giovedì 31 luglio 2008

Corte costituzionale, 14 marzo 2008, n. 62

Corte costituzionale, 14 marzo 2008, n. 62

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Franco BILE Presidente
- Giovanni Maria FLICK Giudice
- Francesco AMIRANTE "
- Ugo DE SIERVO "
- Paolo MADDALENA "
- Alfio FINOCCHIARO "
- Alfonso QUARANTA "
- Franco GALLO "
- Luigi MAZZELLA "
- Gaetano SILVESTRI "
- Maria Rita SAULLE "
- Giuseppe TESAURO "
- Paolo Maria NAPOLITANO "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli articoli 3, comma 1, lettera w), numero 1), 5, comma 1, lettera b), 7, comma 1, lettera b) , 19, comma 3, lettera b), 20 e 24, commi 1 e 2, della legge della Provincia autonoma di Bolzano 26 maggio 2006, n. 4 (La gestione dei rifiuti e la tutela del suolo), promosso con ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri notificato il 9-18 agosto 2006, depositato in cancelleria il 10 agosto 2006 ed iscritto al n. 94 del registro ricorsi 2006.
Visto l'atto di costituzione della Provincia autonoma di Bolzano;
udito nell'udienza pubblica del 15 gennaio 2008 il Giudice relatore Giuseppe Tesauro;
uditi l'avvocato dello Stato Glauco Nori per il Presidente del Consiglio dei ministri e l'avvocato Giuseppe Franco Ferrari per la Provincia autonoma di Bolzano.
Fatto
1. - Con ricorso notificato il 9-18 agosto 2006, depositato in cancelleria il 10 agosto, il Presidente del Consiglio dei ministri ha promosso questioni di legittimità costituzionale degli artt. 19, comma 3, lettera b), 20 e 24, commi 1 e 2, della legge della Provincia autonoma di Bolzano 26 maggio 2006, n. 4 (La gestione dei rifiuti e la tutela del suolo), in riferimento all'art. 9, numero 10, del d.P.R. 31 agosto 1972, n. 670 (Approvazione del testo unico delle leggi costituzionali concernenti lo statuto speciale per il Trentino-Alto Adige), nonché questioni di legittimità costituzionale degli artt. 3, comma 1, lettera w), numero 1), 5, comma 1, lettera b), e 7, comma 1, lettera b), della medesima legge, in riferimento all'art. 117, primo comma, della Costituzione.
1.1. - Il ricorrente premette in via generale che la disciplina dei rifiuti è riconducibile ad un àmbito, la "tutela dell'ambiente e dell'ecosistema" di cui all'art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, che, secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale, non è configurabile come materia oggetto di competenza statale circoscritta e delimitata, delineando piuttosto una materia "trasversale", in ordine alla quale si manifestano competenze diverse, anche regionali (sentenza n. 407 del 2002).
Passando poi ad individuare la base giuridica delle norme impugnate, il ricorrente precisa che essa «dovrebbe essere la tutela della salute», riservata dall'art. 9, numero 10, dello statuto di autonomia alla potestà legislativa concorrente della Provincia, «nei limiti indicati dall'art. 5», vale a dire «nei limiti del precedente articolo» - perciò «in armonia con la Costituzione e i principi dell'ordinamento giuridico della Repubblica e con il rispetto degli obblighi internazionali e degli interessi nazionali» - «e dei principi stabiliti dalle leggi dello Stato».
Sull'assunto, dunque, che l'intervento legislativo della Provincia abbia come «base statutaria» il citato art. 9, numero 10, il quale impone l'armonia con i principi dell'ordinamento giuridico della Repubblica, il Presidente del Consiglio dei ministri deduce che gli artt. 19, comma 3, lettera b), 20 e 24, commi 1 e 2, della legge provinciale n. 4 del 2006 violerebbero i principi enunciati, rispettivamente, dagli artt. 193, comma 4, 212 e 208 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale), eccedendo i limiti della competenza concorrente attribuita alla Provincia in materia di "igiene e sanità".
In particolare, l'art. 19, comma 3, lettera b), della legge provinciale, prevedendo, senza distinguere tra rifiuti pericolosi e rifiuti non pericolosi, che le disposizioni di cui al comma 1 - secondo cui durante il trasporto effettuato da enti o imprese i rifiuti sono accompagnati da un formulario di identificazione - non si applicano «ai trasporti di rifiuti speciali che non eccedano la quantità di 30 chilogrammi o di 30 litri al giorno, effettuati dal produttore dei rifiuti speciali stessi», si porrebbe in contrasto con il principio desumibile dall'art. 193, comma 4, del d. lgs. n. 152 del 2006, che esenta dall'obbligo relativo al formulario di identificazione unicamente i «trasporti di rifiuti non pericolosi effettuati dal produttore dei rifiuti stessi, in modo occasionale e saltuario, che non eccedano la quantità di trenta chilogrammi o di trenta litri».
Inoltre, l'impugnato art. 20, comma 2, con riguardo all'obbligo e alle modalità di iscrizione all'Albo nazionale gestori ambientali di cui al comma 1, autorizza la Giunta provinciale ad «emanare ai sensi dell'articolo 32 norme in deroga, onde consentire l'iscrizione con procedure semplificate per determinate attività ossia l'esenzione dall'obbligo di iscrizione», così violando il principio dettato dall'art. 212 del d. lgs. n. 152 del 2006, secondo cui l'iscrizione all'Albo, salvo i casi di esonero elencati nella stessa norma, è requisito per lo svolgimento delle attività di raccolta e trasporto di rifiuti non pericolosi prodotti da terzi, di raccolta e trasporto di rifiuti pericolosi, di bonifica dei siti, di bonifica dei beni contenenti amianto, di commercio ed intermediazione dei rifiuti senza detenzione dei rifiuti stessi, nonché di gestione di impianti di smaltimento e di recupero di titolarità di terzi e di gestione di impianti mobili di smaltimento e di recupero di rifiuti.
Infine, l'art. 24 della legge provinciale - stabilendo, al comma 1, che «Almeno 15 giorni prima della messa in esercizio dell'impianto, l'interessato presenta all'Agenzia provinciale la domanda di collaudo ed autorizzazione dell'impianto. Con la presentazione della richiesta di autorizzazione l'impianto si intende provvisoriamente autorizzato a partire dalla data dell'attivazione indicata nella richiesta stessa» e, al comma 2, che «Entro 90 giorni dalla messa in esercizio dell'impianto l'Agenzia provinciale accerta la regolarità dell'impianto e rilascia l'autorizzazione [...]» - consentirebbe la messa in esercizio di un impianto di smaltimento o recupero di rifiuti prima della valutazione in ordine alla sua regolarità, al di fuori della previsione di cui all'art. 208 del d. lgs. n. 152 del 2006, che disciplina l'autorizzazione unica per i nuovi impianti di smaltimento e di recupero dei rifiuti senza configurare alcuna forma di autorizzazione tacita provvisoria.
1.2. - Il ricorrente deduce altresì la violazione dell'art. 117, primo comma, della Costituzione ad opera degli artt. 3, comma 1, lettera w), numero 1, e 5, comma 1, lettera b), della legge provinciale n. 4 del 2006.
La prima delle due norme denunciate qualifica come materia prima secondaria per attività siderurgiche e metallurgiche i rottami ferrosi e non ferrosi derivanti da operazioni di recupero e rispondenti a determinate specifiche nazionali ed internazionali, mentre il citato art. 5, comma 1, lettera b), stabilisce che ai materiali, alle sostanze e agli oggetti che, senza necessità di operazioni di trasformazione, già presentano le caratteristiche delle materie prime secondarie non si applica la normativa sui rifiuti, a condizione che il detentore non se ne disfi, non abbia l'intenzione o non abbia l'obbligo di disfarsene.
Tale disciplina contrasterebbe con la normativa comunitaria in tema di rifiuti, come dimostrato dalla circostanza che la Commissione europea, con lettera n. 2005/4051 del 5 luglio 2005, aveva contestato all'Italia - in relazione all'art. 1, commi 25, 26, 27 e 29, della legge statale 15 dicembre 2004, n. 308 (Delega al Governo per il riordino, il coordinamento e l'integrazione della legislazione in materia ambientale e misure di diretta applicazione), che pure classificava i rottami ferrosi e non ferrosi tra le materie prime secondarie - la violazione della direttiva 75/442/CE del 15 luglio 1975 (Direttiva del Consiglio relativa ai rifiuti), poiché quest'ultima non prevedeva alcuna esclusione dal suo àmbito di applicazione per i rottami derivanti come scarti di lavorazione oppure originati da cicli produttivi o di consumo e riutilizzabili nell'industria siderurgica o metallurgica.
Analogamente, l'art. 1, primo comma, lettera a), della vigente direttiva 2006/12/CE del 5 aprile 2006 (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa ai rifiuti) definisce «rifiuto» qualsiasi sostanza od oggetto che rientri nelle categorie riportate nell'allegato I e di cui il detentore si disfi o abbia l'intenzione o l'obbligo di disfarsi.
1.3. - L'art. 7, comma 1, lettera b), della legge provinciale n. 4 del 2006, escludendo dall'applicazione della medesima legge le terre e le rocce da scavo ed i residui della lavorazione della pietra non contaminati, destinati all'effettivo utilizzo per reinterri, riempimenti, rilevati e macinati, violerebbe l'art. 117, primo comma, della Costituzione, in quanto si porrebbe in contrasto con la definizione di rifiuto data dalla direttiva 2006/12/CE, nel cui allegato I, al punto Q11, sono indicati tra le categorie di rifiuti i «residui provenienti dall'estrazione e dalla preparazione delle materie prime (ad esempio residui provenienti da attività minerarie o petrolifere, ecc.)».
A sostegno delle censure, il ricorrente richiama alcune sentenze della Corte di giustizia delle Comunità europee, secondo cui, in base ai principi di precauzione e dell'azione preventiva, la nozione di rifiuto non può essere interpretata in senso restrittivo e, dunque, la natura di residuo di produzione di una sostanza può essere esclusa solo allorquando il suo riutilizzo non sia solo eventuale, ma certo, senza trasformazione preliminare e nel corso del processo di produzione (Corte di giustizia, sentenza 15 giugno 2000, cause riunite C-418/97 e C-419/97, ARCO Chemie Nederland Ltd.; sentenza 18 aprile 2002, causa C-9/00, Palin Granit Oy; sentenza 11 novembre 2004, causa C-457/02, Niselli).
1.4. - Nella memoria successivamente depositata, il Presidente del Consiglio dei ministri ha ripetuto le argomentazioni svolte nel ricorso e dedotto un ulteriore profilo d'incostituzionalità dell'art. 19, comma 3, lettera b), della legge provinciale, il quale avrebbe «esteso l'esclusione ai trasporti che non eccedano la quantità di 30 chilogrammi o di 30 litri al giorno, effettuati dal produttore dei rifiuti speciali stessi, trasporti che non possono certamente essere definiti occasionali e saltuari come è richiesto dalla legge statale»; infine, ha ribadito che gli artt. 3, comma 1, lettera w), numero 1, e 5, comma 1, lettera b), della legge provinciale n. 4 del 2006 sono «da esaminare in coordinamento tra di loro».
2. - Nel giudizio si è costituita la Provincia autonoma di Bolzano, chiedendo, anche nella memoria depositata in prossimità dell'udienza, che la Corte dichiari il ricorso inammissibile o, comunque, infondato.
In via preliminare, riguardo alle censure relative all'inosservanza degli obblighi comunitari, la resistente eccepisce la carenza d'interesse del ricorrente, sul rilievo che la legge impugnata «non ha fatto altro che ricalcare in larga parte quella nazionale». Inoltre, l'atto introduttivo - omettendo di prendere in considerazione altresì gli artt. 11 e 117, quinto comma, della Costituzione, nonché l'art. 9 dello statuto di autonomia, «che riconosce espressamente i limiti posti dagli artt. 4 e 5» alla competenza legislativa provinciale - non avrebbe correttamente individuato i parametri del giudizio di costituzionalità. In ogni caso, le doglianze non sarebbero sorrette da una sufficiente motivazione.
Anche le questioni promosse in riferimento all'art. 9, numero 10, dello statuto speciale sarebbero inammissibili, poiché il ricorrente non avrebbe spiegato «per quale ragione debba essere preso in considerazione quale parametro statutario violato il predetto art. 9, n. 10, d.P.R. n. 670/1972, piuttosto che l'art. 8, n. 6».
Nel merito, la legge n. 4 del 2006 sarebbe stata emanata dalla Provincia nell'esercizio della potestà esclusiva in materia di "tutela del paesaggio" (art. 8, numero 6, dello statuto di autonomia), «con risvolti rispetto a numerose altre materie nelle quali alla Provincia autonoma è attribuita parimenti la competenza primaria», quale l'urbanistica; non opererebbe, di conseguenza, il limite dei principi stabiliti dalle leggi dello Stato di cui all'art. 5 dello statuto speciale della Regione Trentino-Alto Adige/Südtirol.
Pertanto, in virtù di detta competenza, ad essa spetterebbe «il potere di disciplinare autonomamente le procedure di iscrizione all'albo dei trasportatori o anche disciplinare le esenzioni dall'iscrizione».
Inoltre, il testo dell'art. 19, comma 3, lettera b), sarebbe «pressoché identico» a quello dell'art. 193, comma 4, del d. lgs. n. 152 del 2006 e, introducendo una deroga agli obblighi relativi al formulario d'identificazione ragionevole e giustificabile, «non intacca i nuclei essenziali del contenuto normativo della legge statale». D'altra parte, tale deroga non riguarderebbe, in base alla giurisprudenza della Corte costituzionale, norme di riforma economico-sociale (sentenza n. 312 del 2003).
L'art. 24 della legge provinciale avrebbe istituito un sistema più rigoroso di quello delineato dall'art. 208 del d. lgs. n. 152 del 2006, prevedendo non solo l'approvazione del progetto, ma anche una verifica obbligatoria, non eventuale, sull'effettivo funzionamento dell'impianto provvisoriamente autorizzato.
Infine, l'art. 7, comma 1, lettera b), della legge provinciale, secondo la resistente, è compatibile con i principi affermati nella materia dal giudice comunitario (Corte di giustizia, sentenza 18 aprile 2002, causa C-9/00, Palin Granit Oy; sentenza 11 novembre 2004, causa C-457/02, Niselli), in quanto, per un verso, ammettendo alle esclusioni solo i terreni non contaminati, impone che la determinazione della contaminazione avvenga in maniera preventiva, non già a destinazione; per altro verso, stabilisce modalità che garantiscono un riutilizzo effettivo, dunque certo e non solo eventuale, dei residui.
Neppure le previsioni relative alle materie prime secondarie per attività siderurgiche e metallurgiche si porrebbero in contrasto con la evocata direttiva comunitaria sui rifiuti, posto che «a partire dalla trasformazione dei rottami ferrosi in prodotti siderurgici, essi non possono più essere distinti da altri prodotti siderurgici scaturiti da materie prime primarie, salvo naturalmente il caso in cui vengano abbandonati» (Corte di giustizia, sentenza 11 novembre 2004, causa C-457/02, Niselli).
Diritto
1. - Il Presidente del Consiglio dei ministri ha promosso questioni di legittimità costituzionale degli artt. 19, comma 3, lettera b), 20 e 24, commi 1 e 2, della legge della Provincia autonoma di Bolzano 26 maggio 2006, n. 4 (La gestione dei rifiuti e la tutela del suolo), in riferimento all'art. 9, numero 10, del d.P.R. 31 agosto 1972, n. 670 (Approvazione del testo unico delle leggi costituzionali concernenti lo statuto speciale per il Trentino-Alto Adige), nonché questioni di legittimità costituzionale degli artt. 3, comma 1, lettera w), numero 1, 5, comma 1, lettera b), e 7, comma 1, lettera b), della medesima legge, in riferimento all'art. 117, primo comma, della Costituzione.
2. - Il primo gruppo di questioni riguarda gli artt. 19, comma 3, lettera b), 20 e 24, commi 1 e 2, della legge n. 4 del 2006, i quali, secondo la prospettazione del ricorrente, eccederebbero i limiti della competenza concorrente in materia di "igiene e sanità", attribuita alla Provincia dall'art. 9, numero 10, dello statuto di autonomia, ponendosi in contrasto con i «principi dell'ordinamento giuridico della Repubblica» fissati, rispettivamente, negli artt. 193, comma 4, 212 e 208 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale).
2.1. - In particolare, l'art. 19, comma 3, lettera b), della legge provinciale è impugnato in quanto, stabilendo, «senza distinguere tra rifiuti pericolosi e rifiuti non pericolosi», che le disposizioni di cui al comma 1 - secondo cui durante il trasporto effettuato da enti o imprese i rifiuti sono accompagnati da un formulario di identificazione - «non si applicano ai trasporti di rifiuti speciali che non eccedano la quantità di 30 chilogrammi o di 30 litri al giorno, effettuati dal produttore dei rifiuti speciali stessi», avrebbe esteso illegittimamente ai rifiuti pericolosi l'esenzione dal generale obbligo relativo al formulario di identificazione introdotta dall'art. 193, comma 4, del d. lgs. n. 152 del 2006.
Le ulteriori censure formulate nella memoria depositata in prossimità dell'udienza pubblica in relazione al citato art. 19, comma 3, lettera b), non possono essere prese in considerazione, in quanto siffatta memoria è destinata esclusivamente ad illustrare e chiarire le ragioni svolte nell'atto introduttivo, non essendo possibile con essa dedurne di nuove (sentenza n. 430 del 2007).
2.2. - L'art. 20 della legge provinciale - da intendersi impugnato nel solo comma 2, il comma 1 limitandosi a ribadire che «Per lo svolgimento della attività di raccolta e trasporto di rifiuti, [...] è prevista l'iscrizione all'Albo nazionale gestori ambientali, di seguito denominato albo nazionale, ai sensi dell'articolo 212 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152» - prevede, con riguardo all'obbligo e alle modalità di iscrizione all'Albo nazionale gestori ambientali, che la Giunta provinciale può «emanare ai sensi dell'articolo 32 norme in deroga, onde consentire l'iscrizione con procedure semplificate per determinate attività ossia l'esenzione dall'obbligo di iscrizione». Per questo, il predetto art. 20 della legge provinciale violerebbe l'art. 212 del d. lgs. n. 152 del 2006, in base al quale l'iscrizione all'Albo, salvo i casi di esonero elencati nella stessa norma, è requisito per lo svolgimento delle attività di raccolta e trasporto di rifiuti non pericolosi prodotti da terzi, di raccolta e trasporto di rifiuti pericolosi, di bonifica dei siti, di bonifica dei beni contenenti amianto, di commercio ed intermediazione dei rifiuti senza detenzione dei rifiuti stessi, nonché di gestione di impianti di smaltimento e di recupero di titolarità di terzi e di gestione di impianti mobili di smaltimento e di recupero di rifiuti.
2.3. - Infine, l'art. 24 della legge provinciale - stabilendo, al comma 1, che «Almeno 15 giorni prima della messa in esercizio dell'impianto, l'interessato presenta all'Agenzia provinciale la domanda di collaudo ed autorizzazione dell'impianto. Con la presentazione della richiesta di autorizzazione l'impianto si intende provvisoriamente autorizzato a partire dalla data dell'attivazione indicata nella richiesta stessa» e, al comma 2, che «Entro 90 giorni dalla messa in esercizio dell'impianto l'Agenzia provinciale accerta la regolarità dell'impianto e rilascia l'autorizzazione [...]» -violerebbe l'art. 208 del d. lgs. n. 152 del 2006, il quale disciplina l'autorizzazione unica per i nuovi impianti di smaltimento e di recupero rifiuti senza configurare alcuna forma di autorizzazione tacita provvisoria.
3. - Con un secondo gruppo di questioni viene prospettata la violazione dell'art. 117, primo comma, della Costituzione, ad opera degli artt. 3, comma 1, lettera w), numero 1, e 5, comma 1, lettera b), nonché dell'art. 7, comma 1, lettera b), della legge provinciale n. 4 del 2006.
L'art. 3, comma 1, lettera w), numero 1, qualifica come materia prima secondaria per attività siderurgiche e metallurgiche i rottami ferrosi e non ferrosi derivanti da operazioni di recupero e rispondenti a determinate specifiche nazionali ed internazionali; l'art. 5, comma 1, lettera b), stabilisce che ai materiali, alle sostanze e agli oggetti che, senza necessità di operazioni di trasformazione, già presentano le caratteristiche delle materie prime secondarie non si applica la normativa sui rifiuti, a condizione che il detentore non se ne disfi, non abbia l'intenzione o non abbia l'obbligo di disfarsene.
La disciplina posta dalle due norme contrasterebbe con la normativa comunitaria in tema di rifiuti e, in particolare, con la direttiva 2006/12/CE del 5 aprile 2006 (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa ai rifiuti), la quale non prevede alcuna esclusione dal suo àmbito di applicazione per i rottami derivanti come scarti di lavorazione oppure originati da cicli produttivi o di consumo e riutilizzabili nell'industria siderurgica o metallurgica.
Anche l'art. 7, comma 1, lettera b), della legge provinciale n. 4 del 2006, escludendo dall'applicazione della legge medesima le terre e le rocce da scavo ed i residui della lavorazione della pietra non contaminati, destinati all'effettivo utilizzo per reinterri, riempimenti, rilevati e macinati, sarebbe in contrasto con la direttiva 2006/12/CE e con la nozione di rifiuto in essa contenuta.
4. - Successivamente alla proposizione del ricorso, tre delle norme censurate - artt. 7, comma 1, lettera b), 19, comma 3, lettera b), 20, comma 2, della legge provinciale n. 4 del 2006 - sono state modificate, rispettivamente, dai commi 1, 2 e 3 dall'art. 9 della legge provinciale 18 ottobre 2006, n. 11 (Modifiche di leggi provinciali in vari settori). In forza del principio di effettività della tutela delle parti nei giudizi in via di azione, si impone il trasferimento delle questioni alle nuove norme, che lasciano sostanzialmente immutato il contenuto precettivo di quelle oggetto di censura (sentenze n. 162 del 2007, n. 449 del 2006).
5. - La questione di legittimità costituzionale degli artt. 3, comma 1, lettera w), numero 1, e 5, comma 1, lettera b), della legge provinciale n. 4 del 2006 è inammissibile.
Il ricorrente, infatti, non ha sufficientemente motivato la censura, omettendo, in particolare, di specificare le ragioni per le quali le due norme - la prima riguardante i «rottami ferrosi e non ferrosi derivanti da operazioni di recupero [...]», la seconda concernente «i materiali, le sostanze e gli oggetti che, senza necessità di operazioni di trasformazione, già presentino le caratteristiche delle materie prime secondarie» - siano «da esaminare in coordinamento tra loro».
6. - Le eccezioni d'inammissibilità sollevate con riferimento alle ulteriori questioni non sono fondate, in quanto nel ricorso i parametri del giudizio sono identificati in modo sufficientemente chiaro e le censure, seppur succintamente, sono argomentate in riferimento a ciascuno di essi.
Inoltre, sussiste l'interesse del ricorrente all'impugnazione dell'art. 7, comma 1, lettera b), della citata legge provinciale, concernente l'esenzione dal regime dei rifiuti di terre e rocce da scavo, nonché di residui della lavorazione della pietra non contaminati, poiché, indipendentemente dalla sostituzione del testo dell'art. 186 del d. lgs. 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale) ad opera dell'art. 2, comma 23, del decreto legislativo 16 gennaio 2008, n. 4 (Ulteriori disposizioni correttive ed integrative del d. lgs. 3 aprile 2006, n. 152, recante norme in materia ambientale), il parametro addotto inerisce non già alla violazione della competenza statale, ma all'inosservanza dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario, i quali si impongono anche alle Province autonome.
7. - Le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 19, comma 3, lettera b), 20, comma 2, e 24, commi 1 e 2, della legge provinciale n. 4 del 2006 sono fondate entro i termini di seguito precisati.
L'imputazione delle norme impugnate alla competenza legislativa concorrente della Provincia in materia di "igiene e sanità" di cui all'art. 9, numero 10, dello statuto speciale, da esercitarsi nei limiti complessivamente indicati dagli artt. 4 e 5 dello stesso statuto, è corretta.
La legge provinciale, ai sensi dell'art. 1, per quanto qui rileva, «disciplina la gestione dei rifiuti, degli imballaggi e dei rifiuti di imballaggio, nelle varie fasi di raccolta, trasporto, recupero e smaltimento, compreso il controllo di queste operazioni».
Come dedotto dal ricorrente, la disciplina dei rifiuti si colloca, per consolidata giurisprudenza di questa Corte, nell'àmbito della "tutela dell'ambiente e dell'ecosistema", di competenza esclusiva statale ai sensi dell'art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione. Lo statuto speciale conferma questa competenza esclusiva dello Stato, ma riserva alla competenza della Provincia alcuni segmenti della tutela ambientale.
La competenza statale nella materia ambientale, infatti, si intreccia con altri interessi e competenze, di modo che deve intendersi riservato allo Stato il potere di fissare standard di tutela uniforme sull'intero territorio nazionale, restando ferma la competenza delle Regioni alla cura di interessi funzionalmente collegati con quelli propriamente ambientali (ex multis, sentenza n. 407 del 2002).
Pertanto, anche nel settore dei rifiuti, accanto ad interessi inerenti in via primaria alla tutela dell'ambiente, possono venire in rilievo interessi sottostanti ad altre materie, per cui la «competenza statale non esclude la concomitante possibilità per le Regioni di intervenire [...], così nell'esercizio delle loro competenze in tema di tutela della salute», ovviamente nel rispetto dei livelli uniformi di tutela apprestati dallo Stato (sentenza n. 62 del 2005; altresì, sentenze n. 380 del 2007, n. 12 del 2007, n. 247 del 2006).
La legge provinciale n. 4 del 2006 esplicita le sue «finalità» nell'art. 2, inserito nel titolo relativo alla gestione dei rifiuti, comprendendovi anche l'esigenza della protezione della salute dell'uomo («i rifiuti devono essere recuperati e smaltiti senza pericolo per la salute dell'uomo»). Essa, come la precedente legge della Provincia di Bolzano 6 settembre 1973, n. 61 (Norme per la tutela del suolo da inquinamenti e per la disciplina della raccolta, trasporto, e smaltimento dei rifiuti solidi e semisolidi) - «specificamente rivolta alla disciplina della raccolta, trasporto e smaltimento dei rifiuti», abrogata dall'art. 46 della legge n. 4 del 2006, e adottata, secondo questa Corte, nell'esercizio «di potestà legislativa esclusiva in materia di tutela del paesaggio e di urbanistica, nonché di potestà legislativa concorrente in materia di igiene e sanità» (sentenza n. 312 del 2003) - ha ad oggetto la cura di una molteplicità di interessi pubblici, in alcuni casi afferenti alla conservazione ed alla fruizione del territorio (si pensi alla localizzazione degli impianti di smaltimento e recupero dei rifiuti).
La competenza legislativa esclusiva in materia di "tutela del paesaggio" e "urbanistica" e la competenza legislativa concorrente in materia di "igiene e sanità" possono costituire un valido fondamento dell'intervento provinciale, ma tali competenze devono essere esercitate nel rispetto dei limiti generali di cui all'art. 4 dello statuto speciale, richiamati dall'art. 5 ed evocati dal ricorrente, limiti che nella specie non risultano osservati.
Anche di recente si è ribadito che «la disciplina ambientale, che scaturisce dall'esercizio di una competenza esclusiva dello Stato», quella in materia di "tutela dell'ambiente e dell'ecosistema", cui, come precisato, pacificamente è riconducibile il settore dei rifiuti, «viene a funzionare come un limite alla disciplina che le Regioni e le Province autonome dettano in altre materie di loro competenza, per cui queste ultime non possono in alcun modo derogare o peggiorare il livello di tutela ambientale stabilito dallo Stato» (sentenza n. 378 del 2007).
8. - In applicazione degli enunciati principi, deve rilevarsi che l'art. 19, comma 3, lettera b), della legge provinciale, stabilendo che «Le disposizioni di cui al comma 1 non si applicano ai trasporti di rifiuti speciali che non eccedano la quantità di 30 chilogrammi o di 30 litri al giorno, effettuati dal produttore dei rifiuti speciali stessi», ha introdotto una esenzione per i rifiuti pericolosi dall'obbligo del formulario d'identificazione in contrasto con l'art. 193 del d. lgs. n. 152 del 2006, destinato in ogni caso a prevalere (sentenza n. 378 del 2007), secondo cui «Le disposizioni di cui al comma 1 non si applicano [...] ai trasporti di rifiuti non pericolosi effettuati dal produttore dei rifiuti stessi, in modo occasionale e saltuario, che non eccedano la quantità di trenta chilogrammi o di trenta litri» (comma 4).
Il legislatore statale, invero, ha istituito un regime più rigoroso di controlli sul trasporto dei rifiuti pericolosi, in ragione della loro specificità (artt. 178, comma 1, e 184 del d. lgs. n. 152 del 2006) e in attuazione degli obblighi assunti in àmbito comunitario, in base ai quali «per quanto riguarda i rifiuti pericolosi i controlli concernenti la raccolta ed il trasporto [...] riguardano l'origine e la destinazione dei rifiuti» (art. 5, comma 2, della direttiva 91/689/CEE del 12 dicembre 1991, relativa ai rifiuti pericolosi), poiché «una corretta gestione dei rifiuti pericolosi richiede norme supplementari e più severe che tengano conto della natura di questi rifiuti» (quarto considerando della direttiva citata).
Il formulario d'identificazione, strumento indicato dall'art. 5, comma 3, della citata direttiva 91/689/CEE, in mancanza del quale la legge statale, ove i rifiuti siano pericolosi, commina sanzioni penali (art. 258, comma 4, del d. lgs. n. 152 del 2006), consente di controllare costantemente il trasporto dei rifiuti, onde evitare che questi siano avviati per destinazioni ignote. La relativa disciplina statale, proponendosi come standard di tutela uniforme in materia ambientale, si impone nell'intero territorio nazionale e non ammette deroghe quali quelle previste dall'art. 19, comma 3, lettera b), della legge provinciale in esame.
9. - L'art. 20, comma 2, della legge provinciale n. 4 del 2006 concerne l'Albo nazionale gestori ambientali, struttura unitaria posta a presidio dell'affidabilità delle singole imprese aspiranti ad esercitare attività nel settore dei rifiuti, che, come tale, presuppone una uniformità di disciplina sul territorio nazionale.
Secondo l'art. 212, comma 5, del d. lgs. n. 152 del 2006, nel testo modificato dall'art. 2, comma 30, del d. lgs. n. 4 del 2008, «L'iscrizione all'Albo è requisito per lo svolgimento delle attività di raccolta e trasporto di rifiuti non pericolosi, di raccolta e trasporto di rifiuti pericolosi, di bonifica dei siti, di bonifica dei beni contenenti amianto, di commercio ed intermediazione dei rifiuti senza detenzione dei rifiuti stessi, nonché di gestione di impianti di smaltimento e di recupero di titolarità di terzi e di gestione di impianti mobili di smaltimento e di recupero di rifiuti, nei limiti di cui all'art. 208, comma 15».
L'iscrizione all'Albo è posta dal legislatore statale in correlazione con l'esigenza di dare attuazione a direttive comunitarie (art. 12 della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 2006/12/CE del 5 aprile 2006, relativa ai rifiuti, e, prima, art. 12 della direttiva del Consiglio 75/442/CEE del 15 luglio 1975, relativa ai rifiuti; Corte di giustizia, sentenza 9 giugno 2005, in causa C-270/03, Commissione c. Repubblica italiana).
L'impugnato art. 20, comma 2, nel disporre che «La Giunta provinciale può, con riguardo all'obbligo e alle modalità d'iscrizione nell'Albo nazionale, emanare ai sensi dell'articolo 32 norme in deroga, onde consentire l'iscrizione con procedure semplificate per determinate attività oppure l'esenzione dall'obbligo di iscrizione», ammette deroghe alla disciplina contenuta nell'art. 212 del citato decreto delegato, mentre l'adozione di norme e condizioni per l'esonero dall'iscrizione ovvero per l'applicazione in proposito di procedure semplificate attiene necessariamente alla competenza statale, nell'osservanza della pertinente normativa comunitaria.
10. - Anche l'art. 24, commi 1 e 2, della legge provinciale n. 4 del 2006 interviene in senso riduttivo sulla disciplina uniforme stabilita dal legislatore statale nella materia ambientale, in ordine all'autorizzazione degli impianti di smaltimento e recupero dei rifiuti, disciplina, cui, secondo precedenti affermazioni di questa Corte, «la legislazione regionale deve attenersi, proprio in considerazione dei valori della salute e dell'ambiente che si intendono tutelare in modo omogeneo sull'intero territorio nazionale» (sentenza n. 173 del 1998; si vedano, altresì, le sentenze n. 194 del 1993, n. 307 del 1992).
Le norme impugnate, invero, consentono la messa in esercizio di un impianto di smaltimento o recupero di rifiuti prima che la sua regolarità sia valutata, in contrasto con l'opposto principio espresso dall'art. 208 del d. lgs. n. 152 del 2006, il quale, pure nel testo modificato dall'art. 2, comma 29-ter, del d. lgs. n. 4 del 2008, disciplina l'autorizzazione unica per i nuovi impianti senza prevedere alcuna forma di autorizzazione tacita, neppure provvisoria, e ciò in ottemperanza alle prescrizioni delle pertinenti direttive comunitarie, configurando queste ultime un sistema di autorizzazioni previe (artt. da 9 a 11 della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 2006/12/CE del 5 aprile 2006, relativa ai rifiuti e, prima, artt. da 9 a 11 della direttiva del Consiglio 75/442/CEE del 15 luglio 1975, relativa ai rifiuti; art. 3 della direttiva 91/689/CEE del Consiglio relativa ai rifiuti pericolosi; Corte di giustizia, sentenza 14 giugno 2001, in causa C-230/00, Commissione c. Belgio).
11. - La questione di legittimità costituzionale dell'art. 7, comma 1, lettera b), della legge provinciale n. 4 del 2006 è fondata, in riferimento all'art. 117, primo comma, della Costituzione.
Invero, alla luce dei principi espressi nella materia dalla Corte di giustizia - da ultimo ribaditi nella sentenza 18 dicembre 2007, in relazione all'esclusione delle terre e delle rocce da scavo destinate all'effettivo riutilizzo per reinterri, riempimenti, rilevati e macinati dall'ambito di applicazione della disciplina nazionale sui rifiuti, ad opera dell'art. 10 della legge 23 marzo 2001, n. 93 (Disposizioni in campo ambientale) e dell'art. 1, commi 17 e 19, della legge 21 dicembre 2001, n. 443, recante «Delega al Governo in materia di infrastrutture ed insediamenti produttivi strategici ed altri interventi per il rilancio delle attività produttive» (Corte di giustizia, sentenza 18 dicembre 2007, in causa C-194/05, Commissione c. Repubblica italiana) - deve ritenersi che la norma denunciata si ponga in contrasto con la direttiva 2006/12/CE.
Ai sensi dell'art. 1, comma 1, lettera a), della direttiva 2006/12/CE si intende per rifiuto «qualsiasi sostanza od oggetto che rientri nelle categorie riportate nell'allegato I e di cui il detentore si disfi o abbia l'intenzione o l'obbligo di disfarsi».
Le «terre e rocce» di cui al capitolo 17, sezione 17 05, del catalogo europeo dei rifiuti contenuto nella decisione 2000/532/CE del 3 maggio 2000 (Decisione della Commissione che sostituisce la decisione 94/3/CE che istituisce un elenco di rifiuti conformemente all'articolo 1, lettera a), della direttiva 75/442/CEE del Consiglio relativa ai rifiuti e la decisione 94/904/CE del Consiglio che istituisce un elenco di rifiuti pericolosi ai sensi dell'articolo 1, paragrafo 4, della direttiva 91/689/CEE del Consiglio relativa ai rifiuti), vanno qualificate come «rifiuti», ai sensi della direttiva sopra citata, se il detentore se ne disfa ovvero ha l'intenzione o l'obbligo di disfarsene.
Tenuto conto dell'obbligo di interpretare in modo ampio la nozione di rifiuto, la possibilità di considerare un bene, un materiale o una materia prima derivante da un processo di estrazione o di fabbricazione che non è principalmente destinato a produrlo, un sottoprodotto di cui il detentore non intende disfarsi, deve essere limitata alle situazioni in cui il riutilizzo non è semplicemente eventuale, bensì certo, non richiede una trasformazione preliminare e interviene nel corso del processo di produzione o di utilizzazione (Corte di giustizia, sentenza 11 novembre 2004, causa C-457/02, Niselli; sentenza 11 settembre 2003, causa C-114/01, Avesta Polarit Chrome; sentenza 18 aprile 2002, causa C-9/00, Palin Granit Oy).
Al riguardo la Corte di giustizia ha precisato che la modalità di utilizzo di una sostanza non è determinante per qualificare o meno quest'ultima come rifiuto, poiché la relativa nozione non esclude le sostanze e gli oggetti suscettibili di riutilizzazione economica. Il sistema di sorveglianza e di gestione istituito dalla direttiva sui rifiuti intende, infatti, riferirsi a tutti gli oggetti e le sostanze di cui il proprietario si disfa, anche se essi hanno un valore commerciale e sono raccolti a titolo commerciale a fini di riciclo, di recupero o di riutilizzo (Corte di giustizia, sentenza 18 dicembre 2007, in causa C-194/05, Commissione c. Repubblica italiana; sentenza 18 aprile 2002, causa C-9/00, Palin Granit Oy; sentenza 25 giugno 1997, cause riunite C-304/94, C-330/94, C-342/94 e C-224/95, Tombesi).
La norma provinciale fa sorgere la presunzione che, nelle situazioni da esse previste, le terre e rocce da scavo costituiscano sottoprodotti che presentano per il loro detentore, data la sua volontà di riutilizzarli, un vantaggio o un valore economico anziché un onere di cui egli cercherebbe di disfarsi.
Se tale ipotesi in determinati casi può corrispondere alla realtà, non può esistere alcuna presunzione generale in base alla quale un detentore di terre e rocce da scavo tragga dal loro riutilizzo un vantaggio maggiore rispetto a quello derivante dal mero fatto di potersene disfare (Corte di giustizia, sentenza 18 dicembre 2007, in causa C-194/05, Commissione c. Repubblica italiana).
L'art. 7, comma 1, lettera b), della legge provinciale, dunque, sottraendo alla nozione di rifiuto taluni residui che invece, in base a quanto esposto, corrispondono alla definizione sancita dall'art. 1, lettera a), della direttiva 2006/12/CE, si pone in contrasto con la direttiva medesima, la quale funge da norma interposta atta ad integrare il parametro per la valutazione di conformità della normativa regionale all'ordinamento comunitario, in base all'art. 117, primo comma, della Costituzione.
P.Q.M
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli artt. 3, comma 1, lettera w), numero 1, e 5, comma 1, lettera b), della legge della Provincia autonoma di Bolzano 26 maggio 2006, n. 4 (La gestione dei rifiuti e la tutela del suolo), promossa, in riferimento all'art. 117, primo comma, della Costituzione, dal Presidente del Consiglio dei ministri, con il ricorso indicato in epigrafe;
2) dichiara l'illegittimità costituzionale degli artt. 7, comma 1, lettera b), 19, comma 3, lettera b), 20, comma 2, e 24, commi 1 e 2, della legge della Provincia autonoma di Bolzano 26 maggio 2006, n. 4 (La gestione dei rifiuti e la tutela del suolo).
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 marzo 2008.
DEPOSITATA IN SEGRETERIA IL 14 MAR. 2008.

mercoledì 30 luglio 2008

Consiglio di Stato, VI, sentenza 17 luglio 2008 n. 3592

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) ha pronunciato la seguente
DECISIONE
sul ricorso in appello n. 3141/2005, proposto dalla Societa' Italiana Autori Ed Editori (S.I.A.E.) in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dagli Avv. Maurizio Mandel,. Roberto De Tilla e Stefano Astorri con domicilio eletto in Roma Viale della Letteratura, 30 presso Maurizio Mandel
contro
Ducale s.n.c. di Marco Malton & C. in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso dall’Avv. Renato Recca con domicilio eletto in Roma Via San Fabiano N.21
e nei confronti di
Ministero per i Beni e le Attivita' Culturali in persona del Ministro p.t. e Cipriani Stelvio non costituitisi;
per la riforma
della sentenza del TAR LAZIO - ROMA :Sezione III TER n.1037/2005 , resa tra le parti;
Visto l’atto di appello con i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio di DUCALE S.N.C. DI MARCO MALTON & C.
Viste le memorie difensive;
Visti gli atti tutti della causa;
Alla pubblica udienza del 06 Maggio 2008, relatore il Consigliere Roberta Vigotti ed uditi, altresì, gli avvocati Mandel, Astorri e Rizzo per delega dell’avv.to Recca;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue:
FATTO
La Società Italiana Autori ed Editori (SIAE) impugna la sentenza con la quale il TAR per il Lazio ha accolto la domanda di risarcimento del danni avanzata da Ducale s.n.c., pur dichiarando improcedibile il contestuale ricorso rivolto avverso il silenzio-rifiuto serbato da SIAE sulla domanda di iscrizione proposta dalla medesima ricorrente.
In tale domanda, inoltrata il 12 dicembre 1999, la società Ducale, che cura, ai sensi dell’art. 3 del proprio statuto "l’edizione, la pubblicazione e lo sfruttamento in Italia e all’estero di brani di composizioni musicali acquisite da autori ed editori sia italiani che stranieri e la loro divulgazione….nonchè la fabbricazione, in proprio e per conto terzi, di dischi, di nastri magnetici ed audiovisivi, di colonne sonore per films o spettacoli televisivi, di qualsiasi altro ritrovato ora conosciuto o ancora da inventare, avente attinenza con l’attività sociale", e che quindi è titolare di diritti connessi al diritto di autore, specificava di essere in possesso dei requisiti previsti dall’art. 7 dello statuto SIAE e chiedeva l’iscrizione "per la tutela sia giuridica che economica del diritto connesso di cui è titolare, quale produttore di dischi fonografici e simili".
Non avendo ricevuto risposta neppure a seguito di formale diffida, ma solo una nota interlocutoria datata 4 maggio 2000, la società ha proposto ricorso davanti al TAR per il Lazio, che ha respinto l’incidentale domanda cautelare.
In sede di appello, il Consiglio di Stato, con ordinanza n. 3097 del 23 giugno 2000, ha disposto l’inserimento con riserva della Ducale, con attribuzione, sempre con riserva, dei diritti sociali dagli iscritti ordinari e con diritto alla partecipazione diretta dei compensi. In esecuzione di tale ordinanza, la SIAE ha iscritto la ricorrente tra gli iscritti ordinari, e, con provvedimento del commissario straordinario n. 89 del 27 agosto 2001, l’ha inserita tra gli associati straordinari di cui all’art. 2 comma 2 dello statuto approvato il 4 giugno 2001.
Successivamente, anche in attuazione di giudicati amministrativi, la statuto della SIAE è stato modificato con decreto ministeriale del 3 dicembre 2002, nel senso, per quanto qui interessa, dell’esclusione dei titolari di diritti connessi dal diritto di associazione, pur con la garanzia di forme di rappresentanza.
Con ricorso per motivi aggiunti la ricorrente società Ducale ha chiesto il risarcimento dei danni patiti a causa dell’atteggiamento dilatorio della SIAE sulla domanda di iscrizione.
Il TAR per il Lazio, con la sentenza impugnata, ha giudicato improcedibile il ricorso proposto avverso il silenzio-rifiuto sulla domanda di iscrizione, dal momento che lo statuto, come da ultimo novellato, non prevede più per i titolari di diritti connessi la possibilità di associazione alla SIAE, ma ha accolto la domanda risarcitoria, sul presupposto che il mancato tempestivo riconoscimento dei diritti associativi avesse provocato alla ricorrente danni solo parzialmente elisi dall’ordinanza n. 3097/2000 del Consiglio di Stato.
La SIAE critica tale decisione, sostenendo innanzitutto che la declaratoria di improcedibilità del ricorso precludesse al Giudice di pronunciarsi sulla domanda di risarcimento, che presuppone il previo annullamento del provvedimento impugnato.
In via subordinata, l’appellante contesta la qualificazione, operata dal TAR, del proprio comportamento in termini di silenzio illegittimo, dal momento che la nota del 4 maggio 2000, lungi dall’avere intento dilatorio, costituiva l’unica risposta possibile alla istanza della Ducale in un momento in cui si stava procedendo alla modificazione dello statuto anche in ottemperanza a sentenze nel frattempo intervenute.
Inoltre, la SIAE nega che, come ha ritenuto il primo giudice, l’illecito che determina il risarcimento sia identificabile in ogni ipotesi di violazione da parte della amministrazione delle norme procedimentali, a prescindere dal rilievo sostanziale della violazione: per tale via la sentenza avrebbe erroneamente identificato l’illecito con il silenzio, dimenticando che, nel caso in esame, la lesione subita dalla ricorrente non è riconducibile alla inerzia della SIAE, ma a fatti sopravvenuti (la modificazione dello statuto, in senso impeditivo all’accoglimento della domanda), in relazione ai quali l’interessato non ha reagito in sede processuale.
La sentenza è criticata, ancora, nella parte in cui, con riferimento all’elemento soggettivo della fattispecie risarcitoria, ha stabilito che in ipotesi di violazione di regole procedimentali il requisito della colpa, in ordine alla quale l’onere probatorio risulta ribaltato, sarebbe comunque in re ipsa: al contrario, secondo l’appellante, in base all’art. 2697 cod. civ. il ricorrente deve sempre provare la colpa dell’amministrazione, al fine di dimostrarne la responsabilità. Nella fattispecie, le ragioni evidenziate con la nota del 4 maggio 2000 escludono che sia possibile ravvisare alcun profilo di colpevolezza nell’operato della SIAE, e nel contempo non è stata offerta alcuna prova neppure dell’esistenza di un danno risarcibile, indicato genericamente nella sentenza del TAR nella preclusione della possibilità di far valere le proprie ragioni in sede associativa, senza alcuna specificazione concreta in ordine ai danni patiti e/o a possibilità perdute.
La domanda accolta dal TAR non coincide, secondo l’appellante, con quella azionata con i motivi aggiunti, i quali fanno riferimento al mancato esercizio dei diritti associativi solo per la mancata partecipazione alle elezioni dell’8 giugno 2003, ed è sfornita di contenuto, dal momento che dalla data del 13 dicembre 1999, nella quale è stata inoltrata l’istanza di iscrizione, al 3 dicembre 2002, giorno in cui è mutato lo statuto SIAE con divieto di iscrizione dei titolari di diritti connessi, la SIAE è stata amministrata da un commissario straordinario del governo, che ha svolto le funzioni dell’assemblea degli associati, del consiglio di amministrazione e del presidente, e conseguente inibizione per tutti i soci di svolgere i diritti relativi alla vita dell’associazione, diritti garantiti, in ogni caso, anche alla Ducale in esecuzione della ordinanza del Consiglio di Stato del 23 giugno 2000, n. 3097. Né alla ricorrente avrebbe potuto essere riconosciuto il risarcimento per la mancata partecipazione alle forme di solidarietà curate dalla SIAE, previste elusivamente per gli autori, o per altri profili, mai rivendicati.
Infine, l’appellante contesta la liquidazione del danno, operata dal TAR in via equitativa, il che conferma, a suo dire, l’assoluta mancanza di prova e di allegazione da parte della ricorrente e, quindi, l’erroneità della sentenza.
La SIAE conclude per la riforma della sentenza impugnata, contrastata dalla società Ducale, costituitasi in giudizio.
All’odierna pubblica udienza le parti hanno ulteriormente ribadito le proprie tesi.
DIRITTO
E’ impugnata la sentenza con la quale il TAR per il Lazio, all’esito del ricorso proposto da Ducale s.n.c. avverso il silenzio serbato da SIAE sulla sua domanda di iscrizione, ha dichiarato improcedibile il ricorso stesso, in dipendenza dell’intervenuta modifica statutaria impeditiva dell’iscrizione, ma ha accolto la domanda di risarcimento dei danni derivati alla ricorrente dall’omessa risposta.
I) Va preliminarmente esaminata la parte dell’appello che si incentra sulla impossibilità, per il giudice amministrativo, di pronunciarsi sulla domanda risarcitoria se non previo annullamento del provvedimento impugnato, o accertamento della illegittimità del silenzio dell’amministrazione, accertamento nella specie impedito dalla dichiarata improcedibilità del ricorso.
La censura non ha pregio, e il principio della c.d. pregiudizialità amministrativa è stato invocato dalla ricorrente non a proposito.
In forza di tale principio, infatti, deve escludersi che possa essere introdotta, davanti al giudice amministrativo, una domanda risarcitoria che non sia collegata alla domanda demolitoria di un provvedimento, anche silenzioso, dal momento che l’art. 7 della legge n. 205 del 2000 qualifica le questioni relative al risarcimento del danno come eventuali e consequenziali a quelle rientranti nell’ambito della sua giurisdizione (Consiglio Stato, Adunanza Plenaria, 22 ottobre 2007, n. 12).
La regola della priorità del processo impugnatorio è stata, peraltro, rispettata nel caso di specie, nel quale la ricorrente ha proposto davanti al TAR precisamente una domanda rientrante nell’abito della giurisdizione amministrativa, alla quale ha fatto seguire, con l’atto di motivi aggiunti, la domanda risarcitoria: è stata dunque rispettata la condizione della quale si è detto, né può essere seguita la pretesa dell’appellante, che spinge la pregiudizialità fino a farle assumere effetti impeditivi della pronuncia del giudice, al quale, pur nell’ambito della propria giurisdizione (Consiglio di Stato, sez. IV, 29 gennaio 2008, n. 248), sarebbe preclusa la pronuncia sulla parte risarcitoria laddove riconosca l’improcedibilità della domanda principale per effetto di un provvedimento sopravvenuto in corso di causa.
Una tale ricostruzione, a ben vedere, priverebbe di significato la regola della pregiudizialità, e la tutela stessa degli interessi dedotti in giudizio, tutte le volte in cui sia in discussione il danno derivante dal silenzio dell’amministrazione: giacchè sarebbe sufficiente un provvedimento espresso per determinare, con l’improcedibilità della domanda impugnatoria, l’impossibilità dell’esame di quella risarcitoria. E poiché nel campo degli interessi legittimi non può darsi la tutela del giudice ordinario, neppure con riguardo al risarcimento del danno, una intera categoria di posizioni soggettive ritenute dal legislatore degne di tutela rimarrebbe sguarnita.
Sotto il profilo considerato, pertanto, la sentenza non incorre nel vizio preteso dall’appellante.
II) Le ulteriori censure svolte con il gravame si appuntano contro i passaggi logici che hanno condotto i primi giudici a riconoscere il diritto al risarcimento, e a quantificarlo in via equitativa. In particolare, la sentenza avrebbe errato
-nel qualificare il comportamento di SIAE come silenzio illegittimo;
-nell’identificare la lesione nel fatto stesso del silenzio;
-nel prescindere dalla dimostrazione dell’esistenza di un danno concretamente patito da Ducale;
-nel non quantificare il danno stesso.
Prendendo le mosse dal secondo di tali argomenti, che, a giudizio del Collegio assume rilevanza preminente, una attenta lettura della sentenza impugnata porta ad escludere che, da parte del TAR, sia stata operata l’identificazione che pretende l’appellante.
Nella ricostruzione fatta propria in primo grado, la lesione dell’interesse deriva dalla circostanza che, nell’attesa che la SIAE si pronunciasse sulla domanda di iscrizione, questa è diventata impossibile (con la conseguente pretermissione degli interessi della Ducale). La lesione deriva dunque dal silenzio, ma non si identifica con il silenzio (come del resto è evidente in ogni caso, dal momento che un comportamento inerte può essere causa di danni, ma non è il danno stesso - con l’ulteriore conseguenza della importanza della dimostrazione del nesso eziologico).
Al di là della prospettazione formale, il TAR, in realtà, non ha dunque attribuito autonomo rilievo risarcitorio alla mera violazione dell’obbligo di comportamento imposto all’amministrazione, il che sarebbe errato (Consiglio di Stato, sez. IV, 29 gennaio 2008, n. 248, già citata, che ha superato, sul punto, Consiglio di Stato, A.P. 15 settembre 2005, n. 7), ma ha individuato il danno (sia pure con un ragionamento che, come si dirà, non è corretto) "nelle perdite economiche subite in conseguenza della illegittimità, e più in generale della scorrettezza, a prescindere dalla spettanza del bene della vita".
Proprio in quest’ultimo passaggio argomentativo si annida l’erroneità della sentenza: perché, una volta stabilito che il silenzio ha provocato un danno, consistente nelle perdite economiche subite dalla ricorrente, la dimostrazione di queste assume valore decisivo per integrare il conseguente diritto al risarcimento.
Nella sentenza, la stessa individuazione della qualità del danno che si pretende subito dalla società Ducale risulta perplessa: dopo averlo definito, come si è appena detto, in termini puramente economici, il TAR lo identifica nell’impedimento alla partecipazione alla vita associativa, con conseguente preclusione della possibilità di far valere i propri interessi, ma, come rileva l’appellante, tale ricostruzione non corrisponde né alla domanda avanzata dalla ricorrente, né alla realtà dei fatti, ed è in ogni caso sfornita di qualsiasi prova.
Giova, a questo proposito, ricordare come l’istanza di iscrizione alla SIAE sia stata avanzata dalla Ducale in data 13 dicembre 1999, e che l’inserimento con riserva , con conseguente attribuzione dei diritti sociali sia stata disposta in data 18 luglio 2000, in ottemperanza dell’ordinanza del Consiglio di Stato n. 3097 del 2000; solo il corrispondente intervallo di tempo avrebbe, dunque, potuto essere considerato per l’indagine circa l’esistenza di danni da mancata iscrizione.
Inoltre, nessuna utile specificazione è contenuta in sentenza (né nella domanda avanzata con i motivi aggiunti dalla ricorrente in primo grado, né nel controricorso in appello e nella successiva memoria) in ordine ai danni subiti.
Nell’atto introduttivo di motivi aggiunti, la Ducale formula la richiesta per il "riconoscimento dei diritti sociali concretatisi nella partecipazione alle elezioni, alle forme di solidarietà curate dalla SIAE, alla ripartizione dei proventi", senza ulteriori specificazioni.
La sentenza impugnata è ancora più generica, indicando quale danno da risarcire "la preclusione della possibilità di far valere le proprie ragioni in sede associativa per la tutela dei propri interessi", dimenticando che tale preclusione è, ancora una volta, il tramite per la produzione del danno, ma non ancora il danno, che è precisamente l’entità da dimostrare da parte la ricorrente.
Lungi dal poter ritenere assolto tale onere probatorio, anche le generiche asserzioni della Ducale si sono dimostrate prive di contenuto, dal momento che, nel periodo rilevante (13 dicembre 1999-18 luglio 2000) non sono state tenute elezioni, essendo l’amministrazione della SIAE affidata ad un commissario straordinario; le forme di solidarietà sono previste, come da nota SIAE dell’1 aprile 2005, depositata in causa e non contestata, solo per la categoria degli autori, nella quale non rientra la Ducale; nessuna quantificazione e/o argomentazione è stata offerta in ordine alla ripartizione dei proventi dalla quale sarebbe stata esclusa la ricorrente.
III) La mancata dimostrazione (e la mancata stessa esatta qualificazione) del danno da risarcire costituisce dunque vizio della sentenza appellata; l’accoglimento di questo motivo dell’appello esime il Collegio dall’esaminare gli altri aspetti, sopra indicati, pure sollevati con il gravame.
In conclusione, la sentenza impugnata deve essere riformata, ma la complessità delle questioni proposte induce alla compensazione tra le parti delle spese di giudizio, per entrambi i gradi
P.Q.M.
Accoglie l’appello e, in riforma della sentenza impugnata, respinge il ricorso di primo grado.
Spese compensate per entrambi i gradi del giudizio.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'Autorità amministrativa.
Così deciso in Roma, il 6 maggio 2008 dal Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale - Sez.VI - nella Camera di Consiglio, con l'intervento dei Signori:
Giovanni Ruoppolo Presidente
Paolo Buonvino Consigliere
Domenico Cafini Consigliere
Roberto Chieppa Consigliere
Roberta Vigotti Consigliere Est.
Presidente
GIOVANNI RUOPPOLO
Consigliere Segretario
ROBERTA VIGOTTI GIOVANNI CECI
DEPOSITATA IN SEGRETERIA il 17/07/2008.

giovedì 24 luglio 2008

CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI - sentenza 17 luglio 2008 n. 3602

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) ha pronunciato la seguente

DECISIONE
sul ricorso in appello n. 6879/2007, proposto dal Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali, dal Ministero dello sviluppo economico, dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, in persona dei rispettivi Ministri pro tempore, rappresentati e difesi per legge dall’Avvocatura generale dello Stato, con domicilio in via dei Portoghesi n. 12, Roma;
c o n t r o
– Cavarzere Produzioni Industriali s.p.a. e Saccarifera del Rendina s.p.a., in persona dei loro rappresentanti legali, rappresentate e difese dal prof. avv. Salvatore Alberto Romano e dall'avv. Francesco Sette, ed elettivamente domiciliate presso lo studio del primo in Roma, viale XXI Aprile n. 11;
appellante incidentale

per l’annullamento
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio, sede di Roma Sez. II ter, n. 4258 del 10 maggio 2007.

Visto il ricorso in appello con i relativi allegati
Visto l’atto di costituzione in giudizio di Cavarzere Produzioni Industriali s.p.a. e Saccarifera del Rendina s.p.a.;
Visto l’appello incidentale di Cavarzere Produzioni Industriali s.p.a. e Saccarifera del Rendina s.p.a.;
Visti gli atti tutti della causa
Relatore all’udienza del 22 aprile 2008 il Consigliere Francesco Bellomo e uditi per le parti l’avv. dello Stato Palatiello e l’avv. Romano;
Ritenuto quanto segue:

F A T T O
1. Con ricorso proposto dinanzi al Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio Cavarzere Produzioni Industriali s.p.a. e Saccarifera del Rendina s.p.a
domandavano il risarcimento dei danni subiti per effetto dell'applicazione del decreto 27.2.1987 del Ministro delle politiche agricole e forestali di concerto con il Ministro dell'industria, del commercio e dell'artigianato.
A fondamento del ricorso deducevano che detto provvedimento, annullato in sede giurisdizionale, aveva loro causato ingenti danni patrimoniali.
Si costituivano in giudizio per resistere al ricorso il Ministero delle politiche agricole e forestali, il Ministero dell'industria, del commercio e dell'artigianato, il Ministero del tesoro, del bilancio e della programmazione economica.
Con sentenza n. 4258 del 10 maggio 2007 il TAR accoglieva per quanto di ragione il ricorso, condannando le Amministrazioni al pagamento di 3.389.369 euro.
2. La sentenza è stata appellata dal Ministero delle politiche agricole e forestali, dal Ministero dell'industria, del commercio e dell'artigianato, dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, che contrastano le argomentazioni del giudice di primo grado.
Si sono costituiti per resistere all’appello Cavarzere Produzioni Industriali s.p.a. e Saccarifera del Rendina s.p.a., che propongono, altresì, appello incidentale.
La causa è passata in decisione alla pubblica udienza del 22 aprile 2008.

MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Produzioni Industriali s.p.a. e Saccarifera del Rendina s.p.a fanno parte del Gruppo Saccarifero Veneto (G.S.V.) e operano nel settore della produzione di zuccheri, collegate tra loro per elementi tecnici, economici e strutturali e responsabili in solido degli obblighi derivanti dalla regolamentazione dell'Unione Europea.
Esse avevano impugnato innanzi al giudice amministrativo il decreto 27.2.1987 del Ministro dell'agricoltura e delle foreste di concerto con il Ministro dell'industria, del commercio e dell'artigianato, con il quale erano state definite per la campagna 1987/1988 le quote di produzione del G.S.V. suscettibili di contributi all'esportazione. Detto decreto è stato annullato, con sentenza passata in giudicato (CdS sezione VI n. 652 del 10 maggio 1996).
La controversia si inquadra nella regolamentazione comunitaria che assegna agli Stati membri due gruppi (A e B) di quote di produzione, da distribuire all'interno tra le imprese del settore, suscettibili di contributi per finanziare l'esportazione della produzione eccedente il consumo nella Comunità. La produzione in esubero rispetto ai due gruppi suddetti rientra in quota C, è esportabile liberamente nei Paesi terzi e non gode del finanziamento europeo. Ogni Stato membro della Comunità può ridurre le quote già assegnate, per singole imprese, in caso di progetti imprenditoriali di ristrutturazione, nella misura necessaria alla loro realizzazione (art. 25.2 del reg. CEE 1785/81).
Tale potere riduttivo è stato esercitato nei confronti delle società del G.S.V., in amministrazione controllata dal dicembre del 1983 a seguito della dichiarazione di crisi del settore saccarifero adottata nel giugno di quell'anno dal Comitato interministeriale per la produzione industriale. Con D.M. 4.11.1983 il Ministero dell'agricoltura e delle foreste riduceva per la campagna 1984/1985 la quota di produzione A di competenza del G.S.V. a 2.974.936 quintali, rispetto ai 4.144.899 quintali già assegnati con D.M. 30.11.1981. Ulteriore riduzione a q. 2.561.899 era disposta per la successiva campagna 1985/1986 (D.M. 9.1.1985).
A seguito del piano di risanamento del settore bieticolo saccarifero e del consequenziale piano d'intervento per le società del G.S.V., approvati dal Comitato interministeriale per la programmazione economica rispettivamente con delibera 7.4.1984 e delibera 13.2.1986, è stata effettuata la cessione degli stabilimenti del Nord Italia alla neocostituita ISI Agroindustriale s.p.a. .
Pertanto il Ministero dell'agricoltura e delle foreste ha operato una ridistribuzione delle quote di produzione, assegnando al G.S.V. 652.200 q. di quota A e 97.800 q. di quota B per la campagna 1986/1987 (D.M. 11.8.1986). La stessa riduzione è stata confermata per le campagne 1987/1988, 1988/1989 e 1989/1990, rispettivamente con D.M. 27.2.1987, D.M. 30.6.1988 e D.M. 28.2.1989.
Il D.M. 27.2.1987 è stato ritenuto illegittimo e annullato – oltre che per tardività della pubblicazione o alla comunicazione individuale – per difetto di motivazione in ordine alla conferma per la campagna 1987/1988 delle quote ridotte come definite per la campagna di produzione saccarifera precedente, e conseguente vizio di proporzionalità nella distribuzione delle quote tra le diverse società del settore.
Su tali basi la sentenza appellata ha riconosciuto la risarcibilità:
a) del danno emergente per la mancata contribuzione per i quantitativi non assegnati in quota A e B;
b) del lucro cessante per minor ricavo da ridotta quota di produzione e maggiore eccedenza riportabile in quota C (non assistita da contribuzione europea e, quindi, caratterizzata da aggravio di costi e minori ricavi nella vendita).
Appellano le Amministrazioni condannate al risarcimento del danno deducendo:
1) difetto di giurisdizione del giudice amministrativo;
2) difetto dell’elemento soggettivo della responsabilità civile dell’amministrazione;
3) carenza di legittimazione passiva del Ministero dell’Economia;
4) mancata prova ed erronea quantificazione del danno.
Hanno proposto appello incidentale le società appellate, domandando il riconoscimento di interessi e rivalutazione monetaria sulle somme spettanti a titolo risarcitorio.
2. Il Collegio procede all’esame delle censure proposto nell’appello principale secondo l’ordine indicato.
2.1 Il difetto di giurisdizione è argomentato sul presupposto che, una volta riconosciuta l’illegittimità del provvedimento di riduzione delle quote di produzione, la posizione delle imprese appellate ha natura di diritto soggettivo, appartenendo la controversia alla fase di erogazione di contributi per cui esiste un diritto di credito perfetto.
La tesi è priva di pregio.
Il risarcimento del danno è stato disposto dal TAR quale forma equivalente di tutela patrimoniale avverso un illecito della pubblica amministrazione posto in essere nell’esercizio di poteri autoritativi, i cui effetti, cioè, sono riconducibili alla sequenza logica norma - potere - effetto.
In ipotesi siffatte l’originaria posizione del destinatario dell’atto è di interesse legittimo, sicché le controversie in materia spettano alla giurisdizione di legittimità del giudice amministrativo, al quale compete altresì, ai sensi dell’art. 7, comma 3 L. 1034/71 ("Il tribunale amministrativo regionale, nell’ambito della sua giurisdizione, conosce anche di tutte le questioni relative all’eventuale risarcimento del danno, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, e agli altri diritti patrimoniali consequenziali"), disporre, ove necessario, la condanna al risarcimento dei danni.
La giurisdizione si radica sulla situazione soggettiva vantata dall’interessato nel momento in cui l’amministrazione agisce, restando irrilevante l’eventuale riqualificazione che detta posizione possa ricevere a seguito dell’intervenuto annullamento giurisdizionale, ovvero la circostanza che l’azione di risarcimento danni abbia natura di diritto soggettivo, come da tempo ha chiarito la giurisprudenza amministrativa, anche sulla scia delle pronunce delle Corte Costituzionale (n. 204/04 e 161/06), e alfine condiviso dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (n. 13656/06). I due ordini sono oggi concordi nel ritenere che anche l’azione autonoma di risarcimento del danno spetti al giudice amministrativo.
Nel caso in esame le appellate non hanno agito per l’adempimento di un loro diritto all’erogazione del contributo finanziario, ma per l’annullamento dell’atto amministrativo che disciplinava il contributo. Dunque la controversia non attiene affatto all’esecuzione di un’obbligazione pubblica, sebbene ai presupposti della medesima rimessi dalla legge al potere amministrativo, e l’azione risarcitoria rappresenta qui una tutela complementare all’annullamento.
2.2 Le appellanti lamentano il mancato accertamento della colpa dell’amministrazione. Il Collegio osserva che, in effetti, il TAR non ha svolto espresse argomentazioni sul punto, ma ciò porta semplicemente a correggere l’anzidetta motivazione, atteso che l’imputabilità dell’illecito all’amministrazione sussiste alla luce dei principi tracciati dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato (da ultimo, diffusamente, v. sezione V n. 1307/07), secondo cui che la accertata illegittimità dell'atto ritenuto lesivo dell'interesse del ricorrente rappresenta, nella normalità dei casi, l'indice (grave, preciso e concordante) della colpa dell'amministrazione.
La colpa, infatti, è una conseguenza altamente probabile della riscontrata illegittimità dell'atto. Di regola, quindi, in base ad un apprezzamento di frequenza statistica, il danneggiato ben può limitarsi ad allegare l'illegittimità dell'atto amministrativo annullato, in quanto essa indica la violazione dei parametri che, nella generalità delle ipotesi, specificano la colpa dell'amministrazione. In tali eventualità, allora, spetta all'amministrazione l'onere di fornire seri elementi idonei a superare la presunzione. La mancanza di colpa potrebbe essere affermata, concretamente, in diverse ipotesi, quali, per esempio, l'errore scusabile dell'amministrazione, derivante da fattori particolari correlati, esemplificativamente, alla formulazione incerta delle norme applicate, alle oscillazioni interpretative della giurisprudenza, alla rilevante complessità del fatto, oppure ai comportamenti di altri soggetti.
Nel caso in esame non solo questo onere non è stato assolto (avendo la difesa erariale sostenuto la tesi – ascritta a Cass. S.U. n. 500/99 – secondo cui l’onere della prova incombe interamente sul danneggiato), ma, al contrario, emergono positivi elementi di riscontro della presunzione, evincibili dalle ragioni dell’annullamento del decreto ministeriale causativo dei danni, che hanno natura sostanziale e testimoniano un mancato approfondimento sui presupposti di fatto dell’azione amministrativa, che ha automaticamente confermato la riduzione delle quote di produzione stabilita nell’anno passato.
2.3 Sussiste la lamentata carenza di legittimazione passiva del Ministero delle finanze, che non è parte del rapporto obbligatorio nascente dall’illecito – non essendo né autore del medesimo, né soggetto tenuto al pagamento del risarcimento verso le interessate – e, quindi, andava estromesso dal giudizio.
2.4 L’erroneità della quantificazione dei danni viene argomentata in primo luogo dall’assenza di elementi probatori e, in secondo luogo, dalla circostanza che le appellate, a seguito del provvedimento ministeriale che precludeva le vendite in quota A e B, hanno incrementato le loro vendite in quota C, aumentando le esportazioni verso paesi extracomunitari.
Le doglianze sono fondate nei sensi di seguito precisati.
Il TAR ha proceduto alla liquidazione del danno emergente e del lucro cessante sulla base degli elementi indicati dalle appellanti. In particolare il lucro cessante è stato individuato in un danno per minori ricavi da ridotta quota stimato in £. 4.155.680.746 e un danno per maggior riporto in quota C in £. 1.621.762.887 (considerando che per la campagna successiva con le ridotte assegnazioni di quote A e B le società hanno riportato in quota C 152.407 quintali di zucchero in eccedenza rispetto al riporto calcolabile sull'assegnazione intera, con un minore ricavo di £. 10.641 al quintale).
Tale operazione appare sorretta da una acritica adesione alle prospettazioni dell’interessata – fondate su un ragionamento altamente presuntivo – , senza procedere ad un opportuno vaglio delle condizioni del mercato e delle scelte di politica aziendale che l’illecito ha determinato.
In particolare la circostanza che le imprese abbiano aumentato la loro esportazione nei paesi extracomunitari, pur non essendo direttamente imputabile all’illecito (il che esclude l’applicazione dell’istituto della compensatio lucri cum damno), ha diminuito il danno obiettivamente patito, e di ciò si deve tener conto anche alla luce dell’art. 1227, comma 2 c.c. (che, nell’escludere dal risarcimento i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza, impone di non liquidare i danni che il creditore ha comunque evitato con un comportamento accorto, rientrante nella diligenza media professionale).
La minor somma da liquidare in forza delle indicate ragioni si stima equitativamente in euro 800.000, da cui discende la riduzione del risarcimento a 2.589.369 euro.
3. Può passarsi all’esame dell’appello incidentale, che risulta tardivo. Trattasi, infatti, di appello incidentale improprio (tale è quello rivolto avverso capi della sentenza autonomi da quelli impugnati con l’appello principale ovvero volto a far valere un autonomo interesse), cui si applica il termine previsto per l’appello principale (cfr. sez. IV n. 5474/05; sez. VI n. 1736/07 sez. IV n. 2299/08), di sessanta giorni dalla notifica della sentenza o un anno dalla sua pubblicazione.
Nel caso in esame la sentenza è stata notificata dalle parti appellate il 4 giugno 2007, mentre l’appello incidentale è stato notificato il 9 ottobre 2007, cioè ben oltre il termine di 60 giorni, pur tenendo conto del periodo di sospensione feriale.
Va ricordato che la notifica della sentenza effettuata dalla parte parzialmente soccombente (qui sul capo relativo agli accessori monetari, non liquidati dal TAR) è idonea a far decorrere il predetto termine, atteso che la notificazione della sentenza fa decorrere il termine breve per l’impugnazione non solo per la parte che la riceve, ma anche per quella che la effettua, in applicazione dell’art. 326 Cpc (giurisprudenza consolidata, v. da ultimo CdS sez. V 3671/05).
3. In conclusione l’appello principale deve essere in parte accolto e, in riforma della sentenza appellata, il Ministero dell’economia e delle finanze va estromesso dal giudizio, il Ministero delle politiche agricole e forestali e il Ministero dell'industria, del commercio e dell'artigianato, sono condannati al pagamento di 2.589.369 euro a titolo di risarcimento danni. L’appello incidentale è irricevibile. L’esito complessivo del giudizio suggerisce la compensazione per metà delle spese del doppio grado, e per metà a carico delle soccombenti, da liquidarsi come in dispositivo.

P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, accoglie in parte l’appello principale e, in riforma della sentenza appellata, condanna solidalmente il Ministero delle politiche agricole e forestali e il Ministero dell'industria, del commercio e dell'artigianato al pagamento di 2.589.369 euro a titolo di risarcimento danni nei confronti Cavarzere Produzioni Industriali s.p.a. e Saccarifera del Rendina s.p.a.. Dichiara irricevibile l’appello incidentale.
Spese del doppio grado di giudizio per metà compensate e per metà a carico delle Amministrazioni, per l’importo di euro 5000.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma, palazzo Spada, sede del Consiglio di Stato, nella camera di consiglio del 22 aprile 2008, con l'intervento dei sigg.ri:
Giuseppe Barbagallo Presidente
Luciano Barra Caracciolo Consigliere
Aldo Scola Consigliere
Francesco Bellomo Consigliere Est.
Manfredo Atzeni Consigliere
Presidente
GIUSEPPE BARBAGALLO
Consigliere Segretario
FRANCESCO BELLOMO VITTORIO ZOFFOLI

DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 17/07/2008
(Art. 55, L.27/4/1982, n.186)
Il Direttore della Sezione
MARIA RITA OLIVA

mercoledì 23 luglio 2008

CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 8 luglio 2008 n. 3391

REPUBBLICA ITALIANA N.3391/08 REG.DEC.
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO N. 654 REG.RIC.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Quinta Sezione ANNO 2007
ha pronunciato la seguente

DECISIONE

sul ricorso in appello n.654/2007, proposto dalla Hospital Service s.r.l., in proprio e quale mandante del Raggruppamento costituito con la Servizi Italia s.p.a., mandataria, in persona del legale rappresentante pro-tempore, rappresentata e difesa dagli avv.ti Giulio Cerceo, Paola De Virgiliis e Lucio V. Moscarini ed elettivamente domiciliata presso il terzo difensore in Roma, via Sesto Rufo n.23;

contro

i Servizi ospedalieri s.p.a., in persona del legale rappresentante pro-tempore, rappresentata e difesa dagli avv.ti Mario Sanino, Tommaso Marchese, Stefano Baccolini e Francesco Rizzo ed elettivamente domiciliata presso

e nei confronti

-dei Servizi Italia s.p.a., in persona del legale rappresentante pro-tempore,non costituitasi in giudizio;
- dell’Azienda Sanitaria Locale di Chieti, in persona del Direttore Generale pro-tempore, rappresentata e difesa dagli avv.ti Corrado Curzi e Riccardo Pagani ed elettivamente domiciliata in Roma, via Avezzana n. 51 presso lo studio dell’avv. Leopoldo Aperto Bella;
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per l’Abruzzo-Sezione Staccata di Pescara 18 novembre 2006 n.716.
Visto il ricorso con i relativi allegati.
Visto l'atto di costituzione in giudizio dei Servizi ospedalieri s.p.a. e dell’Azienda Sanitaria Locale di Chieti .
Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese.
Visti gli atti tutti della causa.
Nominato relatore il Consigliere Caro Lucrezio Monticelli.
Uditi, alla pubblica udienza del 4 dicembre 2007, gli avv.ti Moscarini, De Virgiliis, Curzi, Rizzo e Pagani;
Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue:

FATTO

Nella sentenza n.716/2006 il Tar Abruzzo- Sezione Staccata di Pescara ha così esposto i fatti di causa:
“L’Azienda Sanitaria Locale di Chieti, previo esperimento di gara pubblica, ha aggiudicato al raggruppamento temporaneo d’imprese costituito tra le società Servizi Italia s.p.a. (mandataria) e Hospital Service s.r.l. (mandante) il servizio di lavanolo, disinfezione, gestione guardaroba, trasporto e riconsegna della biancheria per durata di quattro anni a decorrere dal 1° marzo 2003 e per un importo complessivo annuo di € 2.545.705.
Poiché, a norma di quanto previsto dall’art. 2 del capitolato speciale di appalto e dall’art. 5 del contratto, l’Azienda Sanitaria Locale di Chieti si era riservata la possibilità “di prorogare e rinnovare il contratto per pari periodo, a discrezione della Stazione appaltante”, con deliberazione 25 novembre 2005, n. 1449, il Direttore Generale dell’Azienda ha disposto di ”prorogare” e di “rinnovare” per ulteriori quattro anni il contratto in questione alle condizioni economiche maturate a tale data per effetto degli incrementi ISTAT relativi al triennio 2003/2005, cioè per un importo complessivo annuo di € 2.708.975.
Con il ricorso in esame la società Servizi ospedalieri s.p.a., assumendo di essere “primaria impresa nazionale” che opera nel settore in questione, è insorta dinanzi questo Tribunale avverso tale atto, deducendo nella sostanza che l’Amministrazione non avrebbe potuto rinnovare e prorogare il contratto in questione, ma avrebbe dovuto indire nuova gara.
Ha prospettato, a tal fine, le seguenti censure:
1) Violazione dell’art. 23, I e II comma, della L. 18 aprile 2005, n. 62 e di ogni altra norma o principio in materia di concorsualità e trasparenza dell’azione amministrativa. Eccesso di potere per contraddittorietà.
2) Eccesso di potere per difetto di motivazione e di istruttoria, per falsa rappresentazione dei presupposti di fatto e per sviamento.
Conclusivamente, ha anche chiesto la condanna dell’Amministra-zione intimata al risarcimento dei danni subiti.
Tali doglianze la parte ricorrente ha ulteriormente illustrato con memoria depositata il 1° giugno 2006.
L’Azienda Sanitaria Locale di Chieti si è costituita in giudizio e con memorie depositate il 23 febbraio, il 20 maggio ed il 26 ottobre 2006 ha pregiudizialmente rilevato di aver provveduto con deliberazione 22 febbraio 2006, n. 223, del Direttore Generale dell’Azienda Sanitaria ad annullare l’impugnata deliberazione 25 novembre 2005, n. 1449, di “proroga/rinnovo” del contratto relativo al servizio di lavanolo, attesa l’illegittimità di tale deliberazione, ed a “disporre la proroga tecnica della fornitura nei confronti dell’attuale affidataria, nelle more dell’espletamento della nuova procedura di evidenza pubblica”.
Si sono anche costitute in giudizio le società Servizi Italia s.p.a. e Hospital Service s.r.l., che con memorie depositate il 22 febbraio ed il 28 ottobre 2006, dopo aver pregiudizialmente eccepito il difetto di giurisdizione di questo Tribunale a conoscere dell’impugnativa proposta in quanto la delibera impugnata “si inserisce nella fase di esecuzione di un rapporto contrattuale nei confronti del quale i terzi rimangono estranei e non possono accampare alcun interesse”, hanno evidenziato, tra l’altro, di aver impugnato sia dinanzi a questo Tribunale, che dinanzi al giudice ordinario, tale sopravvenuta deliberazione e che in tali ricorsi era stato proposto regolamento preventivo di giurisdizione.
Alla pubblica udienza del 9 novembre 2006 la causa è stata introitata a decisione.”
Ciò premesso, il Tar, dopo aver disatteso le eccezioni di carattere preliminare sollevate dai resistenti, ha accolto il ricorso e, per l’effetto, ha annullato l’impugnata deliberazione 25 novembre 2005, n. 1449 del Direttore Generale dell’Azienda Sanitaria Locale di Chieti.
La Hospital Service s.r.l., in proprio e quale mandante del Raggruppamento costituito con la Servizi Italia s.p.a., ha appellato la sentenza del Tar, denunciando sotto vari profili l’erroneità di tale sentenza e chiedendone pertanto la riforma.
Si è costituita in giudizio per resistere all’appello l’Azienda Sanitaria Locale di Chieti , che ha chiesto la conferma della sentenza impugnata.

DIRITTO

1. Con il ricorso in primo grado la Servizi ospedalieri s.p.a., nella sua qualità di impresa che opera nel settore, ha impugnato dinanzi al Tar Abruzzo-Pescara la deliberazione 25 novembre 2005, n. 1449, con la quale il Direttore Generale dell’Azienda Sanitaria Locale di Chieti ha deciso di ”prorogare” e di “rinnovare” per ulteriori quattro anni a decorrere dal 1° marzo 2006 il contratto stipulato con il raggruppamento temporaneo d’imprese costituito tra le società Servizi Italia s.p.a. (mandataria) e Hospital Service s.r.l. (mandante) per lo svolgimento del servizio di lavanolo, disinfezione, gestione guardaroba, trasporto e riconsegna della biancheria. Tale facoltà di proroga e rinnovo era prevista dall’art. 5 del contratto, il quale disponeva che “Il presente contratto ha la durata di quattro anni a decorrere dall’01.03.2002; l’ASL si riserva, a norma di quanto previsto dall’art.2 del capitolato speciale di prorogare e rinnovare il contratto per pari periodo, a discrezione della stazione appaltante.”
La Servizi ospedalieri s.p.a. ha assunto sostanzialmente che l’Amministrazione non avrebbe potuto rinnovare o prorogare il contratto in questione, ma avrebbe dovuto indire nuova gara.
Va poi aggiunto che nelle more del giudizio dinanzi al Tar, con la deliberazione 22 febbraio 2006, n. 223, il Direttore Generale dell’Azienda Sanitaria ha annullato l’impugnata deliberazione 25 novembre 2005, n. 1449, di “proroga/rinnovo” del contratto relativo al servizio di lavanolo e disposto “la proroga tecnica della fornitura nei confronti dell’attuale affidataria, nelle more dell’espletamento della nuova procedura di evidenza pubblica.,
Anche quest’ultima delibera è stata impugnata dinanzi sia al medesimo Tar sia al giudice ordinario dal raggruppamento beneficiario dell’ atto “di proroga/ rinnovo ” con ricorsi, allo stato pendenti, in relazione ai quali è stato anche proposto regolamento preventivo di giurisdizione.
Tale complessa situazione ha dato adito al raggruppamento da ultimo menzionato di proporre, con riferimento alla presente controversia, due eccezioni preliminari di difetto di giurisdizione e di difetto di interesse.
Il Tar ha disatteso le eccezioni ed ha accolto il ricorso nel merito.
2. Nell’atto di appello sono state innanzi tutto riproposte le due predette eccezioni, alle quali si è aggiunta, sempre in via preliminare, una censura sul comportamento del Tar, che ha deciso di pronunciarsi immediatamente sul ricorso avverso avverso l’atto di “proroga –rinnovo”, senza riunire , nonostante una richiesta in tal senso delle parti, i due ricorsi e senza comunque attendere l’esito del giudizio avente ad oggetto l’autoannullamento del citato provvedimento e la decisione sul regolamento di giurisdizione proposto nel giudizio stesso.
Quest’ultima doglianza va senz’altro disattesa, giacchè rientra nel potere discrezionale del Tar disporre o meno la riunione dei ricorsi e non può ravvisarsi un rapporto di pregiudizialità necessaria né con il giudizio relativo all’autoannulamento ( che come si vedrà non avrebbe comunque determinato la cessazione della materia del contendere) nè con la pronuncia sulla giurisdizione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (riguardando quest’ultima un diverso giudizio e comunque una fattispecie non coincidente, poiché viene ivi in considerazione un provvedimento di autotutela intervenuto dopo la stipulazione del contratto di“proroga –rinnovo”).
3. Si può ora passare all’esame della questione centrale proposta con l’appello, e cioè la determinazione del giudice compente in ordine alla presente controversia.
Va al riguardo in primo luogo evidenziato che, in linea di principio, il rinnovo o la proroga, al di fuori dei casi contemplati dall'ordinamento, di un contratto d’appalto di servizi o di forniture stipulato da un’amministrazione pubblica da luogo a una figura di trattativa privata non consentita e legittima qualsiasi impresa del settore a far valere dinanzi al giudice amministrativo il suo interesse legittimo all’espletamento di una gara.
Ciò posto, si deve verificare quale fosse all’epoca la disciplina della materia
L’art. 6, comma 1 della L. 24 dicembre 1993, n. 537 dopo la modifica introdotta dall’art. 44 della L. 23 dicembre 1994, n. 724, disponeva che ”è vietato il rinnovo tacito dei contratti delle pubbliche amministrazioni per la fornitura di beni e servizi, ivi compresi quelli affidati in concessione a soggetti iscritti in appositi albi. I contratti stipulati in violazione del predetto divieto sono nulli. Entro tre mesi dalla scadenza dei contratti, le amministrazioni accertano la sussistenza di ragioni di convenienza e di pubblico interesse per la rinnovazione dei contratti medesimi e, ove verificata detta sussistenza, comunicano al contraente la volontà di procedere alla rinnovazione”.
L’ultimo periodo del predetto comma è stato poi soppresso dall’art. 23, comma 1, della L. 18 aprile 2005, n. 62 (legge comunitaria 2004), mentre il successivo comma. 2 dello stesso articolo ha consentito solo la “proroga” dei contratti per acquisti e forniture di beni e servizi “per il tempo necessario alla stipula dei nuovi contratti a seguito di espletamento di gare ad evidenza pubblica a condizione che la proroga non superi comunque i sei mesi e che il bando di gara venga pubblicato entro e non oltre novanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge”.
Sulla portata di tale normativa si è pronunciata la IV Sezione del Consiglio di Stato che, con decisione 31 ottobre 2006, n. 6457, ha avuto modo di chiarire quanto segue.
“Deve premettersi che la modifica introdotta dall’art.23 l. n.62/05 deve intendersi finalizzata, come si ricava dall’esame della relazione illustrativa e dalla collocazione sistematica della disposizione, all’archiviazione di una procedura di infrazione comunitaria (n.2003/2110) avente ad oggetto proprio la previsione normativa nazionale della facoltà di procedere al rinnovo espresso dei contratti delle pubbliche amministrazioni, ritenuta incompatibile con i principi di libertà di stabilimento e di prestazione dei servizi cristallizzati negli artt.43 e 49 del Trattato CE e con la normativa europea in tema di tutela della concorrenza nell’affidamento degli appalti pubblici, e che, quindi, ogni esegesi della sua portata applicativa dev’essere coerente con la ratio e con lo scopo della relativa innovazione, per come appena evidenziati.
In conformità a tale premessa metodologica, deve osservarsi che all’eliminazione della possibilità di provvedere al rinnovo dei contratti di appalto scaduti, disposta con l’art.23 l. n.62/05, deve assegnarsi una valenza generale ed una portata preclusiva di opzioni ermeneutiche ed applicative di altre disposizioni dell’ordinamento che si risolvono, di fatto, nell’elusione del divieto di rinnovazione dei contratti pubblici.
Solo rispettando il canone interpretativo appena indicato, infatti, si assicura l’effettiva conformazione dell’ordinamento interno a quello comunitario, mentre, accedendo a letture sistematiche che riducano la portata precettiva del divieto di rinnovazione dei contratti pubblici scaduti e che introducano indebite eccezioni, si finisce per vanificare la palese intenzione del legislatore del 2005 di adeguare la disciplina nazionale in materia a quella europea e, quindi, per conservare profili di conflitto con quest’ultima del regime giuridico del rinnovo dei contratti di appalto delle pubbliche amministrazioni.
Ne consegue che, in coerenza con la regola ermeneutica appena sintetizzata, non solo l’intervento normativo di cui all’art.23 l. n.62/05 dev’essere letto ed applicato in modo da escludere ed impedire, in via generale ed incondizionata, la rinnovazione di contratti di appalto scaduti, ma anche l’esegesi di altre disposizioni dell’ordinamento che consentirebbero, in deroga alle procedure ordinarie di affidamento degli appalti pubblici, l’affidamento, senza gara, degli stessi servizi per ulteriori periodi dev’essere condotta alla stregua del vincolante criterio che vieta (con valenza imperativa ed inderogabile) il rinnovo dei contratti.
Né varrebbe, ancora, sostenere l’illegittimità del controverso diniego sulla base dell’argomento della previsione della possibilità del rinnovo nel bando di gara e nel successivo contratto, posto che la natura imperativa ed inderogabile della sopravvenuta disposizione legislativa che introduce un divieto generalizzato di rinnovazione dei contratti delle pubbliche amministrazioni implica la sopravvenuta inefficacia delle previsioni, amministrative e contrattuali, configgenti con il nuovo e vincolante principio, che non tollera la sopravvivenza dell’efficacia di difformi clausole negoziali (attesa la natura indisponibile degli interessi in esse coinvolti).”
Da quanto sopraesposto emerge dunque che in tema di rinnovo o proroga dei contratti pubbilici di appalto non vi è alcuno spazio per l’autonomia contrattuale delle parti, ma vige il principio che, salvo espresse previsioni dettate dalla legge in conformità della normativa comunitaria, l’amministrazione, una volta scaduto il contratto, deve, qualora abbia ancora la necessità di avvalersi dello stesso tipo di prestazioni, effettuare una nuova gara ( salva la limitata proroga di cui sopra).
Pertanto, allorquando un’ impresa del settore lamenti che alla scadenza di un contratto non si è effettuata una gara, fa valere il suo interesse legittimo al rispetto delle norme dettate in materia di scelta del contrante e l’eventuale nullità o inefficacia della clausola contrattuale che preveda un rinnovo o una proroga va accertata in via incidentale dal giudice amministrativo, competente a conoscere in via principale della eventuale lesione del predetto interesse legittimo.
Deve dunque concludersi per la giurisdizione del giudice amministrativo in ordine alla presente controversia.
4. Ciò posto deve ora verificarsi se, a causa del sopravvenuto provvedimento di autotutela, si fosse determinata la cessazione della materia del contendere in ordine all’impugnazione del provvedimento di proroga-rinnovo.
Al quesito va data risposta negativa, in quanto, essendo il provvedimento di autotutela ancora sub iudice, non vi è alcuna certezza in relazione al definitivo venir meno del provvedimento in contestazione e sussiste in ogni caso l’interesse dell’istante a che sia verificata in via giurisdizionale l’illegittimità del comportamento dell’amministrazione, quanto meno al fine di veder accertati in tale sede i presupposti per il ricoscimento del risarcimento dei danni, che aveva richiesto con il ricorso di primo grado.
5. Venendo ora all’esame del merito dell’appello, va evidenziato che il provvedimento in questione si pone in contrasto con la disciplina della materia, e specificamente con l’art. 23 della L. 18 aprile 2005, n. 62 , che, mentre al comma 1 ha vietato il rinnovo dei contratti, al successivo comma. 2 ha consentito, come già sopraevidenziato, solo la “proroga” dei contratti per acquisti e forniture di beni e servizi “per il tempo necessario alla stipula dei nuovi contratti a seguito di espletamento di gare ad evidenza pubblica a condizione che la proroga non superi comunque i sei mesi e che il bando di gara venga pubblicato entro e non oltre novanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge”.
Nella fattispecie invece la proroga-rinnovo è stata disposta per quattro anni e non è stato bandito alcun concorso.
Né può valere la circostanza che il disciplinare ed il contratto, relativi al quadriennio decorrente dal 1 marzo 2003, menzionato sopra, prevedessero la possibilità di proroga-rinnovo per quattro anni, perché si è già visto che, per effetto dell’entrata in vigore dell’art.23 della legge n.62/2005, deve ritenersi che si è verificata l’inefficacia sopravvenuta di qualsiasi disposizione contrattuale contrastante con detta norma.
6. L’appello deve dunque essere respinto.
Le spese seguono la socombenza e vengono liquidate come da dispositivo in favore della società appellata.

P. Q. M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta), respinge l’appello in epigrafe.
Condanna la Hospital Service s.r.l. al pagamento , in favore dell’appellata Servizi Ospedalieri s.p.a., le spese del grado di giudizio, che liquida in complessivi euro 2000/00 (duemila/00).
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'Autorità amministrativa.
Così deciso in Roma, addì 4 dicembre 2007, dal Consiglio di Stato in s.g. (Sez. V) riunito in camera di consiglio con l'intervento dei seguenti Magistrati:
Raffaele Iannotta PRESIDENTE
Cesare Lamberti CONSIGLIERE Caro Lucrezio Monticelli est. CONSIGLIERE
Marzio Branca CONSIGLIERE
Francesco Giordano CONSIGLIERE
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
f.to Caro Lucrezio Monticelli f.to Raffaele Iannotta
IL SEGRETARIO
f.to Rosi Graziano


DEPOSITATA IN SEGRETERIA
L’ 08-07-08
(Art. 55. L. 27/4/1982, n. 186)
p.IL DIRIGENTE
f.to Livia Patroni Griffi

venerdì 11 luglio 2008

T.A.R. Puglia, Lecce, III, 19 febbraio 2008 n. 530

REPUBBLICA ITALIANA
In nome del popolo italiano
TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE
PER LA PUGLIA
LECCE
- TERZA SEZIONE -

Registro Dec.: 530/08
Registro Generale: 1816/2007
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia, Terza Sezione di Lecce, nelle persone dei signori Magistrati:
ANTONIO CAVALLARI Presidente
TOMMASO CAPITANIO Primo Referendario, relatore
SILVIA CATTANEO Referendario
ha pronunciato la seguente

SENTENZA
A) sul ricorso n. 1816/2007, proposto da Consorzio Servizi Ascensori (C.S.A.) Societa' Cooperativa, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dagli avv. Alfredo Caggiula e Paola Petix, con domicilio eletto presso lo studio del primo, in Lecce, Via 95 Rgt Fanteria, 9,
contro
Provincia di Taranto, in persona del Presidente della G.P. p.t., rappresentata e difesa dall’avv. Francesco Caricato, con domicilio eletto presso lo studio dell’avv. Stefanizzo, in Lecce, Via G.A. Ferrari, 5,
e nei confronti di
– ELEVANT DI SCARCIGLIA ANTONIO, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dall’avv. Annarita Marasco, con domicilio eletto presso lo studio della stessa, in Lecce, Via Garibaldi, 43;
– MONTI ASCENSORI S.p.A., in persona del legale rappresentante p.t., non costituita,
per l'annullamento, previa sospensione dell'esecuzione,
– del verbale di gara in data 12 ottobre 2007;
– della determinazione n. 138 del 18.10.2007 del dirigente del Settore Appalti e Contratti della Provincia di Taranto e della determinazione del dirigente del Settore notificata alla ricorrente unitamente a nota di trasmissione del 12.11.2007;
– della predetta nota 12.11.2007 del dirigente del Settore Appalti e Contratti della Provincia di Taranto, del foglio-messaggio telefax 22.10.2007 di trasmissione dei verbali di gara e di comunicazione dell’intervenuta aggiudicazione definitiva e del precedente foglio 15.10.2007 del medesimo Settore Appalti e Contratti;
– di tutti gli atti connessi, presupposti e/o consequenziali,
e per la condanna
dell’Amministrazione al risarcimento dei danni;
B) sul ricorso incidentale, proposto da ELEVANT DI SCARCIGLIA ANTONIO, rappresentata e difesa come sopra,
contro
Provincia di Taranto, rappresentata e difesa come sopra,
e nei confronti di
Consorzio Servizi Ascensori, rappresentato e difeso come sopra,
per l’annullamento
degli stessi atti impugnati con il ricorso principale, nella parte in cui C.S.A. Coop. non è stata esclusa per ulteriori elementi di collegamento societario con Monti Ascensori S.p.A.;
C) sui motivi aggiunti al ricorso principale, notificati in data 10.1.2008 e depositati in data 15 e 23.1.2008, con cui C.S.A. ha impugnato gli stessi atti già impugnati con il ricorso introduttivo, per ulteriori profili, emersi a seguito dell’istruttoria disposta con l’ordinanza n. 1211/2007.

Visto il ricorso con i relativi allegati;
Visti gli atti tutti della causa;
Vista la domanda cautelare proposta unitamente al ricorso principale;
Visto il decreto presidenziale 1.12.2007, n. 1176, recante l’accoglimento della domanda di concessione di misure cautelari inaudita altera parte;
Visto l'atto di costituzione in giudizio della Provincia di Taranto e di Elevant;
Visto il ricorso incidentale;
Vista l’ordinanza istruttoria 15.12.2007, n. 1211, della Sez. II del TAR;
Uditi nella camera di consiglio del 30 gennaio 2008 il relatore, Primo Ref. Tommaso Capitanio, e, per le parti costituite, gli avv. Caggiula, Caricato e Marasco.

Visto il dispositivo di sentenza 2.2.2008, n. 1;

Considerato che nel ricorso principale sono dedotti i seguenti motivi:
– Violazione di legge per violazione e falsa applicazione dell’art. 34 comma 2 D.lgs. 12.4.2006 n. 163. Eccesso di potere per travisamento dei fatti, difetto dei presupposti, contraddittorietà perplessità, illogicità, irrazionalità, ingiustizia manifesta e difetto di trasparenza. Violazione di legge per violazione e falsa applicazione dell’art. 3 n. L. 241/1990 per motivazione insufficiente e contraddittoria.
– Violazione di legge per violazione dell’art. 97 Costituzione, dell’art. 1, comma 1, L. n. 241/1990 e dell’art. 2, comma 1, D.Lgs. n. 163/2006: violazione dei principi di buon andamento, efficienza ed efficacia, di pubblicità, trasparenza e correttezza, nonché della libera concorrenza tra gli operatori. Violazione dell’art. 41 Cost. per violazione del principio della libertà di iniziativa economica. Violazione di legge ed eccesso di potere per violazione degli ulteriori e connessi principi del giusto procedimento, di affidamento dei concorrenti in relazione alla corretta applicazione delle norme regolatrici delle pubbliche gare, di tassatività delle cause di esclusione dalle pubbliche gare, della più ampia possibilità che nelle gare stesse venga riprodotto l’andamento del mercato nonché per violazione del principio del buon andamento dell’amministrazione di cui all’art. 97 Cost.
– Illegittimità derivata. Ulteriore eccesso di potere e violazione di legge per violazione e falsa applicazione dell’art. 3 L. n. 241/1990 per difetto di motivazione e/o per motivazione insufficiente ed apodittica, per contraddittorietà, illogicità, irrazionalità, perplessità ed ingiustizia manifesta e per potere per violazione e falsa applicazione del Disciplinare di gara punto 2. “Procedura di aggiudicazione” penultimo periodo,
mentre il ricorso incidentale è affidato ai seguenti motivi:
– violazione art. 34 D.Lgs. n. 163/2006 in materia di collegamento sostanziale. Violazione dei principi in materia di divieto di partecipazione alle gare in caso di collegamento e/o controllo. Violazione art. 2359 c.c.

Considerato in fatto e ritenuto in diritto quanto segue.
1. Con il ricorso principale e con i successivi motivi aggiunti, C.S.A. Coop. censura il provvedimento con cui l’Amministrazione Provinciale di Taranto l’ha esclusa, unitamente a Monti Ascensori S.p.A., dalla gara per l’affidamento triennale del servizio di manutenzione ordinaria e straordinaria degli impianti ascensori ubicati negli immobili sedi di uffici provinciali, il tutto sul presupposto dell’esistenza di univoci indizi comprovanti una situazione di collegamento societario fra le predette imprese (art. 34, comma 2, del D.Lgs. n. 163/2006). L’Amministrazione ha desunto l’esistenza di tali univoci indizi dai seguenti elementi:
– le predette imprese partecipano entrambe al capitale sociale di C.S.A. International;
– vi è identità soggettiva di due persone che ricoprono incarichi in tutte e tre le predette società (si tratta, precisamente, della sig.ra Corrada Cariani – la quale è presidente del Consiglio di Sorveglianza in Monti Ascensori, revisore dei conti in C.S.A. Coop. e sindaco effettivo del collegio sindacale di C.S.A. International – e del sig. Stefano Macchietti – il quale è presidente del Collegio sindacale in C.S.A. International, e presidente del Consiglio di Sorveglianza in C.S.A. Coop.);
– notevole identità grafica delle dichiarazioni allegate alle rispettive offerte e delle buste contenenti la documentazione prodotta in sede di gara.
C.S.A. (che, all’esito della gara, era risultata aggiudicataria, anche a seguito della verifica dell’anomalia dell’offerta) ha, con il ricorso introduttivo, censurato il citato provvedimento, esponendo che gli indizi dai quali la Provincia ha tratto la convinzione dell’esistenza di una situazione di collegamento sostanziale con Monti Ascensori non appaiono rilevanti, visto che:
– i summenzionati signori Cariani e Macchietti non ricoprono all’interno delle tre società cariche direttive (tali non essendo quelle di presidente/membro del Consiglio di Sorveglianza, o di presidente/membro del Collegio sindacale o di revisore dei conti);
– C.S.A. International non ha partecipazioni azionarie né in Monti né in C.S.A., per cui non vi è intreccio di quote societarie fra tutte e tre le società;
– l’eventuale somiglianza grafica di una parte della documentazione allegata alle offerte dipende presumibilmente dal fatto che, anche nel recente passato, Monti e C.S.A. hanno partecipato, in associazione temporanea, ad alcune gare d’appalto, per cui avevano redatto congiuntamente le dichiarazioni da allegare alle offerte, il che può avere indotto gli incaricati delle due imprese a utilizzare i files già utilizzati in passato. In ogni caso, il ribasso praticato dalle due ditte sul prezzo a base d’asta è notevolmente diverso (48,75% C.S.A. e 43,50% Monti), il che dimostrerebbe l’assenza di qualsivoglia contatto preventivo fra le due imprese.
A seguito della costituzione in giudizio della Provincia e degli esiti dell’istruttoria disposta dal TAR, sono stati proposti motivi aggiunti, con cui C.S.A. evidenzia che:
– non sussiste la dedotta somiglianza grafica della documentazione allegata alle rispettive offerte;
– le argomentazioni rassegnate dalla difesa tecnica della Provincia, laddove dovessero intendersi come integrazione postuma della motivazione del provvedimento di esclusione, sono inconferenti, in quanto esse fanno riferimento a situazioni cessate definitivamente prima della data di presentazione delle offerte per la presente gara oppure venute ad esistenza in epoca successiva.
Nel frattempo, la controinteressata Elevant, la quale ha beneficiato dell’esclusione di C.S.A., divenendo aggiudicataria dell’appalto, ha proposto ricorso incidentale, sostenendo che C.S.A. e Monti avrebbero dovuto essere escluse in quanto sussistono ulteriori e più solidi indizi che attestano la sussistenza del collegamento sostanziale, e precisamente:
– C.S.A. International è una controllata di Monti Ascensori, la quale ha stipulato con altri azionisti, fra cui C.S.A. Coop., un patto di sindacato, circostanza questa che rafforza ancora di più il legame esistente fra le due imprese;
– C.S.A. International (che nel 2006 aveva incorporato un’altra società, nata a sua volta da una scissione parziale di C.S.A. Coop.) è collegata a C.S.A. Coop.;
– nel corso del 2007 Monti ha incorporato C.S.A. International;
– nel luglio 2007 C.S.A. Coop. ha ceduto a Monti un ramo di azienda;
– fra Monti e C.S.A. è stata stipulata un cessione di crediti a condizioni che vengono ritenute “fuori mercato”, il che denoterebbe un collegamento particolarmente stretto fra le due imprese;
– Monti vanta nei confronti di C.S.A. un credito di importo tale da configurare un’influenza dominante;
– infine, ad ulteriore dimostrazione del collegamento sostanziale, C.S.A. è azionista di Monti.

2. Premessa la ricostruzione delle argomentazioni addotte dalle parti a sostegno delle rispettive posizioni, il Collegio ritiene fondato, nei limiti che si andranno a precisare, il ricorso principale, mentre il ricorso incidentale (a prescindere dalle eccezioni di inammissibilità formulate da C.S.A. Coop.) va rigettato nel merito.
Poiché il punto centrale della controversia consiste nella verifica circa l’esistenza di una situazione di collegamento sostanziale fra la ricorrente C.S.A. Coop. e Monti Ascensori e poiché la ricorrente incidentale evidenzia ulteriori profili che denoterebbero l’esistenza di tale situazione di collegamento, l’analisi del Tribunale riguarderà nel loro complesso il ricorso principale e quello incidentale.

3. Passando quindi all’esame della questione principale oggetto del giudizio, è utile riepilogare i dati fattuali dai quali la Provincia (in sede di gara) e la controinteressata Elevant (con il ricorso incidentale) desumono l’esistenza della situazione di collegamento sostanziale fra C.S.A. e Monti Ascensori:
– partecipazione di C.S.A. Coop. e di Monti Ascensori al capitale di C.S.A. International (e in misura molto significativa, trattandosi del primo e del secondo azionista);
– identità di due soggetti che ricoprono cariche societarie in C.S.A. Coop., in Monti Ascensori e in C.S.A: International (signori Cariani e Macchietti);
– identità grafica delle offerte e dei plichi contenenti le stesse;
– avvenuta incorporazione di C.S.A. International in Monti Ascensori;
– compimento di operazioni societarie (fusioni, incorporazioni, cessione di rami di azienda, cessione di crediti) che denotano uno stretto collegamento fra le due imprese;
– influenza dominante di Monti Ascensori su C.S.A. in ragione dell’esistenza di crediti di importo rilevante.

3.1. Con riguardo ai dati appena riepilogati, si deve anzitutto precisare che la situazione di collegamento sostanziale, per essere rilevante ai fini dell’applicazione dell’art. 34, comma 2, del D.Lgs. n. 163/2006, deve sussistere alla data di presentazione delle offerte (perché è in quel momento che l’impresa dichiara, fra le altre cose, di non essere collegata ad altre imprese partecipanti alla stessa gara, per cui l’eventuale falsità della dichiarazione rileva ai fini dell’ammissibilità dell’offerta stessa), il che vuol dire che non rilevano circostanze antecedenti (e che siano venute definitivamente meno prima della data dianzi indicata) o sopravvenute.
A quest’ultimo riguardo si può pure ritenere che in alcuni casi una circostanza sopravvenuta possa costituire un serio indizio circa la preesistente situazione di collegamento, ma ciò deve costituire oggetto di prova rigorosa, pena un’indebita restrizione dell’autonomia imprenditoriale degli operatori economici; in effetti, soprattutto nei casi in cui le operazioni di gara si protraggano per un periodo lungo, le vicende sopravvenute che coinvolgono in ipotesi due o più delle imprese partecipanti potrebbero danneggiare le imprese medesime, le quali, al momento della presentazione delle offerte, non avevano in ipotesi alcuna intenzione di violare il divieto di cui all’art. 34, comma 2, ed hanno invece dato vita a fusioni, incorporazioni e quant’altro solo in base a strategie aziendali o per altre ragioni comunque riconducibili alla ordinaria dinamica imprenditoriale (ad esempio, le imprese possono rafforzare la partnership al fine di tentare l’espansione in altri mercati geografici). Non bisogna dimenticare che le imprese che partecipano ad una gara d’appalto operano solitamente nel medesimo mercato di riferimento, per cui non si può escludere che esse intrattengano fra loro costanti contatti di natura commerciale, anche se poi sono avversarie nelle procedure ad evidenza pubblica. Ciò che l’ordinamento vuole evitare è solo l’alterazione del gioco della concorrenza, la quale si ha quando due o più offerte provengono dallo stesso centro decisionale e non anche quando due o più imprese vantano delle partnerships aziendali. Tra l’altro, C.S.A. ha indicato, in sede di dimostrazione dei requisiti di capacità tecnico-economica, di avere svolto numerosi servizi analoghi in a.t.i. con Monti Ascensori, il che non è vietato dall’ordinamento.
In applicazione del criterio metodologico appena esposto, si devono ritenere irrilevanti tutte le questioni sollevate dalla Provincia in sede di difesa tecnica, nonché dalla ricorrente incidentale, che concernono fatti precedenti o successivi alla data di presentazione delle offerte da parte di C.S.A. Coop. e di Monti Ascensori, ed in particolare:
– l’avvenuta incorporazione di C.S.A. Internazional da parte di Monti Ascensori, in quanto si tratta di operazione perfezionata nel luglio 2007 (mentre il progetto di fusione è stato presentato a maggio 2007, ossia in un momento successivo alla data di presentazione delle offerte). In relazione al fatto che già nel mese di febbraio 2007 Monti Ascensori aveva comunicato alla CO.N.SO.B. l’intenzione di avviare i contatti propedeutici alla fusione, si tratta, per quanto detto in precedenza, di circostanza che, da sola, non è sufficiente a dimostrare una situazione di collegamento. Il solo avvio di trattative o contatti con altre imprese non configura alcuna situazione di collegamento sostanziale;
– il fatto che, alla fine del 2007, C.S.A. Coop. risulti azionista di Monti è ugualmente irrilevante, in quanto tale circostanza è proprio la conseguenza dell’avvenuta incorporazione di C.S.A. International da parte di Monti (infatti, visto che C.S.A. Coop. aveva una partecipazione azionaria in C.S.A. International è evidente che, in conseguenza dell’incorporazione, tale partecipazione si è “trasferita” sul capitale sociale dell’incorporante). E poiché si tratta di circostanza sopravvenuta, anch’essa è irrilevante.
Ugualmente irrilevante, ratione temporis, è l’avvenuta cessione di un ramo di azienda da parte di C.S.A. in favore di Monti, in quanto anche tale operazione si è perfezionata nel luglio 2007. In ogni caso, una cessione di ramo d’azienda non è di per sé significativa circa l’esistenza di un collegamento sostanziale.

3.2. Un altro gruppo di indizi da cui Elevant desume il collegamento sostanziale è costituito da vicende attinenti:
(a) al patto di sindacato a cui ha dato vita Monti Ascensori al fine di controllare C.S.A. Internazional (e al quale avrebbe aderito anche C.S.A. Coop.);
(b) alle modalità con cui le predette società sono addivenute ad una cessione di crediti;
(c) all’esistenza di un credito che Monti Ascensori vanta nei confronti di C.S.A., di importo tale da dare luogo ad un’influenza dominante, ai sensi dell’art. 2359, n. 3), c.c.
Al riguardo, si deve rilevare che le descritte operazioni commerciali non possono essere individuate come sintomi del collegamento poiché:
– non è stata fornita alcuna prova circa l’adesione di C.S.A. al patto di sindacato (e, peraltro, tale adesione non proverebbe il collegamento sostanziale, in quanto il patto di sindacato, pratica diffusissima nella prassi delle società di capitali, serve ad assicurare alla “capogruppo” il controllo della società di cui detiene una quota del capitale e non per controllare gli altri soggetti aderenti al patto);
– né è stata provata l’esistenza delle condizioni di particolare favore alle quali la cessione dei crediti è stata stipulata. In effetti, le asserzioni di Elevant per cui nella normalità dei casi la cessione pro soluto viene stipulata al massimo con un controvalore del 50%, mentre nel caso di C.S.A. e Monti il controvalore, imposto da Monti, è pari al 90%, non sono supportate da solidi appigli probatori, non potendosi nemmeno prendere a riferimento le cessioni di crediti operate da amministrazioni pubbliche. In ogni caso, C.S.A. ha chiarito che i crediti ceduti erano di agevole realizzazione, trattandosi di crediti vantati nei confronti di condomini privati per lavori di manutenzione degli impianti ascensori).
Per ciò che attiene alla rilevanza del credito che Monti vanta nei confronti di C.S.A., si deve convenire con la difesa della ricorrente principale nel momento in cui sostiene che l’incidenza percentuale di un debito verso terzi non va parametrato sul capitale sociale, bensì sul fatturato; nel caso di specie, applicando questo criterio, si ha che il debito di cui trattasi incide sul fatturato della società per l’irrilevante percentuale dell’1,117%, ed è tale quindi da non porre Monti in posizione dominante rispetto a C.S.A.
Pertanto, in parte qua il ricorso incidentale è infondato.

3.3. Di conseguenza, l’analisi deve concentrarsi sugli elementi che hanno condotto la Provincia a decretare, in sede di gara, l’esclusione di C.S.A. e di Monti Ascensori (si deve per inciso rilevare che quest’ultima impresa è stata sorteggiata ai fini della verifica circa il possesso dei requisiti previsti dal bando ai fini dell’ammissione e che tale verifica aveva dato esito positivo).
Partendo dagli aspetti relativi agli indizi documentali da cui è stata desunta la situazione di collegamento sostanziale, l’istruttoria disposta dal TAR ha fornito un esito abbastanza sorprendente, tenuto conto di ciò che si verifica normalmente in situazioni del genere. In effetti, dall’esame della documentazione versata in atti dalla Provincia risulta che le offerte di C.S.A. e di Monti Ascensori presentano pochi elementi di somiglianza grafica, vale a dire le offerte economiche (che sono redatte effettivamente con lo stesso carattere di stampa, ma che sono poi abbastanza diverse nel contenuto) e le dichiarazioni ad essa allegate (rispetto alle quali, però, la ricorrente principale asserisce che l’identità dei caratteri dipende dal fatto che entrambe le ditte hanno utilizzato i moduli predisposti dalla stazione appaltante). Sono invece del tutto diversi:
– le polizze assicurative costituenti i depositi cauzionali provvisori (stipulate con compagnie diverse e in date diverse);
– i bollettini attestanti il versamento del contributo a favore dell’Autorità di Vigilanza (i versamenti sono stati effettuati in giorni diversi e non nello stesso ufficio postale);
– le buste contenenti i documenti.
Pertanto, sotto questo profilo l’operato della stazione appaltante risulta non essere sorretto da quegli indizi che, normalmente, si riscontrano in casi del genere (identità dei plichi, delle polizze fideiussorie, dei bollettini di versamento del contributo, e così via) e sui quali si è formata la giurisprudenza che è stata richiamata negli atti difensivi della ricorrente principale e della ricorrente incidentale (ciascuna, ovviamente, pro domo sua).

3.4. Molto più rilevanti, almeno all’apparenza, sono invece gli altri indizi posti a base del provvedimento di esclusione censurato da C.S.A. (il che, come si dirà infra, rileva ai fini della delibazione della domanda risarcitoria), ma anche essi non possono essere ritenuti decisivi ai fini della prova dell’esistenza del collegamento sostanziale.
In effetti, come si è anticipato, la stazione appaltante ha attribuito rilievo dirimente alla duplice circostanza che:
– C.S.A. Coop. e Monti Ascensori possedevano, alla data di presentazione delle offerte, una partecipazione azionaria in C.S.A. International;
– vi è comunanza, nell’ambito delle tre imprese, di alcuni titolari di cariche sociali.
Al riguardo, si deve osservare che:
– l’art. 34, comma 2, del D.Lgs. n. 163/2006, codificando quelle che erano state le risultanze dei prevalenti orientamenti giurisprudenziali, stabilisce che vi è collegamento sostanziale quando, in base ad univoci elementi, risulti che le offerte provengono da un unico centro decisionale, il che significa che è necessario individuare quale sia il centro decisionale unitario. Di solito, si tratta di una persona fisica che, ad esempio, è amministratore unico di una società e, anche per interposta persona, socio (o direttore tecnico) di un’altra, oppure di un gruppo di soggetti che svolge funzioni dirigenziali in tutte le varie imprese collegate, oppure ancora di imprese che hanno in comune la sede legale e/o operativa, e così via.
Ma quando la presunta comunanza riguarda partecipazioni azionarie in società terze e non via sia una situazione di reciprocità (nel senso che anche l’impresa terza detiene partecipazioni nelle altre imprese, di modo che si abbia un intreccio di quote azionarie) non può dirsi che via sia un unico centro decisionale. In effetti, il punto debole della tesi della Provincia sta proprio nel fatto che, essendo indiscutibile che né C.S.A. International né Monti Ascensori avevano (alla data di presentazione delle offerte) una partecipazione azionaria in C.S.A. Coop., non si riesce ad individuare quale sia il centro decisionale unitario da cui promanerebbero le offerte escluse dalla presente gara (va precisato che Monti Ascensori ha dismesso la partecipazione azionaria in C.S.A. nel corso del 2006, mentre, come si è detto al precedente punto 3.1., C.S.A. è divenuta azionista di Monti solo nel luglio 2007). E questo costituisce una violazione del precetto normativo;
– per quanto concerne, invece, l’altra questione, si deve rilevare che i soggetti sui quali la Provincia ha appuntato le proprie attenzioni non ricoprono, in nessuna delle tre società, cariche direttive, né è stato provato (ma del resto neanche dedotto) che i signori Cariani e Macchietti svolgono di fatto compiti operativi. Sul punto, non si può che rinviare alle esaustive argomentazioni difensive rassegnate da C.S.A. Coop. in merito ai modelli di direzione societaria previsti dal codice civile a seguito della riforma di cui ai decreti legislativi nn. 5 e 6 del 2003 (vedasi pagine 11-15 del ricorso introduttivo). In qualunque dei tre modelli attualmente previsti dal codice civile, le cariche rivestite dai signori Cariani e Macchietti non implicano la spendita del potere gestionale dell’impresa. Tra l’altro, i signori Cariani e Macchietti sono liberi professionisti, iscritti ai rispettivi Albi professionali, e non dipendenti di C.S.A. o di Monti, per cui è lecito inferire che, sino a prova contraria, i predetti professionisti ricoprono le numerose cariche societarie di cui si è detto solo in ragione della loro competenza tecnica.

Da tutto quanto esposto discende l’illegittimità dell’esclusione di C.S.A. Coop. e il conseguente accoglimento del ricorso principale, per quanto concerne l’azione impugnatoria. Il ricorso incidentale va invece rigettato.

4. Si deve a questo punto passare all’esame della domanda risarcitoria, con cui C.S.A. chiede in prima battuta la declaratoria del suo diritto all’aggiudicazione ed alla stipula del contratto, per la durata inizialmente fissata dal bando (risarcimento in forma specifica), e, in via subordinata, il ristoro del danno ingiusto cagionato dal provvedimento di esclusione, limitatamente alla parte del servizio che fosse stata già svolta da Elevant e che non fosse recuperabile a seguito del subentro di essa ricorrente principale.
L’esame della domanda risarcitoria presuppone tuttavia un preambolo, che si rende necessario in relazione al recente arresto delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (ordinanza 27.12.2007, n. 27169, nella quale, come è noto, la Suprema Corte ha stabilito che il giudice amministrativo non può pronunciarsi sulla sorte del contratto stipulato a seguito di aggiudicazione che venga poi impugnata ed annullata dallo stesso g.a., e ciò in quanto trattasi di questione afferente una fase privatistica, id est concernente diritti soggettivi).
Ora, premesso che non è certo questa la sede ideale per disquisire sul fondamento teorico di tali asserzioni, si deve rilevare che le conclusioni a cui sono pervenute le SS.UU. non sembrano tenere conto del fatto che il D.Lgs. n. 80/1998 prima e la L. n. 205/2000 poi hanno attribuito al giudice amministrativo il potere (riconosciuto costituzionalmente legittimo dalla Corte Costituzionale – sentenze nn. 204 del 2004 e 191 del 2006) di attribuire al ricorrente vittorioso la reintegrazione in forma specifica.
In materia di appalti, la reintegrazione in forma specifica equivale alla declaratoria di spettanza dell’aggiudicazione, che però il giudice amministrativo non potrebbe pronunciare se, nelle more del giudizio, è stato stipulato il contratto con un altro concorrente (che non ne aveva diritto a causa dell’illegittimità dell’aggiudicazione). Questo perché, ovviamente, fino a che rimane in vita il contratto, l’avente diritto non potrebbe subentrare nell’appalto, visto che la posizione dell’aggiudicatario illegittimo poggerebbe su un negozio giuridico valido ed efficace e che non ci possono essere contemporaneamente due soggetti chiamati ad eseguire lo stesso appalto. E’ solo questa la ragione per la quale, dopo l’entrata in vigore del D.Lgs. n. 80/1998, il giudice amministrativo ha preso ad occuparsi della sorte del contratto stipulato a seguito di gara successivamente annullata, e non perché dubitasse del fatto che con la stipula del contratto si apre una fase privatistica.
Pertanto, fermo restando che il contratto stipulato a seguito di procedura ad evidenza pubblica può essere impugnato di fronte al giudice civile anche successivamente alla scadenza del termine decadenziale previsto per l’impugnazione degli atti di gara (configurandosi un’ipotesi di doppia tutela, non infrequente nel nostro ordinamento), sia deducendone la nullità o l’annullabilità in base ai canoni civilistici, sia deducendone la caducazione per vizi afferenti la fase dell’evidenza pubblica, se (e solo se) nell’ambito del giudizio impugnatorio promosso per contestare gli atti di gara viene proposta la domanda di reintegrazione in forma specifica, il giudice amministrativo, laddove ritenga accoglibile tale domanda, deve necessariamente pronunciarsi sul contratto stipulato nelle more.
4.1. Passando quindi all’esame della domanda risarcitoria per equivalente, il Collegio, tenuto conto della difficoltà insita naturalmente negli accertamenti e nelle valutazioni che la stazione appaltante deve compiere ai fini dell’applicazione dell’art. 34, comma 2, del D.Lgs. n. 163/2006, ritiene sicuramente scusabile l’errore in cui è incorsa la Provincia nel momento in cui ha escluso C.S.A. Coop. Senza con questo voler asserire che i provvedimenti di esclusione per accertata situazione di collegamento sostanziale sono da ritenere di per sé “scusabili” ai fini della sussistenza di profili di responsabilità civile della stazione appaltante, è evidente che, specie in casi come quello all’esame del Tribunale, l’apprezzamento di circostanza fattuali (le quali, ovviamente, debbono essere invece accertate nella loro oggettività) che possono denotare l’esistenza di un collegamento sostanziale appartiene ad una sfera di discrezionalità insidndacabile anche ai fini dell’accertamento della c.d. colpa d’apparato.
Pertanto, non sussistendo l’elemento soggettivo dell’illecito civile che la ricorrente attribuisce alla Provincia, in parte qua il ricorso principale va respinto.
4.2. La domanda di reintegrazione in forma specifica va invece accolta, con conseguente declaratoria del diritto di C.S.A. ad essere proclamata aggiudicataria dell’appalto ed a stipulare il contratto con l’Amministrazione resistente.
Il contratto eventualmente stipulato nelle more con Elevant è invece da dichiarare caducato, ai sensi dell’art. 246, comma 4, del D.Lgs. n. 163/2006.
Con riferimento a quanto appena detto, è necessaria una precisazione, in quanto, muovendo da un’ottica meramente civilistica, potrebbe apparire strano che, in presenza di una vicenda unitaria, la domanda risarcitoria trovi accoglimento solo in forma specifica e non anche per equivalente: infatti, trattandosi in entrambi i casi di una vicenda risarcitoria, si dovrebbe concludere che il Tribunale ritiene assente la colpa della P.A. ai fini della domanda ex art. 2043 c.c. e la ritiene invece sussistente ai fini della domanda proposta ex art. 2058 c.c., con ciò incorrendo in una palese contraddizione.
In realtà, si deve considerare che, pur costituendo il diritto civile la base da cui prende le mosse ogni ricostruzione di istituti che, dal diritto dei privati, vengono “trapiantati” in altri rami dell’ordinamento, è necessario tenere conto delle peculiarità dei singoli settori che costituiscono, nel loro insieme, l’ordinamento.
A giudizio del Tribunale, la reintegrazione in forma specifica di cui parlano le leggi amministrative non coincide in pieno con l’istituto disciplinato dall’art. 2058 c.c.; ed in effetti, la coincidenza si ha nelle vicende afferenti gli interessi legittimi c.d. oppositivi, ed in particolare nei giudizi che hanno ad oggetto procedure ablatorie. In questi casi, alla pronuncia di annullamento dell’atto ablatorio il giudice può far seguire, ove ne sia richiesto e ove ciò sia possibile materialmente, la condanna della P.A. a reintegrare in forma specifica la posizione del ricorrente (ad esempio, restituendo il suolo illegittimamente occupato e/o demolendo a proprie spese l’opera pubblica sullo stesso illegittimamente realizzata, ecc.).
Nel caso degli interessi pretensivi, invece, la reintegrazione in forma specifica deve essere vista come un ulteriore strumento di tutela dell’interesse del ricorrente, il quale può chiedere al giudice di pronunciarsi sulla spettanza del bene della vita controverso. In questo senso, si può anche parlare di effetto conseguente alla sentenza di annullamento, volendo con ciò intendere che, laddove la decisione sulla domanda impugnatoria affronti tutti i profili, sia formali che sostanziali, della vicenda controversa, si esplica nella sua massima forza il c.d. effetto conformativo della sentenza, dal che discende, in pratica, il riconocimento del diritto del ricorrente a conseguire il bene della vita (riconoscimento che, in caso di “resistenze” della P.A. troverà poi piena soddisfazione in sede di ottemperanza al giudicato).
Intesa la reintegrazione in forma specifica nel senso che si è appena cercato di spiegare, non c’è alcuna contraddizione logica fra accoglimento della domanda di reintegrazione in forma specifica e reiezione della domanda risarcitoria per equivalente.

5. In conclusione, il ricorso principale va accolto in parte, mentre il ricorso incidentale va rigettato.
Sussistono tuttavia giusti motivi per disporre la compensazione delle spese di giudizio fra le parti.

Sentiti i difensori delle parti costituite in ordine alla possibilità di definire nel merito il presente giudizio con sentenza in forma semplificata, ai sensi degli artt. 3 e 9 della L. 21.7.2000, n. 205.
P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia – Terza Sezione di Lecce – accoglie in parte il ricorso principale e respinge il ricorso incidentale.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità Amministrativa.
Così deciso in Lecce, in camera di consiglio, il 30 gennaio 2008 e il 31 gennaio 2008.
Dott. Antonio Cavallari - Presidente
Dott. Tommaso Capitanio – Estensore
Pubblicato mediante deposito
in Segreteria il 19.2.2008