Corte di Appello di Napoli ha rigettato l'impugnazione proposta dall'attrice. Premesso che la domanda proposta dall'attrice ha ad oggetto la retrocessione parziale del fondo espropriato, la quale ricorre nel caso in cui uno o più degl'immobili acquisiti non abbiano ricevuto in tutto o in parte la prevista destinazione, la Corte di Appello ha innanzitutto distinto tale ipotesi dalla retrocessione totale, che ha luogo nel caso in cui l'area espropriata sia rimasta completamente inutilizzata per la realizzazione dell'opera pubblica, affermando che solo in quest'ultima ipotesi il proprietario può rivolgersi all'Autorità giudiziaria per ottenere la restituzione dell'immobile: nel primo caso, infatti, egli non è titolare di un diritto soggettivo, ma di un interesse legittimo, in quanto la retrocessione è subordinata all'inserimento del bene nell'elenco di quelli non più utili all'esecuzione dell'opera, ovvero all'emissione del decreto previsto dalla L. n. 2359 del 1865, art. 61, comma 3.
Tale decreto non ammette equipollenti, non potendo il giudice ordinario sostituirsi all'Amministrazione nella valutazione discrezionale relativa all'utilizzabilità del fondo per lo scopo cui è preordinata l'espropriazione; a tal fine, infatti, pur non occorrendo un'espressa qualificazione d'inservibilità o un riferimento all'art. 61 cit., si richiede una formale manifestazione di volontà, che nella specie la Corte d'Appello ha ritenuto di non poter ravvisare in un certificato prodotto in giudizio dall'attrice, nel quale il Presidente dell'Amministrazione Provinciale dava atto della parziale utilizzazione dell'immobile e dell'intenzione della convenuta di rinunciare all'esproprio del residuo, non essendosi tale intenzione materializzata in una deliberazione dell'organo collegiale competente.
Avverso la predetta sentenza ha proposto ricorso per cassazione l'Arcidiocesi, articolato in tre motivi, illustrati da memoria; ha resistito con controricorso l'Amministrazione Provinciale; non ha invece svolto attività difensiva la Gestione liquidatoria dell'Usl n. (omissis), nel frattempo succeduta alla terza chiamata in causa.

DIRITTO

Con il primo motivo d'impugnazione, la ricorrente denuncia la violazione della L. 25 giugno 1865, n. 2359, artt. 60 e 61, del D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, art. 47, e dell'art. 37 c.p.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5. Premesso che il principio secondo cui la dichiarazione d'inservibilità non ammette equipollenti ha il solo scopo di evitare che sull'accertamento della mancata utilizzazione dei beni espropriati si verifichi la sostituzione del giudice ordinario alla Pubblica Amministrazione nell'apprezzamento dell'interesse pubblico, sostiene che tale atto può ben assumere altra forma, purchè l'Amministrazione abbia seriamente manifestato la volontà di non utilizzare i beni per lo scopo cui era preordinata l'espropriazione; ai fini dell'insorgenza del diritto alla retrocessione, può quindi ritenersi sufficiente, nella specie, l'espressa rinuncia all'espropriazione dei beni non utilizzati, risultante dal certificato rilasciato dal legale rappresentante dell'ente espropriante e prodotto in giudizio, non potendo l'espropriato essere costretto a sopportare le conseguenze dell'inerzia dell'Amministrazione nell'emissione del decreto prefettizio.
La necessità dell'intervento del Prefetto, ai fini della retrocessione dei beni non utilizzati, deve d'altronde ritenersi venuta meno per effetto della nuova disciplina dettata dal D.P.R. n. 327 del 2001, che lascia spazio all'iniziativa dell'interessato, il quale può richiedere al beneficiario dell'espropriazione la restituzione dei predetti beni, con la possibilità di ottenere la dichiarazione di inservibilità e l'indicazione del prezzo di retrocessione.
Con il secondo motivo, la ricorrente censura la sentenza impugnata per vizio di motivazione, nonchè per violazione e falsa applicazione di norme di diritto, in relazione all'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5.
Sostiene infatti che la Corte d'appello ha affermato apoditticamente l'inidoneità della rinunzia dell'Amministrazione Provinciale ad integrare la dichiarazione di inservibilità dei beni non utilizzati, senza spiegare le ragioni per cui tale rinunzia non costituisce una manifestazione di volontà sufficiente a far assurgere la situazione soggettiva dell'espropriato al rango di diritto soggettivo.
In realtà, secondo la ricorrente, la retrocessione rappresenta un'ipotesi di giurisdizione piena del giudice ordinario, il quale, con un provvedimento avente efficacia costitutiva, determina il trasferimento del diritto di proprietà, che avrebbe dovuto realizzarsi con il consenso dell'Amministrazione, sostituendo la volontà e l'attività di quest'ultima, indipendentemente dal procedimento amministrativo che deve precedere la formazione della predetta volontà, ed anche in contrasto con la stessa.
Con il terzo motivo, la ricorrente eccepisce in via subordinata l'illegittimità costituzionale della L. n. 2359 del 1865, art. 61, per contrasto con l'art. 100 Cost., comma 1, art. 102 Cost., comma 1, e art. 113 Cost., comma 1, nonchè con l'art. 25 Cost., comma 1, e art. 102 Cost., comma 2.
A suo avviso, infatti, la norma in questione, oltre a porsi in contrasto con il principio, codificato nella L. 20 marzo 1865, n. 2248, art. 2, all. E, secondo cui il giudice ordinario è il giudice naturale dei diritti soggettivi sia nei rapporti tra i privati che nei confronti della Pubblica Amministrazione, sottrae al medesimo giudice le controversie in materia urbanistica ed edilizia, finendo con il connotare il giudice amministrativo quale giudice straordinario o speciale, vietato dalla Costituzione.
Il ricorso è infondato, e va rigettato.
Va premessa la distinzione tra la retrocessione totale, prevista dalla L. n. 2359 del 1865, art. 63, che si ha quando l'opera pubblica non sia stata eseguita, e siano decorsi i termini a tale uopo concessi o prorogati, e la retrocessione parziale, prevista dagli artt. 60 e 61 della medesima legge, che si ha quando dopo l'esecuzione totale o parziale dell'opera alcuni dei fondi espropriati non abbiano ricevuto la prevista destinazione: mentre nel primo caso il diritto soggettivo alla retrocessione, azionabile davanti al giudice ordinario, sorge automaticamente per effetto della mancata realizzazione dell'opera, e quindi a prescindere da qualsiasi valutazione discrezionale dell'Amministrazione, nel secondo caso esso nasce solo se ed in quanto l'Amministrazione, nel compimento di una valutazione discrezionale, in ordine alla quale il privato è titolare di un mero interesse legittimo, abbia dichiarato che quei fondi più non servono all'opera pubblica (Cass. 8.3.2006, n. 4894; 17.1.1997, n. 458). In particolare, nella retrocessione parziale, rispetto ai beni non ancora utilizzati e che l'espropriato avrebbe interesse riacquistare, tuttora può esercitarsi una valutazione discrezionale circa la convenienza di utilizzarli in funzione dell'opera realizzata, sicchè tali beni possono essere restituiti solo se la P.A. abbia dichiarato che essi non servono più alla realizzazione dell'opera nel suo complesso (Cass. 7.8.2001, n. 10894).
In ordine all'insorgenza del diritto alla retrocessione, in caso di parziale utilizzazione dei beni espropriati, mentre in caso di retrocessione totale gli espropriati sono titolari di uno ius ad rem di carattere potestativo a contenuto patrimoniale, che consente loro di agire dinanzi al giudice ordinario per chiedere la pronunzia di decadenza della dichiarazione di pubblica utilità e la restituzione dei beni espropriati, nel caso di retrocessione parziale il diritto alla restituzione è subordinato alla dichiarazione del Prefetto che il fondo non serve più all'opera pubblica, ed alla manifestazione da parte degli espropriati della volontà di riacquistarne la proprietà (Cass. 1.7.1994, n. 6253).
I primi due motivi vanno esaminati congiuntamente, essendo il primo - relativo alla ricostruzione dell'istituto della retrocessione parziale - il presupposto per la vera censura, contenuta nel secondo, che mira ad infirmare la sentenza di merito laddove non ha accertato la dichiarazione di retrocedibilità dei beni in un documento con cui l'amministrazione espropriante avrebbe dato atto che gli stessi erano superflui al fine dell'esecuzione dell'opera pubblica.
La sentenza impugnata postula la necessità di una formale manifestazione di volontà, da cui desumere l'intenzione di non avvalersi più di uria parte degli immobili espropriati, ma tale requisito ha ritenuto di non poter ravvisare in un certificato, nel quale, in data 14.2.1967, il Presidente dell'Amministrazione provinciale dava atto che "l'effettiva espropriazione degli immobili di proprietà della Parrocchia (omissis)...è limitata a mq. 5.600 della particella (omissis)", e che "l'Amministrazione provinciale, come da decreto prefettizio di rettifica in corso di emissione, va a rinunziare all'espropriazione della maggiore estensione della particella (omissis), nonchè alla espropriazione della particella (omissis) e della particella (omissis)".
La doglianza della ricorrente attiene all'efficacia, al fine della retrocedibilità dei beni inservibili, di quel documento, quale inequivoca manifestazione di volontà di non utilizzare i beni espropriati.
Circa le modalità in cui la dichiarazione d'inservibilità deve essere resa - la pubblicazione da parte dell'espropriante dell'avviso indicante che i beni che non servono più all'esecuzione dell'opera pubblica, ha carattere alternativo rispetto al decreto del Prefetto (Cass. 9.10.1963, n. 2697) - va affermato che l'inservibilità non può essere sostituita da un accertamento dell'Autorità giudiziaria, involgendo un giudizio discrezionale dell'autorità amministrativa in ordine all'esistenza o meno di un rapporto di utilità tra il relitto e l'opera compiuta, anche in ragione di una semplice accessorietà o dipendenza (Cass. 5.8.1964, n. 2236).
La manifestazione di volontà dell'amministrazione in ordine all'inservibilità dei beni ai fini della retrocessione, assume la forma di atto conclusivo di un procedimento che, secondo la sequenza indicata dalla L. n. 2359 del 1865, art. 61, - il D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, è non correttamente invocato, essendo entrato in vigore ben dopo l'esproprio e l'introduzione della presente causa -, vede la pubblicazione di un elenco con cui i beni residui alla realizzazione dell'opera vengono identificati e per l'effetto rimessi in vendita, al fine che i precedenti proprietari possano esercitare, nel termine di mesi 3, il diritto di prelazione che la legge loro riconosce. In mancanza della pubblicazione dell'avviso, ove gli interessati abbiano sentore della mancata utilizzazione di parte dei beni espropriati, possono attivare la procedura, sollecitando al Prefetto l'emissione della declaratoria d'inservibilità.
Ove non vi sia stata dichiarazione formale d'inservibilità, valore equipollente può essere ricercato solo in un comportamento dell'Amministrazione dalla quale possa desumersi la messa in vendita dei beni, in quanto non più necessari alla realizzazione dell'opera per la quale essi furono espropriati. E' evidente che la reimmissione dei cespiti sul mercato è sintomatica della definitiva decisione di non utilizzare quella parte di beni per l'opera pubblica: ragione per cui queste Sezioni unite ritennero si identificare la dichiarazione di inservibilità nella delibera con cui l'ente espropriante destinava a vendita o permuta i fondi per scopi - uffici pubblici, studi professionali, bar, ristoranti - diversi dalle programmate iniziative di tipo industriale e relative infrastrutture (Cass. 29.11.2000, n. 1231).
L'esaurimento del potere discrezionale nel senso della dismissione del bene, non è ravvisabile nella specie, come correttamente ritenuto dalla Corte d'appello.
Il "certificato" risalente al 1967 contiene, in coerenza alla forma da esso rivestita, l'attestazione di una procedura valutativa in corso, il cui compimento viene rimesso al Prefetto ai fini dell'eventuale "rettifica" del decreto di espropriazione, di sicuro non approdata ad una volontà di cessione dei beni sul mercato. Manca qualsiasi contenuto negoziale impegnativo in tale dichiarazione, che la renda equiparabile alla pubblicazione dell'avviso, di cui al primo comma dell'art. 61, con l'elenco dei beni inservibili che possono essere rivenduti.
L'interpretazione dell'atto è peraltro confermata dal contegno successivo delle parti, dello stesso soggetto espropriato, che non si attivò, nei tre mesi successivi, mediante formale dichiarazione di riacquisto dei beni, ai fini dell'esercizio del diritto alla retrocessione, che evidentemente lo stesso non riteneva ancora perfezionato, e dell'espropriante, che malgrado sollecitazione, non ritenne di emettere rettifica del decreto di esproprio o dichiarazione d'inservibilità. Il comportamento negativo dell'amministrazione, contrastante con l'"intenzione" che traspare dal documento esibito dalla parte, è riconducibile all'ampiezza del potere discrezionale esercitato nel provvedere sull'istanza dell'espropriato ai fini della dichiarazione d'inservibilità, mediante il quale deve accertarsi di volta in volta se i beni espropriati i quali non abbiano avuto in tutto la prevista destinazione, possano ancora essere utili o meno alla realizzata opera di pubblica utilità, senza peraltro fare esclusivo riferimento alla specifica opera pubblica per la quale l'immobile era stato espropriato prescindendo da tutte quelle esigenze di pubblico interesse eventualmente sopravvenute medio tempore, ma, al contrario, compiendo le proprie valutazioni discrezionali con riferimento anche al periodo successivo in modo da avere ben presenti tutti gli elementi necessari per poter perseguire, in maniera ottimale, il fine di pubblico interesse attribuitole dalla legge: da tener presente che nella vicenda di cui è causa si è inserita l'istituzione del servizio sanitario nazionale e la successione, nelle funzioni e nei beni, dalla Provincia ai Comuni attraverso le Unità sanitarie locali.
Il terzo motivo di ricorso va parimenti disatteso. Appare perfettamente conforme ai dettami costituzionale il riparto di giurisdizione in materia di retrocessione, ancorato - in coerenza alla disciplina di cui alla L. n. 2359 del 1865, art. 60 e ss., - al binomio diritti-interessi. Ove sia necessario l'apprezzamento discrezionalità dell'amministrazione d'inservibilità dei beni, nel quadro della valutazione complessa che prima si è descritta, non può esservi ingerenza da parte del giudice ordinario. Il soggetto che sia interessato alla definizione del procedimento valutativo ai fini di ottenere la retrovendita dei beni espropriatigli, può sollecitare la dichiarazione d'inservibilità, e in mancanza ben può attivare la procedura di formazione del silenzio-inadempimento, strumentale alla rimozione della inerzia amministrativa, rimessa al giudice amministrativo, che è giudice di pari dignità e idoneo ad assicurare adeguata tutela delle posizioni giuridiche soggettive del cittadino (Corte cost. 6.7.2004, n. 204).
Il mancato perfezionamento del diritto soggettivo alla retrocessione, per l'assenza di una dichiarazione d'inservibilità di parte dei beni espropriati, induce a dichiarare, in riferimento all'azione promossa dall'attuale ricorrente, la giurisdizione del giudice amministrativo: in applicazione del principio della translatio iudicii la causa va rimessa al competente Tar Campania.
Al rigetto del ricorso segue la condanna alle spese, come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso, dichiara la giurisdizione del giudice amministrativo, rimettendo le parti davanti al Tar Campania, e condanna il ricorrente alle spese, liquidate in Euro 3.600,00, di cui Euro 3.500,00 per onorari.
Così deciso in Roma, il 6 maggio 2008.
Depositata in Cancelleria il 5 giugno 2008.

martedì 17 giugno 2008

TAR LAZIO - ROMA, SEZ. III - sentenza 11 giugno 2008 n. 5764

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso n.5278 del 2006 proposto dalla ditta Orthotecnica Noi, in persona del legale rappresentante pro-tempore, rappresentata e difesa dall’avv. Bruno Mammone presso il cui studio in Roma, Largo Strindberg n.39, è elettivamente domiciliata;

CONTRO
l’Asl RM D, in persona del legale rappresentante pro-tempore, non costituita in giudizio;
e nei confronti di:
Odontotecnica B. Rinaldi & C. srl,, in qualità di capogruppo di un costituendo raggruppamento temporaneo di imprese, in persona del legale rappresentante pro-tempore, non costituita in giudizio;
per l’annullamento:
della deliberazione n.130 del 7 marzo 2006 e della allegata lettera di invito-capitolato nonchè dei provvedimenti presupposti, connessi e consequenziali e segnatamente della nota della stessa ASL RM D prot. n.6809 del 27/1/2006.

Visto il ricorso con la relativa documentazione;
Visti gli atti tutti della causa;
Udito alla pubblica udienza del 16 aprile 2008 - relatore il dottor Giuseppe Sapone – l’avvocato di parte ricorrente;
Ritenuto in fatto e in diritto quanto segue:

FATTO

Con delibera n.620 dell’11 agosto 2005 l’intimata Asl ha indetto un pubblico incanto per la fornitura, di durata triennale, di manufatti odontotecnici a favore dei propri assistiti, strutturato in due lotti.
La ditta ricorrente ha partecipato alla gara de qua relativamente al secondo lotto, per il quale la migliore offerta è stata presentata dall’ati odierna controinteressata che aveva presentato uno sconto del 22%, mentre per quanto concerne il primo dei lotti in questione la migliore offerta è risultata quella della srl Wilocs che aveva riconosciuto uno sconto del 10%, uniformandosi per tale aspetto a quanto stabilito dal capitolato di gara il cui art.4 aveva previsto uno sconto massimo del 10%.
Alla luce di tale situazione fattuale l’intimata Asl, conformandosi a quanto sottolineato dalla commissione aggiudicatrice, la quale aveva rilevato che il capitolato di gara laddove stabiliva uno sconto massimo del 10% risultava in palese contrasto con lo schema tipo del capitolato approvato dalla Regione Lazio che prevedeva la possibilità di offrire una percentuale di sconto non superiore al 20%, al fine di porre rimedio alla palese disparità di trattamento verificatasi nelle due forniture de quibus con il conseguente danno economico per l’azienda, ha adottato l’impugnata delibera n.130 del 2006, con cui ha disposto di annullare la delibera di indizione del pubblico incanto e di indire, ai sensi del combinato disposto delle lettere a) e d) dell’art.1 della L.R. 22/1989, come modificato dall’art. 29 della L.R. n.45/96, una trattativa privata avente ad oggetto la fornitura, della durata di un anno, dei medesimi prodotti della precedente gara.
Il ricorso è affidato ai seguenti motivi di doglianza:
Violazione dell’art.7 e segg. della L. n.241/1990;
Violazione di legge; Difetto di motivazione,
Violazione dell’art.1, lettera a) e d) della L.R. Lazio n.22/1989.
Alla pubblica udienza del 7 novembre 2007 il ricorso è stato assunto in decisione ed il Collegio con sentenza n.12767 del 12 dicembre 2007, regolarmente adempiuta, ha ordinato all’intimata ASL RM D di depositare presso la Segreteria della Sezione, entro 30 giorni dalla comunicazione o notificazione della presente sentenza, un’articolata relazione a firma del Dirigente preposto al settore competente per la materia oggetto del presente gravame in cui doveva essere indicato:
1) se era intervenuto un provvedimento di aggiudicazione definitiva, con indicazione degli estremi, relativamente alla trattativa privata indetta con la contestata delibera;
2) se l’adozione di tale provvedimento era stata portata a conoscenza della ditta ricorrente.
Successivamente al deposito in giudizio della richiesta documentazione effettuato in data 20 dicembre 2007, la società ricorrente con motivi aggiunti di doglianza depositati in data 27 febbraio 2008 ha impugnato:
a) la determinazione n.623 del 10.8.2006, comunicatale nei suoi estremi con nota prot. n.66219 dell’11/9/2006, con cui è stata disposta l’aggiudicazione della trattativa privata a favore della srl Wilocs, prospettandone l’illegittimità per eccesso di potere per difetto dei presupposti;
b) la determinazione n.779 del 4.10.2007 con cui è stata indetta una gara per pubblico incanto per la fornitura dei manufatti odontotecnici de quibus, avverso la quale è stata dedotta l’illegittimità derivata in conseguenza dell’illegittimità del provvedimento di autotutela, già gravato in sede principale, sulla base del quale è stata adottata.
Alla pubblica udienza del 16 aprile 2008 il presente gravame è stato nuovamente assunto in decisione.

DIRITTO

Con il proposto gravame la società ricorrente, la quale aveva partecipato al pubblico incanto indetto dall’intimata ASL per la fornitura, di durata triennale, di manufatti odontotecnici a favore dei propri assistiti e strutturato in due lotti, presentando offerta solamente per il secondo lotto e classificandosi al secondo posto della relativa graduatoria, ha impugnato la determinazione, in epigrafe indicata, con cui la citata asl ha disposto di annullare la deliberazione di indizione del predetto incanto ed ha al contempo disposto di indire, ai sensi del combinato disposto delle lettere a) e d) dell’art.1 della L.R. n.22/1989, come modificato dall’art.29 della L.R. n.45/1996, una trattativa privata avente ad oggetto la fornitura, della durata di un anno, dei medesimi prodotti della precedente gara.
Con il primo motivo di doglianza è stata prospettata la violazione dell’art.7 della L. n.241/1990 in quanto l’adozione della contestata deliberazione di annullamento non è stata preceduta dalla previa comunicazione dell’avvio del relativo procedimento a tutte le imprese che vi avevano partecipato.
La censura non è suscettibile di favorevole esame atteso che la mera partecipazione ad una procedura concorsuale non è idonea a far sorgere posizioni giuridiche soggettive particolari, qualificabili in termini di diritto soggettivo o di interesse legittimo, alla conclusione del procedimento, ma fa sorgere in capo ai partecipanti alla gara una mera aspettativa alla conclusione del procedimento, la quale, qualora risulti compromessa da un provvedimento di secondo grado incidente sul procedimento di secondo grado, non richiede la previa comunicazione di avvio del relativo procedimento.(Tar Trentino, Bolzano, n.428/2006).
In ogni caso, come evidenziato dalla asl nella relazione versata agli atti, l’attuale istante nella seduta del 10 gennaio 2006 era stata resa edotta dell’intendimento dell’amministrazione di procedere all’annullamento della gara, e, pertanto, era nelle condizioni di presentare memorie al riguardo.
Con le successive doglianze la ditta ricorrente ha contestato la mancata esclusione dalla gara cui aveva partecipato della concorrente prima graduata in quanto aveva presentato un ribasso superiore al limite previsto, nonché la fondatezza delle ragioni poste a base dall’amministrazione della delibera di annullamento.
In ordine logico devono essere esaminate per prime le doglianze dedotte avverso l’annullamento, atteso che il rigetto delle stesse comporterebbe la carenza di interesse di quelle dedotte avverso la mancata esclusione dell’aggiudicataria.
Come precisato il contestato provvedimento di autotutela è stato assunto in quanto è stato riscontrato un contrasto tra il capitolato speciale posto a base della gara che prevedeva una percentuale massima di sconto del 10% e il capitolato regionale tipo che consentiva una percentuale di sconto del 20%, che la circolare della Regione Lazio n.21223 dl 22/11/1999 non aveva considerato in alcun modo come un limite inderogabile.
In tale contesto, quindi, la Commissione di gara, una volta appurata l’indisponibilità dell’aggiudicataria del primo lotto ad offrire una percentuale di sconto maggiore di quella proposta, allineando sostanzialmente la propria offerta a quella dell’aggiudicataria del secondo lotto, al fine di evitare una palese ed ingiustificata disparità di trattamento nell’aggiudicazione dei due lotti, ha proposto l’annullamento della gara.
Le prospettazioni ricorsuali in merito risultano alquanto generiche e non contestano in alcun modo la fondatezza della ragione posta a base dell’avversato annullamento, in quanto si soffermano sulla circostanza che il capitolato speciale doveva costituire un limite che la commissione di gara non poteva in alcun modo derogare, e, conseguentemente, la stazione appaltante non poteva in alcun modo disporre il contestato annullamento senza inoltre motivare in ordine alla sussistenza di un concreto ed attuale interesse pubblico che lo giustificasse.
In merito il Collegio sottolinea che è proprio la natura inderogabile della lex specialis di gara ad aver indotto l’intimata asl, una volta acclarato il contrasto con il capitolato regionale, il quale costituisce una linea guida che le stazioni appaltante sono tenute ad osservare nell’espletamento delle gare de quibus, ad adottare il contestato annullamento.
In ordine all’insussistenza di un concreto ed attuale interesse pubblico, più affermata che dimostrata, deve essere rilevato, in linea con quanto evidenziato dall’amministrazione, che la non corretta formulazione del bando ha comportato una illegittima disparità di trattamento in sede di aggiudicazione dei due lotti, nonché avrebbe causato, se la procedura di gara fosse stata portata a termine, un esborso di risorse pubbliche contra legem.
Per quanto concerne l’impugnazione della contestata delibera nella parte in cui ha previsto l’indizione della trattativa privata, deve essere osservato che:
a) la società ricorrente ha impugnato con motivi aggiunti, notificati il 19.2.2008, la delibera n.623/2006 con cui è stata aggiudicata la fornitura oggetto della trattativa privata.
b) le suddette doglianze risultano essere palesemente tardive, atteso che con nota dell’11 settembre 2006, versata agli atti, l’Asl RM D aveva informato l’ORTHOTECNICA che era stata approvata la citata delibera n.623/2006 che aveva aggiudicato la fornitura de qua, e, pertanto, dalla data di ricezione della stessa iniziava a decorrere il termine per impugnarla, giusta il consolidato orientamento giurisprudenziale in materia, secondo cui: “Ai fini del decorso del termine per impugnare, la piena conoscenza di un provvedimento amministrativo non postula necessariamente che esso sia conosciuto in tutti i suoi elementi, essendo sufficiente che il destinatario sia stato reso edotto di quelli essenziali quali l’autorità emanante, la data, il contenuto dispositivo e il suo effetto lesivo, fatta salva la possibilità di produrre motivi aggiunti ove dalla conoscenza integrale del provvedimento emergano ulteriori profili di illegittimità” (ex plurimis CS, sez.IV, n.1541 del 10/4/2008).
c) conseguentemente l’impugnazione della deliberazione di indizione della trattativa privata deve essere dichiarata improcedibile in quanto, come sottolineato dall’orientamento giurisprudenziale maggioritario in materia, cui il Collegio intende uniformarsi, l’impugnazione del bando diventa improcedibile nel caso di mancata impugnazione dell’aggiudicazione - cui deve essere equiparata per gli effetti la tardività delle doglianze dedotte nei confronti della stessa - in ragione del carattere inoppugnabile del provvedimento finale attributivo dell’utilitas all’aggiudicatario (CS, sez.VI, n.2846 del 17/5/2006; n.785 dell’11/2/2002; Sez.V, n.763 del 30/6/1997; Tar Sardegna, n.312 del 23/2/2007).
Da rigettare sono infine le doglianze, pure dedotte con i motivi aggiunti, con cui è stata prospettata l’illegittimità derivata della deliberazione n..779 del 4.10.2007 in forza della quale è stato indetto un pubblico incanto per la fornitura triennale dei manufatti de quibus, in quanto il provvedimento di autotutela richiamato dalla suddetta delibera e sulla base del quale è stata assunta, già gravato in via principale, non risulta inficiato, per le argomentazioni di cui sopra, dalle illegittimità prospettate.
Ciò premesso, il proposto gravame in parte deve essere rigettato ed in parte deve essere dichiarato tardivo ed improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse.
Sussistono giusti motivi per compensare tra le parti le spese del presente giudizio.

P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio, Sezione III, definitivamente pronunciando sul ricorso n. 5278 del 2006, come in epigrafe proposto, in parte lo rigetta.
Spese compensate.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'Autorità amministrativa.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 16 aprile 2008 dal Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio, sezione terza, con l’intervento dei signori giudici:
Dr. Stefano BACCARINI - Presidente
Dr. Giuseppe SAPONE - Consigliere, estensore
Dr. Cecilia ALTAVISTA - Consigliere

Consiglio di Stato, Sez. V, 9 giugno 2008 n. 2836

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, (Sezione Quinta)
ha pronunciato la seguente
DECISIONE
sul ricorso in appello n. 4710/2006, proposto dalla DAPAM S.r.l., rappresentata e difesa dall’avv. Riccardo Barberis, con domicilio eletto in Roma, Via Antonio Pollaiolo, 3 presso l’avv. Riccardo Barberis;

contro
il Comune di Sauze di Cesana, rappresentato e difeso dall’avv. Pier Costanzo Reineri, con domicilio eletto in Roma, via Lanciani 74 presso Elisabetta Esposito;
la GEOBRUGG IBERICA S.A., rappresentata e difesa dall’avv. Giovanni Bonaccio, con domicilio eletto in Roma, via Sebino n. 29 presso l’avv. Arrigo Varlaro Sinisi

e nei confronti
della Regione Piemonte, non costituitasi;
e con l’intervento di
ASSOROCCIA, rappresentata e difesa dall’avv Riccardo Barberis, con domicilio eletto in Roma, Via Antonio Pollaiolo, 3 presso l’avv. Riccardo Barberis;
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte, Sezione II, n. 1120/2006 del 25 febbraio 2006, resa tra le parti, concernente "appalto per opere paravalanghe";
Visto l’atto di appello con i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio del Comune di Sauze di Cesana, della GEOBRUGG IBERICA S.A. e di ASSOROCCIA;
Viste le memorie difensive;
Visti gli atti tutti della causa;
Visto l’art. 23-bis, comma sesto, della legge 6 dicembre 1971, n.1034, introdotto dalla legge 21 luglio 2000, n.205;
Designato relatore, alla pubblica udienza del 25 Gennaio 2008 , il Consigliere Aniello Cerreto e uditi, altresì, gli avvocati R. Barberis, P. C. Reineri, G. Bonaccia;
Visto il dispositivo di decisione n.66/2008;
Considerato in fatto ed in diritto quanto segue:
FATTO e DIRITTO
1.Con la sentenza gravata, il Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte ha respinto il ricorso proposto dalla DAPAM S.r.l. avverso la determinazione del responsabile dell’Area tecnica del Comune di Sauze di Cesana recante "Esito di gara di appalto mediante pubblico incanto del 27 giugno 2005" e del verbale di gara dd. 27 giugno 2005, con i quali era stato aggiudicato all’Impresa Geobrugg Iberica S.a. l’appalto per i lavori di realizzazione di opere paravalanghe sul versante del Monte Sises a protezione della viabilità provinciale e delle aree di parcheggio, nonché avverso ogni altro provvedimento presupposto, successivo, e comunque connesso o conseguente ed in particolare il bando di gara del 6 giugno 2005 e il relativo disciplinare, il capitolato speciale d’appalto, il computo metrico estimativo, l’elenco prezzi e i particolari costruttivi del progetto esecutivo, facenti parte della documentazione di gara, nonché la deliberazione della Giunta comunale n. 35 del 19 maggio 2005 di approvazione del progetto esecutivo dell’opera ed eventuali atti successivi non noti ed in particolare l’eventuale aggiudicazione definitiva derivante da ulteriori determinazioni dirigenziali.
2. Al riguardo il Tribunale amministrativo, respinte le eccezioni di inammissibilità e tardività formulate dalle parti resistenti, ha ritenuto infondato il ricorso, considerando in particolare che il richiedere prodotti con caratteristiche specifiche corrispondeva ad esigenze peculiari della stazione appaltante in quanto solo quei prodotti, e non altri più comuni sul mercato, potevano soddisfare e che la stazione appaltante aveva legittimamente individuato le caratteristiche del prodotto richiesto sulla base delle proprie necessità ed aveva fatto riferimento all’unico prodotto già esistente sul mercato in grado di assicurare tale risultato, senza precludere soluzioni alternative di pari efficacia, che le imprese concorrenti ben avrebbero potuto proporre, senza poter ragionevolmente pretendere, tuttavia, che fosse la stazione appaltante ad indicarne le caratteristiche tecniche, perché ciò sarebbe equivalso a esigere dall’ente appaltatore un know how aziendale che, per definizione, lo stesso non possedeva e la cui disponibilità era rimessa alle normali regole di concorrenza fra imprese.
3.Avverso detta sentenza ha proposto appello la ricorrente originaria, che ha dedotto quanto segue;
-i profili di ammissibilità e ricevibilità del ricorso originario sono stati correttamente risolti dal Tribunale amministrativo;
-la procedura svolta è viziata per violazione dell’art. 16, comma 3, d.P.R. n.554 del 1999 e dell’art. 17, comma 9, l. n.109 del 1994.
Queste disposizioni vietano di introdurre nella disciplina di gara clausole menzionanti prodotti di una determinata provenienza o fabbricazione, salva la possibilità, in caso di necessità, di indicare uno specifico prodotto o procedimento accompagnati dall’espressione "o equivalenti". Ma, nel caso di specie, la lex specialis di gara, pur contenendo, la citata "clausola di equivalenza" (all’art. 4 del capitolato speciale), la priverebbe di concreta efficacia e ciò con particolare riferimento all’assenza di una specifica descrizione delle caratteristiche tecniche della "piastra d’appoggio", che ne impedirebbe la realizzazione da parte di altre imprese diverse da quella controinteressata ed il riferimento addirittura a brevetti senza alcuna equivalenza. E inoltre:
-la tipologia del prodotto oggetto di gara è analoga a quella prevista dall’Agenzia Torino 2006 con riferimento alle opere da realizzarsi per le Olimpiadi Torino 2006, che aveva provocato l’intervento dell’Autorità di vigilanza sui lavori pubblici di cui alla delibera n.251/2003, con cui era stato censurato l’operato della stazione appaltante per aver previsto l’impiego di componenti prodotti in esclusiva dalla Ditta Geobrugg;
- nella descrizione delle opere da appaltarsi è previsto l’impiego di "pannelli di rete in acciaio ad alta resistenza tipo Tecco", che ne precluderebbe, già sul piano giuridico, la fornitura da parte d’imprese diverse da quella in possesso della privativa (ditta Fatzer collegata alla Geobrugg);
- è prevista anche la fornitura di "fune Seale… in trefoli d’acciaio galvanizzato al supercoating (Zn/A1), che è in marchio registrato di cui dispone Fatzer-Geobrugg, e senza neppure la clausola di equivalenza;
-non è fondato il tentativo della resistente tendente a sostenere che non vi è identità tra Geobrucc iberica e Fatzer, in quanto, a parte il collegamento tra le due società, le tecniche utilizzate sono comunque riconducibili ad entrambe le compagini sociali ed anche alla filiale spagnola di Geobrugg;
-l’impresa Geobrugg, in quanto detentrice dei brevetti relativi alla fornitura da effettuare, si trova in una posizione di vantaggio, tanto è vero che i concorrenti hanno dovuto richiedere preventivi a tale impresa, in cui sono stati indicati importi maggiori rispetto a quelli praticati nell’offerta presentata dalla Geobrugg stessa, con alterazione della concorrenza nella gara;
- violazione della direttiva CEE 37/1993 e 18/2004 in materia di individuazione delle condizioni di accesso agli appalti di lavori pubblici, in quanto costituisce lesione del diritto alla libera concorrenza l’introduzione nei bandi di gara di clausole impositive dell’impiego di materiali o prodotti certificati conformi solo ad un determinato tipo o di prodotti di una determinata marca qualora tali clausole non siano accompagnate dalla menzione "o equivalente".
La ricorrente aveva infine chiesto consulenza tecnica d’ufficio al fine di verificare sotto il profilo tecnico la fondatezza di quanto asserito, con riserva di precisare gli eventuali questi da proporre al consulente tecnico.
4.Costituitosi in giudizio, il Comune di Sauze di Cesana ha chiesto il rigetto dell’appello richiamandosi alla sentenza impugnata e nel contempo ha proposto appello incidentale per ribadire l’inammissibilità del ricorso originario.
Si è costituita in giudizio anche l’aggiudicataria dell’appalto (Geobrugg iberica), rilevando che alla gara, con il criterio di aggiudicazione del prezzo più basso mediante offerta a prezzi unitari, avevano partecipato trentacinque ditte e che, ammesse venti di esse, era stata individuata la soglia di anomalia, per cui venivano escluse cinque imprese e l’appalto veniva aggiudicato alla Geobrugg iberica con la percentuale di ribasso del 27,869 %, mentre la ricorrente si classificava al secondo posto con un ribasso del 27,27 %; e rilevando, altresì, quanto segue:
-è erronea l’individuazione della ditta Geibrugg iberica quale soggetto titolare di brevetti, che invece appartengono alla società svizzera Fatzer, sia pure con essa collegata;
-la disposizioni di cui all’art. 16, comma 3, d.P.R. n.554 del 1999 ed all’art. 17, comma 9, l. n. 109 del 1994 non pongono un divieto assoluto, ma consentono, ove l’indicazione di un determinato prodotto abbia un’adeguata giustificazione nella particolarità delle esigenze che la fornitura debba soddisfare e non produca l’effetto di favorire o escludere determinati fornitori o prodotti, non vi è ragione per limitare il potere tecnico discrezionale della stazione appaltante nel definire l’oggetto della fornitura, conclusione dalla quale non si discosta l’Autorità di vigilanza sui lavori pubblici con la determinazione n.2 del 29 marzo 2007;
-non è veritiero l’assunto secondo cui il Comune rinvierebbe al prodotto posseduto da una sola ditta e non ne descriverebbe neppure le specifiche tecniche, atteso che gli elaborati progettuali contengono una descrizione dettagliata delle opere da realizzare con la previsione di specifiche tecniche e prestazionali sufficientemente precise; in particolare, la speciale piastra di appoggio non risulta coperta da brevetto industriale né presenta caratteristiche che ne impediscano la riproduzione,né veniva richiesta specifica certificazione al riguardo; il riferimento al tipo "Tecco" del pannello in rete richiesto dagli atti di gara è puramente descrittivo delle caratteristiche prestazionali e funzionali dell’opera oggetto di appalto, con previsione della clausola di equivalenza, ed il brevetto invocato dalla ricorrente si riferisce alla rete metallica per protezione contro cadute di massi o per la protezione di uno strato superficiale terrestre, mentre nel caso in esame si tratta di barriere fermaneve o paravalanche; analoghe considerazioni valgono anche la fornitura di " fune Seale… in trefoli d’acciaio galvanizzato al supercoating (Zn/A1)", atteso che la dicitura Supercoating (Zn/A1) indica unicamente un processo di zincatura dell’acciaio a fini anticorrosivi, che è utilizzato da altri operatori del settore;
- nel caso in esame non vi è stata alterazione della concorrenza, come confermato dall’offerta presentata dalla ricorrente, che si è classificata al secondo posto in graduatoria, dalla quale sono state escluse per anomalia cinque offerte.
5.Si è costituita in giudizio l’associazione Assortoccia a difesa dell’interesse legittimo di tutti gli associati a far rispettare le regole di settore nell’affidamento degli appalti pubblici, intervenendo ad adiuvandum della posizione della ricorrente.
Con memoria conclusiva, la ricorrente ha controdedotto al ricorso incidentale del Comune ha ulteriormente illustrato le proprie doglianze.
Il Comune a sua volta ha eccepito l’imammissibilità dell’intervento dell’associazione Assoroccia e l’inammissibilità della relativa documentazione.
Con note di udienza, la Geobrugg Iberica ha fatto presente che, in riferimento alla vicenda penale rappresentata dalla ricorrente, non vi era alcun coinvolgimento del Gruppo Geobrugg, trattandosi di concussione, che è a carico di un funzionario pubblico.
All’udienza del 25 gennaio 2008 il ricorso è stato trattenuto in decisione.
7. L’appello principale è privo di fondamento, per cui venendo ad essere confermata la sentenza del Tribunale amministrativo di rigetto di ricorso originario, non occorre pronunciarsi sull’appello incidentale del Comune teso a far dichiarare l’inammissibilità del ricorso stesso e sull’intervento ad adiuvandum dell’associazione Assoroccia.
8. Nel merito vanno condivise le conclusioni cui è pervenuto il primo giudice.
8.1 È innanzitutto insussistente la violazione dell’art. 16, comma 3, d.P.R n. 554 del 1999.
Questa disposizione prevede quando segue: "E’ vietato introdurre nei progetti prescrizioni che menzionino prodotti di una determinata fabbricazione o provenienza oppure procedimenti particolari che abbiano l'effetto di favorire determinate imprese o di eliminarne altre o che indichino marchi, brevetti o tipi o un'origine o una produzione determinata. E’ammessa l'indicazione specifica del prodotto o del procedimento, purchè accompagnata dalla espressione "o equivalente", allorchè non sia altrimenti possibile la descrizione dell'oggetto dell'appalto mediante prescrizioni sufficientemente precise e comprensibili".
Come emerge dal tenore letterale, la norma (poi confermata dall’art. 68, comma 16, d. lgs. 12 aprile 2006, n. 163) non esclude la possibilità per la stazione appaltante di riferirsi ad un determinato prodotto o procedimento, purchè tale indicazione sia accompagnata dall’espressione "o equivalente" e non sia altrimenti possibile una compiuta ed efficace descrizione dell’oggetto contrattuale richiesto.
E’ quest’ultima la situazione che si è verificata nel caso in esame.
Come correttamente rilevano le parti resistenti, l’intento della stazione appaltante era di realizzare "un’opera di cd. difesa attiva dal rischio valanghe, di tipo elastico, differente ed innovativa sotto il profilo tecnico-costruttivo da quelle normalmente utilizzate e reperibili sul mercato con la previsione di specifici trattamenti anticorrosione, impiego di pannelli in fune, utilizzo di una piastra d’appoggio che non necessita di micropali di sottofondazione, ecc.) al fine di ridurre al minimo i tempi di posa (ritenendosi prioritario il rispetto delle tempistiche imposte dall’incombere dell’evento olimpico e l’impatto ambientale relativo, nonché dalla necessità di garantire elevati livelli professionali, di efficienza ed affidabilità. Soprattutto a medio e lungo termine, riducendo così il ricorso a futuri interventi manutentivi".
Tali valutazioni - rimesse all’apprezzamento discrezionale del Comune resistente - dimostrano che il richiamo a prodotti con caratteristiche specifiche corrispondeva ad esigenze peculiari della stazione appaltante, che solo quei prodotti, e non altri più comuni sul mercato, potevano soddisfare.
È sulla base di questi generali rilievi che devono essere esaminate le singole contestazioni mosse dalla società ricorrente, ed ora appellante, nei confronti della specifiche clausole e previsioni contenute nella lex specialis:
a) in primo luogo, l’asserita assenza d’una precisa descrizione delle caratteristiche tecniche della "piastra d’appoggio" - che secondo la società ricorrente ne avrebbe di fatto impedito la produzione, se non rivolgendosi alle società già in possesso del relativo know how - non inficia la legittimità dell’intera procedura selettiva.
Come bene rilevano le parti resistenti, "i particolari costruttivi di tale piastra…sono senz’altro sufficienti alla sua realizzazione, tenuto conto che è stato posto, oltre alla caratteristiche geometriche e di resistenza, ben individuabili dal progetto, unicamente un requisito prestazionale, ovvero il garantire la stabilità senza utilizzo di micropali": in altre parole la stazione appaltante ha correttamamente individuato le caratteristiche del prodotto richiesto sulla base delle proprie necessità - esigendo una struttura la cui stabilità sia garantita anche in assenza di micropali - e ha fatto riferimento all’unico prodotto già esistente sul mercato in grado di assicurare siffatto risultato, senza precludere soluzioni alternative di pari efficacia, che le imprese concorrenti ben avrebbero potuto proporre; ciò senza poter ragionevolmente pretendere, tuttavia, che fosse la stazione appaltante ad indicarne le caratteristiche tecniche, perché ciò equivarrebbe ad esigere dall’ente appaltatore un know how aziendale che, per definizione, lo stesso non possiede e la cui disponibilità è rimessa alle normali regole di concorrenza fra imprese.
b) considerazioni non dissimili valgono per il secondo aspetto contestato dalla società ricorrente e appellante, l’esistenza, cioè, di un brevetto registrato relativamente ai "pannelli di rete in acciaio ad alta resistenza tipo Tecco", che ne avrebbe impedito la produzione a imprese diverse da quella in possesso della privativa.
Al riguardo - richiamate le precedenti osservazioni in merito alla possibilità di proporre sistemi alternativi – si deve evidenziare che la contestazione si fonda su un erroneo presupposto di fatto, in quanto il brevetto posseduto dalla società controinteressata (o meglio da una società ad essa collegata) riguarda la fabbricazione di "Rete metallica contro cadute massi o per assicurare uno strato di superficie terrestre come pure un procedimento ne un dispositivo per la sua realizzazione", cioè un processo produttivo diverso rispetto alla fabbricazione di reti a maglie in filo d’acciaio da utilizzarsi per la prevenzione contro le valanghe, oggetto dell’appalto in esame.
c) quanto, infine, al terzo aspetto contestato dalla ricorrente e appellante - cioè la privativa che coprirebbe la richiesta di "fune Seale…in trefoli d’acciaio galvanizzato al Supercoating" - si richiamano ancora una volta i precedenti rilievi, cui si aggiunge la considerazione, rilevata dalle parti resistenti , che tale "dicitura … richiama unicamente un processo di zincatura dell’acciaio di cui esistono sul mercato vari prodotti … è quindi da intendersi come nome generico, entrato nell’accezione comune per individuare i trattamenti corrosivi dell’acciaio": anche in questo caso, pertanto, l’esistenza della privativa non impediva alle imprese concorrenti l’utilizzo di prodotti alternativi, purchè ugualmente idonei a soddisfare le esigenze della stazione appaltante.
Per conseguenza, è insussistente la dedotta violazione delle direttive CEE 37/1993 e 18/2004, nella parte in cui richiamano un principio analogo a quello di cui all’art. 16 , comma 3, d.P.R n. 554 del 1999.
8.2 Inconferente è poi la dedotta violazione dell’art. 17, comma 9, l. n. 109 del 1994, il quale pone il divieto per gli affidatari di incarichi di progettazione di partecipare agli appalti ed alle concessioni di lavori pubblici, nonché subappalti o cottimi, per i quali abbiano svolto attività di progettazione. Nella specie non risulta che vi sia stata da parte dell’aggiudicataria, o di impresa collegata, una partecipazione alla predisposizione della progettazione dell’opera da realizzare, per cui difetta il presupposto per l’applicazione della disposizione invocata.
8.3 Non è meritevole di adesione neppure l’assunto della ricorrente, secondo cui l’impresa Geobrugg, in quanto detentrice dei brevetti relativi alla fornitura da effettuare, si trovava in una posizione di vantaggio, con alterazione della concorrenza nella gara.
Tale doglianza è smentita dalle risultanze della gara.
E’ opportuno precisare che la gara si era svolta con il criterio di aggiudicazione del prezzo più basso mediante offerta a prezzi unitari e ad essa avevano partecipato n.35 ditte, di cui solo venti ammesse; che tra le venti ammesse era stata individuata la soglia di anomalia nella percentuale del 28,788 % e che ben quattro ditte (tra le venti) avevano offerto una percentuale di ribasso superiore a quella dell’aggiudicataria, cui veniva aggiudicato l’appalto con la percentuale di ribasso del 27,869 %, mentre la ricorrente si classificava al 2° posto con un ribasso del 27,27 %, di poco inferiore a quello offerto dell’aggiudicataria (con una differenza dello 0,599 %, corrispondente ad appena diecimila euro su una base d’asta di euro 1.660.918,68).
Pertanto, l’offerta di una percentuale di ribasso del 27,27 da parte della ricorrente, e non di un ribasso maggiore, appare piuttosto espressione di una scelta imprenditoriale che dalla necessità di tener conto di costi aggiuntivi per procurarsi i prodotti con le caratteristiche richieste.
Per la conseguenza, non vi è ragione di procedere alla consulenza tecnica d’ufficio richiesta dalla ricorrente.
8.4.Contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente, la tipologia del prodotto oggetto di gara non appare analoga a quella prevista dall’Agenzia Torino 2006 con riferimento alle opere da realizzarsi per le Olimpiadi Torino 20006, che aveva provocato l’intervento dell’Autorità di vigilanza sui lavori pubblici di cui alla delibera n.251/2003 (dove era stato censurato l’operato della stazione appaltante per aver previsto l’impiego di componenti prodotti in esclusiva dalla Geobrugg) dal momento che nel caso censurato dall’Autorità di vigilanza non vi era alcun riferimento ad "equivalenze" dei requisiti richiesti, che invece sono state previste nella fattispecie qui in esame.
8.5.Neppure vale il richiamo fatto dalla ricorrente alla gara indetta dal Comune di Palermo, priva di rappresentate conseguenze penali riguardo all’imposto uso agli appaltatori proprio dei prodotti coperti da brevetto Geobrugg.
Invero, come è evidenziato dalla società aggiudicataria, non è qui dato ravvisare un’incidenza diretta sulla fattispecie oggetto del presente processo, anche rilevando che il reato lì contestato (concussione) è a carico di un funzionario comunale.
9.Per quanto sopra esposto, il ricorso principale è infondato, mentre il ricorso incidentale è improcedibile.
Sussistono giusti motivi per compensare le spese del presente grado di giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quinta, respinge l’appello principale e dichiara improcedibile l’appello incidentale.
Spese compensate.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio del 25 gennaio 2008 con l’intervento dei signori:
Giuseppe Severini Presidente
Caro Lucrezio Monticelli Consigliere
Marzio Branca Consigliere
Aniello Cerreto Consigliere estensore
Francesco Caringella Consigliere
L’ESTENSORE IL PRESIDENTE
F.to Aniello Cerreto F.to Giuseppe Severini
IL SEGRETARIO
F.to Gaetano Navarra
DEPOSITATA IN SEGRETERIA il 9/06/08.
(Art. 55, L. 27/4/1982, n. 186)
IL DIRIGENTE
F.to Antonio Natale

lunedì 9 giugno 2008

CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. I CIVILE - sentenza 16 maggio 2008 n. 12459 –

FATTO

Con sentenza non definitiva pronunciata in data 15.10-2.11.1998 n. 1733 la Corte d'Appello di Venezia - decidendo in ordine alla domanda proposta da F., B., Fe. e f.
f., quali eredi di F.L., e da Fr. e F.L., P.I. ed L.E., quali eredi di F.V., nei confronti del Prefetto di Verona, del Ministero della Poste e delle Telecomunicazioni e della Società Italposte-Edilizia di interesse pubblico per la determinazione delle indennità di espropriazione e di occupazione temporanea dell'immobile di loro proprietà sito nel Comune di (omissis) (censito al catasto terreni alla sezione (omissis), fl. (omissis), mappale (omissis) di are 0.04.94 ed incidente al catasto fabbricati part. (omissis), fl. (omissis), sezione (omissis), mappale (omissis)) per la realizzazione di alcuni edifici da destinarsi ad uffici postali a seguito dell'occupazione avvenuta in data 7.5.1985 e del decreto di esproprio del 28.2.1990 - dichiarava in primo luogo il difetto di legittimazione passiva del Prefetto, non costituitosi, e del Ministero delle PP.TT. che aveva conferito la concessione per l'esproprio alla società Italposte; dichiarava inoltre che le indennità dovessero essere determinate secondo i criteri di cui alla L. n. 359 del 1992, art. 5 bis, trattandosi di terreno edificabile ricavato dalla demolizione di un vecchio edificio, atteso che i vincoli esistenti al momento dell'esproprio erano preordinati solo alla costruzione dell'opera pubblica. Escludeva poi la decurtazione del 40% e rinviava alla sentenza definitiva la determinazione dei relativi importi.
Rimessi gli atti in istruttoria con separata ordinanza, disposto il supplemento della C.T.U. per computare gli importi sulla base dei criteri previsti dalla citata L. n. 359 del 1992, art. 5 bis ed intervenuta in causa la "Poste Italiane s.p.a." sostenendo di essere successore a titolo particolare della società Italposte, la Corte d'Appello con sentenza definitiva n. 1608 del 4.4-14.10.2002, dopo aver rigettato l'istanza di estromissione della società Italposte- Edilizia di interesse pubblico, determinava l'indennità di esproprio in Euro 271.258,53, disponendone il deposito presso la Cassa DD.PP. con gli interessi dalla domanda (29.3.1990) al deposito e condannando la Italposte-Edilizia di interesse pubblico e le Poste Italiane in solido alle spese del giudizio.
Rilevava che sulla base della sentenza non definitiva, alla cui osservanza era tenuta, non poteva essere messa in discussione la natura edificatoria del terreno e che conseguentemente. doveva trovare applicazione l'art. 5 bis, con riferimento, in mancanza, al reddito dominicale determinato dal C.T.U. e senza la decurtazione del 40%.
Avverso tale sentenza definitiva propongono ricorso per cassazione la "Poste Italiane s.p.a." che deducono tre motivi di censura.
Resistono con controricorso, illustrato anche con memoria, i proprietari del terreno espropriato.
All'udienza del 26.4.2007 veniva disposta la integrazione del contraddittorio nei confronti della Italposte-Edilizia di interesse pubblico s.p.a., la cui denominazione è nel frattempo mutata in Servizi Tecnici s.p.a. ed attualmente in Servizi Tecnici s.p.a. in liquidazione.

DIRITTO

Con il primo motivo di ricorso la s.p.a. Poste Italiane denuncia violazione e/o mancata applicazione della L. 28 gennaio 1977, n. 10, art. 4, lett. b), nonchè omessa e/o insufficiente motivazione.
Lamenta che la Corte d'Appello con la sentenza non definitiva abbia ritenuto edificabile il terreno espropriato, senza considerare che in base al P.R.G. del Comune è collocato nella zona 3 (Centro storico) in cui sono consentiti solo interventi di consolidamento e di restauro di edifici già esistenti come prevede la L. n. 10 del 1977, art. 4, lett. b). Sostiene al riguardo che, anche se detta sentenza non definitiva non può essere oggetto di diretta impugnazione in quanto rispetto ad essa non fu formalizzata la riserva d'appello ai sensi dell'art. 340 c.p.c., tuttavia, ripercuotendosi l'errore commesso dalla Corte d'Appello sulla legittimità dei criteri per la determinazione dell'indennità, non può non tenersi conto dell'impossibilità di procedere alla concreta valutazione del bene per mancanza di prescrizione in ordine alla volumetria realizzabile, mancanza dovuta alla semplice ragione che non è consentita alcuna costruzione. Al riguardo deduce la inapplicabilità del D.M. n. 1444 del 1968 che la Corte d'Appello ha invece richiamato, sia perchè successivamente è intervenuta la L. n. 10 del 1977 che ha regolamentato la materia, precludendo, come si è detto, la possibilità di edificazione nel centro storico e sia perchè detto D.M. è rivolto agli enti che devono pianificare e non già ai privati. Errato deve ritenersi pertanto il riferimento alla planimetria realizzabile. Deduce quindi che, pur in presenza della statuizione della Corte d'Appello sull'edificabilità del terreno contenuta nella sentenza non definitiva, non è possibile procedere al calcolo dell'indennità di esproprio.
La censura è fondata anche se per ragioni in parte diverse da quelle prospettate dalla ricorrente.
Contrariamente a quanto la stessa ricorrente ha dato atto, la mancata impugnazione, a seguito dell'omessa riserva di appello, avverso la sentenza non definitiva che aveva pronunciato sulla natura edificabile del terreno espropriato e sull'applicabilità della L. n. 359 del 1992, art. 5 bis, per la determinazione della relativa indennità, non preclude a questa Corte l'esame di tale punto, avendo la ricorrente impugnato comunque la liquidazione di detta indennità operata dalla Corte d'Appello con la sentenza definitiva.
Infatti, relativamente alla legge applicabile, vale a dire ai criteri da seguire nella determinazione dell'indennità, non può formarsi un giudicato autonomo rispetto alla sentenza definitiva che sulla determinazione in concreto di tale indennità statuisce in quanto detta determinazione è pur sempre inscindibile dal criterio cui far riferimento e cioè dalla "regula iuris" da applicare in relazione alla natura (edificabile o agricola) del terreno espropriato. In altri termini il giudicato può formarsi unicamente sul bene della vita controverso e quindi, in caso di decisione parziale, solo se si tratti di capi autonomi e non già quando, come nel caso in esame, la decisione riguardi un aspetto giuridico strumentale all'attribuzione di detto bene della vita.
Il principio, del resto, è stato affermato più volte da questa Corte anche in relazione all'art. 5 bis e può dirsi ormai da tempo consolidato (Sez. Un. 9872/94; Cass. 16061/00).
Conseguentemente, deve riaffermarsi che la mancata riserva d'appello sulla pronuncia non definitiva, riguardante la natura del terreno espropriato e la legge applicabile, non può costituire un limite all'applicabilità dello ius superveniens ed alla prioritaria questione della natura del terreno cui il criterio da seguire è intimamente connesso, non potendosi al riguardo formare un giudicato qualora l'indennità non sia stata ancora definitivamente accertata.
Rimane aperta pertanto la questione prioritaria della natura del terreno, vale a dire se esso sia da considerare edificabile od agricolo (cui va equiparato il non edificabile), offrendo la censura, anche se basata sulla mancanza di previsione sulla volumetria realizzabile, uno spazio sufficiente per una tale valutazione.
A tal fine va in primo luogo richiamato il principio, desunto dalla L. n. 359 del 1992, art. 5 bis e non investito dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 348 del 2007, secondo cui (mentre sono ininfluenti i vincoli finalizzati all'esproprio devesi invece tener conto dei vincoli cosiddetti "conformativi", quali espressione di un regime giuridico generale non correlato alla vicenda ablativa e ad un singolo bene ma riguardante l'intera zona.
Ora, è certamente corretta l'affermazione della Corte d'Appello che ha ritenuto preordinati all'esproprio i vincoli finalizzati alla costruzione dell'opera pubblica, ma non altrettanto può dirsi con riferimento al regime di carattere generale previsto per quell'area dallo strumento urbanistico, non essendo stato fatto al riguardo alcun accenno e non essendo sufficiente per rilevare l'edificabilità del terreno su cui è sorta l'opera pubblica l'affermazione che su di esso, ubicato nel centro storico, insisteva in precedenza un fabbricato successivamente demolito.
Al di là del vincolo costituito dalla destinazione data al singolo terreno per la costruzione dell'opera pubblica riguardante la vicenda ablatoria, è decisiva quindi la verifica sul contesto generale in cui tale vincolo ha operato, vale a dire l'accertamento sul regime giuridico del terreno vigente all'epoca dell'esproprio con esplicito riferimento alla zona di cui fa parte ed allo strumento urbanistico che ne delinea la conformazione.
In tali termini va quindi accolto il primo motivo, con la conseguente necessità da parte del giudice di rinvio di operare detta valutazione tenendo presente la destinazione impressa al terreno dai vincoli conformativi.
Va però precisato che, qualora il giudice di rinvio confermasse a seguito di tale più ampia disamina la natura edificabile del terreno, non potrebbe trovare applicazione nel caso in esame la sentenza della Corte Costituzionale n. 348 del 2007 che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo il criterio di liquidazione previsto dalla L. n. 359 del 1992, art. 5 bis, commi 1 e 2, per i suoli edificabili, essendo stata la sentenza impugnata solo dalle Poste Italiane s.p.a., vale a dire dalla parte cui non gioverebbe il nuovo quadro normativo che non tollera più un indennizzo dimidiato nella misura voluta dal citato art. 5 bis.
Tali conclusioni non si pongono in contrasto con il principio dell'applicabilità dello "ius superveniens" conseguente a detta pronuncia della Corte Costituzionale, sempre affermato da questa Corte quando sia ancora in discussione la determinazione dell'indennità di esproprio, dovendo esso essere coordinato con l'altro principio della necessità dall'impugnazione da parte del soggetto cui giovi il nuovo assetto normativo. E' evidente infatti che, in mancanza di una specifica censura dell'interessato, il giudice di rinvio non potrebbe liquidare un indennizzo superiore a quello determinato dalla precedente sentenza di merito, sia pure in base alla normativa sopravvenuta, stante l'impossibilità di derogare al principio della domanda di cui la necessità della proposizione dell'impugnazione costituisce una applicazione (vedi Sez. Un. 9872/94 già richiamata, nel contesto della motivazione; nonchè per l'ipotesi inversa di mancata impugnazione dell'ente espropriante e per la non applicabilità in tal caso dell'intervenuto comma 7 bis dell'art. 5 bis: Cass. 9484/99).
Ovviamente, qualora il giudice di rinvio pervenisse ad una diversa soluzione sulla natura del terreno espropriato, ritenendolo agricolo, il problema conseguente alla richiamata pronuncia della Corte costituzionale non si porrebbe, applicandosi per i suoli agricoli la L. n. 865 del 1971.
L'accoglimento del primo motivo comporta l'assorbimento degli altri due, riguardanti aspetti particolari (volumetria realizzabile, destinazione d'uso, data di riferimento per la valutazione) finalizzati alla valutazione operata dalla Corte d'Appello sul presupposto della natura edificabile del terreno.
La sentenza impugnata nonchè, per le ragioni sopra esposte, anche quella non definitiva vanno pertanto cassate con rinvio, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla stessa Corte d'Appello di Venezia che si uniformerà agli esposti principi.

P.Q.M.
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE


Accoglie il primo motivo di ricorso. Dichiara assorbiti gli altri.
Cassa entrambe le sentenze e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla stessa Corte d'Appello di Venezia in diversa composizione.
Così deciso in Roma, il 4 marzo 2008.
Depositato in Cancelleria il 16 maggio 2008.

Consiglio di Stato, sez. V - 27 maggio 2008 n. 2522

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Quinta Sezione
ha pronunciato la seguente
DECISIONE
Sul ricorso in appello n. 230/2006 del 12/01/2006, proposto dalla BRONI STRADELLA S.P.A. IN PR. E Q. MANDANTE A.T.I. A.T.I. - A.S.M. - PAVIA S.P.A. rappresentata e difesa dall’Avv. FRANCESCO ADAVASTRO con domicilio eletto in Roma, PIAZZA CAPO DI FERRO 13 presso la SEGRETERIA SEZIONALE CDS
contro
il COMUNE DI CHIGNOLO PO rappresentato e difeso dagli avvocati FABIO LORENZONI e MARTINO COLUCCI con domicilio eletto in Roma, VIA DEL VIMINALE N.43 presso l’avv. FABIO LORENZONI

per la riforma
della sentenza del TAR LOMBARDIA - MILANO :Sezione III n. 3684/2005, resa tra le parti, concernente AGGIUD. ASTA PUBBLICA APPALTO SERVIZI RACCOLTA E TRASPORTO RIFIUTI SOLIDI URBANI;
Visto l’atto di appello con i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio del COMUNE DI CHIGNOLO PO
Viste le memorie difensive;
Visti gli atti tutti della causa;
Alla pubblica udienza dell’8 Maggio 2007, relatore il Consigliere Adolfo Metro ed uditi, altresì, gli avvocati Francesco Adavastro e Fabio Lorenzoni,;
Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue:
FATTO
La Broni Stradella spa, dichiarata affidataria della gara per servizi di raccolta e trasporto dei rifiuti solidi urbani, è stata successivamente esclusa dall’aggiudicazione perché mancante del requisito di cui all’art. 10, lett. e) del bando di gara, relativo all’insussistenza di cause di esclusione di cui all’art. 12 del D.L. gs. 175/95, sul presupposto che il suo rappresentante legale aveva riportato due sentenze per reati incidenti sulla moralità professionale e che la dichiarazione presentata in sede di offerta, in ordine all’insussistenza delle predette cause di esclusione, fosse "non veritiera".
Avverso la sentenza di primo grado che ha respinto il gravame, si sostengono i seguenti motivi di appello:
-errata applicazione delle norme del bando, delle direttive n. 92/50 e n. 97/52, eccesso di potere, violazione di norme penali, del dpr n. 313/02 e della L. n. 241/90, non potendo ritenersi che il legale rappresentante della società abbia riportato due pronunce di condanna perché:
a) la sentenza di applicazione della pena su richiesta dell’imputato ai sensi degli artt. 444 e 445 c.p. (c.d. patteggiamento), attinente a fattispecie contravvenzionale, non violerebbe il requisito della moralità professionale e il reato sarebbe comunque estinto per decorso del tempo;
b) il decreto penale di condanna, per violazione di norme riguardanti rifiuti non pericolosi, non sarebbe ugualmente idoneo a condurre alla valutazione espressa nella fattispecie, in quanto lo stesso non contiene alcun accertamento del fatto e della colpevolezza dell’imputato sicchè, anche in tal caso, non sarebbe richiamabile il cit. art. 12 del D.Lgs. n. 157/95:
-l’amministrazione, inoltre, avrebbe dovuto opportunamente motivare sulle ragioni poste a fondamento della decisione.
Il Comune, costituitosi in giudizio, ha sostenuto l’inammissibilità dell’appello per la mancata proposizione del ricorso da parte della mandataria A.S.M. Pavia spa e la sua infondatezza, nel merito.
DIRITTO
Attesa l’infondatezza dei motivi d’appello, può prescindersi dall’esame della questione di inammissibilità proposta dal Comune.
La lex specialis della gara richiedeva la produzione, da parte del legale rappresentante della società concorrente, di una dichiarazione relativa all’assenza di cause di esclusione previste dall’art. 12 del D.Lgs. n. 157/95.
Sostiene l’appellante che le due condanne per reati di natura ambientale, non segnalate ai sensi di quanto prescritto dal bando, non sarebbero rilevanti nella fattispecie, non incidendo sulla moralità professionale.
Tali asserzioni non sono condivisibili. Si può richiamare, al riguardo la motivazione della sentenza di questo Consiglio n. 6756/07.
" Nei casi di applicazione della pena su richiesta, la successiva estinzione del reato, ai sensi del citato art. 445, comma 2, del codice di procedura penale, pur operando "ope legis", in presenza dei presupposti stabiliti da tale norma, richiede pur sempre che la esistenza di tali presupposti sia accertata con una pronuncia del giudice dell’esecuzione su istanza dell’interessato (Cass. pen. Sez. I, 7.7.2005, n. 32801; 5 febbraio 2004, n. 10028).
In difetto di tale pronuncia giudiziale, la sentenza ex art. 444 del codice di procedura penale pronunciata per un reato che incide sull’affidabilità morale e professionale di colui nei cui confronti è pronunciata, costituisce, dunque, una causa di esclusione dalla gara ai sensi dell’art. 75, comma 1, lettera c), del D.P.R. n. 552 del 1999.
La Società appellante, pertanto, affermando la inesistenza nei suoi confronti (delle persone preposte ai suoi organi rappresentativi e tecnici) di sentenze penali di condanna o di sentenze pronunciate ai sensi dell’art. 444 del codice di procedura penale, ha effettuato una falsa dichiarazione che le ha consentito di partecipare alla gara alla quale non avrebbe dovuto partecipare, a norma del combinato disposto costituito dal comma 1, lettera c e dal comma 2 dell’art. 75 del D.P.R. n. 554 del 1999 che, disponendo le cause di esclusione dalla gara dei concorrenti, i cui organi amministrativi o tecnici siano incorsi in condanne penali, pongono l’onere a carico delle imprese concorrenti di dichiarare la inesistenza delle stesse.
L’accertamento della falsità della dichiarazione, rendendo chiara l’esistenza della preclusione stabilita dal comma 1, lettera c, dell’art. 75, non poteva che comportare l’esclusione dalla gara ".
Analoghe considerazioni possono farsi con riferimento al decreto penale di condanna pronunciato per un reato di natura ambientale, in quanto anche tale fattispecie deve farsi rientrare nell’ipotesi di cui all’articolo 12 del D.Lgs. n. 157/95 perchè, come rilevato dal giudice di primo grado, dalla scelta di non opporsi al decreto penale di condanna non può trarsi l’inapplicabilità della citata norma ma, semmai, ciò può portare ad una specifica valutazione dei fatti contestati che, nella fattispecie, deve, peraltro, ritenersi irrilevante.
Sotto tale profilo, infatti, è priva di pregio la censura secondo cui l’amministrazione non avrebbe adeguatamente motivato sui motivi posti a fondamento della decisione.
Tale valutazione, infatti, che rappresentava una facoltà per l’amministrazione e non un obbligo, esercitabile solo per i casi in cui la pena "patteggiata" fosse stata già dichiarata estinta e l’amministrazione avesse comunque voluto vagliare l’affidabilità di un eventuale contraente, nel caso in esame non poteva essere effettuata, stante la falsa dichiarazione della Società appellante che ha negato l’esistenza di sentenze penali, fatto che, di per sé, per il suo contenuto di falsità, deve ritenersi preclusivo dell’affidamento della gara.
In relazione a quanto esposto l’appello va respinto, essendo infondati i dedotti motivi di gravame.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quinta, respinge l’appello n. 230/2006 meglio specificato in epigrafe; pone le spese del giudizio per complessivi € 3000,00 (tremila/00) a carico della parte soccombente.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella Camera di Consiglio dell’8 Maggio 2007 con l’intervento dei Sigg.ri:
Pres. Emidio Frascione
Cons. Raffaele Carboni
Cons. Aldo Fera
Cons. Caro Lucrezio Monticelli
Cons. Adolfo Metro Est.
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
f.to Adolfo Metro f.to Emidio Frascione
DEPOSITATA IN SEGRETERIA Il 27/05/08.

martedì 3 giugno 2008

TAR CAMPANIA - NAPOLI, SEZ. II - sentenza 21 maggio 2008 n. 4855

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE
PER LA CAMPANIA
SEDE DI NAPOLI SECONDA SEZIONE

composto dai Magistrati:
- dr. Carlo d’Alessandro Presidente
- dr. Pierluigi Russo Consigliere, estensore
- dr. Vincenzo Blanda Referendario
ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso n.2022/2008 R.G. proposto dall’avv. Giuseppe Di Meglio, procuratore di sé medesimo, domiciliato in Napoli, presso la Segreteria del T.A.R. ;

CONTRO

il Comune di Barano d’Ischia, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall’avv. Lorenzo Bruno Molinaro, con il quale è domiciliato in Napoli, presso la Segreteria del T.A.R. ;

E NEI CONFRONTI

dell’avv. Ciriaco Rossetti, non costituito ;

PER L’ANNULLAMENTO

previa sospensione della deliberazione della Giunta Municipale di Barano d’Ischia n.3 del 15 gennaio 2008, con la quale è stato conferito l’incarico di patrocinio e consulenza legale dell’ente, in sede amministrativa e civile, all’avv. C. Rossetti ;

Visto il ricorso coi relativi allegati ;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune intimato ;
Visti gli atti tutti della causa ;
Uditi i difensori delle parti presenti, come da verbale, alla camera di consiglio del 24 aprile 2008 di trattazione della domanda cautelare, relatore il cons. P. Russo ;
Visti gli artt. 21, comma 9, e 26, comma 4, della legge n.1034/1971, nella formulazione introdotta, rispettivamente, dagli artt. 3, comma 1, e 9, comma 1, della legge n.205/2000 ;
Ritenuto di poter definire il giudizio con decisione in forma semplificata e sentite sul punto le parti costituite, come da verbale ;
Premesso che la controversia ha ad oggetto l’attribuzione dell’incarico di patrocinio e consulenza legale del Comune di Barano d’Ischia, in sede amministrativa e civile, di durata annuale, a professionista esterno, con compenso mensile di € 3.227,39, oltre accessori ;
Ritenuto che il ricorso merita accoglimento, rilevandosi manifestamente fondate, oltre che assorbenti, la seconda e terza censura, con cui è dedotta la violazione del principio costituzionale di buon andamento e trasparenza della pubblica amministrazione (art.97 Cost.) e dei principi di derivazione comunitaria di non discriminazione, parità di trattamento, pubblicità e proporzionalità, atteso che l’ente ha conferito in via diretta l’incarico senza indire una procedura selettiva e senza valutare in alcun modo l’istanza, con allegato curriculum, presentata dal ricorrente (in data 9 gennaio 2008);
Rilevato che i suddetti principi risultano recepiti dall’art.7 del D.Lgs. 30 marzo 2001 n.165, nel testo novellato dall’art.32 del D.L. 4 luglio 2006 n.223, convertito con L. 4 agosto 2006 n.248, che dopo aver fissato, al comma 6, i presupposti per l’affidamento di incarichi individuali, con contratti di lavo autonomo, di natura occasionale o coordinata e continuativa, al comma 6-bis (inserito dal suddetto cd. decreto Bersani) stabilisce: "Le amministrazioni pubbliche disciplinano e rendono pubbliche, secondo i propri ordinamenti, procedure comparative per il conferimento degli incarichi di collaborazione";
Rilevato che tra le amministrazioni pubbliche tenute all’applicazione del citato art.7, commi 6 e ss., del D.Lgs. n.165/2001, come successivamente modificato, rientrano anche i comuni, ai sensi dell’art.1, comma 2, dello stesso decreto legislativo ;
Ritenuto che i summenzionati principi di derivazione comunitaria e l’esigenza di rendere più concorrenziali gli assetti di mercato, oltre che di contenere i livelli di spesa pubblica, che hanno ispirato la nuova normativa (cfr. Preambolo e art.1 del D.L. n.223 del 2006), impongono la predisposizione di un bando o avviso pubblico, la previa individuazione di criteri obiettivi per la valutazione delle istanze, lo svolgimento di una procedura di valutazione comparativa dei curricula presentati nonché l’obbligo di motivare congruamente la scelta, onde consentire il controllo sull’imparzialità della procedura ;
Ritenuto di condividere al riguardo gli indirizzi contenuti nella circolare del Ministero della funzione pubblica dell’11 marzo 2008 n.2, circa l’obbligo della messa in concorrenza degli incarichi mediante lo svolgimento di una procedura comparativa (cfr., in particolare, schema di regolamento allegato, al quale si devono adeguare anche gli enti locali) ;
Ritenuto che l’esperimento di una procedura di tipo competitivo e comparativo per l’individuazione del professionista non è esclusa dalla circostanza che l’importo del compenso è inferiore a 100.000 euro, analogamente a quanto disposto espressamente in tema di incarichi di progettazione e direzione lavori (art.91, comma 2, D.Lgs. 12 aprile 2006, n.163, come modificato dal D. lgs. 31 luglio 2007 n.113, in base al quale l’affidamento deve avvenire "[...] nel rispetto dei principi di non discriminazione, parità di trattamento, proporzionalità e trasparenza") ;
Rilevato che, nel caso di specie, il Comune di Barano d’Ischia, oltre a non aver previamente predisposto un avviso pubblico né fissato i criteri di giudizio, non ha neanche effettuato alcuna valutazione comparativa, ancorché il ricorrente abbia spontaneamente presentato il proprio curriculum (impegnandosi, peraltro, a svolgere l’incarico per l’inferiore importo mensile di € 2.600,00) ;
Ritenuto, in conclusione, di dover accogliere il ricorso e, per l’effetto, annullare il provvedimento impugnato, condannando il Comune soccombente a rimborsare al ricorrente le spese della presente causa, nella misura liquidata in dispositivo ;

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania - Sezione Seconda – accoglie il ricorso in epigrafe R.G. n.2022/2008 e, per l’effetto, annulla il provvedimento impugnato.
Condanna il Comune di Barano d’Ischia a rimborsare al ricorrente le spese del presente giudizio, comprensive del contributo unificato, liquidate complessivamente in 2.000,00 (duemila/00) euro.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità Amministrativa.
Così deciso in Napoli, nella camera di consiglio del 24 aprile 2008.

L’ESTENSORE IL PRESIDENTE dr. Pierluigi Russo dr. Carlo d’Alessandro
Depositata in segreteria il 21 maggio 2008.