lunedì 29 settembre 2008

CORTE DI CASSAZIONE SEZ. I CIVILE - sentenza 5 settembre 2008 n. 22399


SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto notificato in data 22.11.1995 V. e S.S. convenivano avanti al Tribunale di Brindisi l'Impresa A. S., chiedendone la condanna al risarcimento dei danni in relazione all'occupazione su un terreno di loro proprietà di circa mq. 300 avvenuta in forza del decreto prefettizio del 5.7.1989 per la realizzazione di un'opera pubblica per conto dell'ANAS. Si costituiva il convenuto, eccependo pregiudizialmente l'incompetenza del Tribunale sul rilievo che il decreto di esproprio era stato pronunciato tempestivamente in quanto l'occupazione era stata prorogata in un primo tempo dal decreto del Ministero dei Lavori Pubblici n. 3504 del 5.3.1991 e successivamente con L. 20 maggio 1991, n. 158 con la conseguente competenza della Corte d'Appello in ordine alla determinazione della relativa indennità.
Dopo l'espletamento della consulenza tecnica d'ufficio il Tribunale con sentenza in data 1.10.1999 accoglieva la domanda attribuendo agli attori la somma di L. 16.000.000 a titolo di risarcimento danni per occupazione appropriativa, ritenendo che le due proroghe, di giorni 1440 concessa dal decreto ministeriale e quella di due anni prevista da detta legge, non fossero cumulabili, con la conseguenza che, essendo scaduta la prima nel Marzo 1995, il decreto di esproprio era inutilmente intervenuto nell'Agosto 1995 quando ormai era intervenuta l'acquisizione del terreno all'Amministrazione.
Proponeva impugnazione l' A..
Si costituivano le controparti che proponevano appello incidentale.
Con sentenza non definitiva del 6.7.2001 - 11.1.2002 la Corte d'Appello di Lecce rigettava il primo motivo dell'appello principale, riguardante la tempestività del decreto di esproprio, sul rilievo della sopravvenuta inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità all'atto dell'emissione del decreto di esproprio (24.8.1995). Al riguardo precisava che con il D.M. 5 marzo 1991 erano stati prorogati i termini finali della pubblica utilità dell'opera che erano scaduti il 13.2.1995, vale a dire precedentemente all'emissione del decreto di esproprio, mentre con la L. 20 maggio 1991, n. 158 (art. 22) era stato prorogato di due anni il termine per l'occupazione che era così scaduto il 29.8.1993 e cioè sempre precedentemente al decreto di esproprio. Rilevata inoltre la necessità di disporre una nuova C.T.U., rigettava il profilo dell'appello incidentale relativo al mancato risarcimento del danno conseguente alla riduzione del valore della parte residua del terreno in quanto proposto per la prima volta in sede di gravame.
Rimessi gli atti in istruttoria e disposta la rinnovazione della C.T.U., la Corte d'Appello con sentenza definitiva del 2.7 - 16.9.2004 rigettava anche il secondo motivo dell'appello principale riguardante l'entità del risarcimento.
Dopo aver richiamato la C.T.U alla quale riteneva di aderire, osservava la Corte di merito che trattasi di un terreno di mq. 212 classificato dallo strumento urbanistico come "Zona (omissis) - Agricola Costiera", inserita in un contesto (località (omissis) del Comune di (omissis)) altamente urbanizzato per la presenza di numerose costruzioni di natura abitativa estivo - balneare, fornito di una cospicua rete viaria ed ubucato a breve distanza da centri turistici di livello nazionale ed internazionale. Condivideva quindi il valore di mercato di L. 15.900.000 (in ragione di L. 75.000 al mq.) indicato dal C.T.U, come pure i danni conseguenti all'eliminazione dei manufatti determinati in L. 3.587.000 e così complessivamente in L. 19.487.000, vale a dire in misura superiore a quello riconosciuto dal primo giudice che però manteneva fermo in mancanza di appello sul punto da parte dei S.. Riconosceva infine il danno da svalutazione monetaria, trattandosi di debito di valore.
Avverso entrambe le sentenze propone ricorso per Cassazione A. S., deducendo tre motivi di censura.
Resistono con controricorso, illustrato anche con memoria, V. e S.S..

MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso A.S. denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 158 del 1991, art. 22, dell'art. 132 c.p.c., n. 4, e dell'art. 118 disp. att. c.p.c., nonché omessa, insufficiente e perplessa motivazione. Deduce che erroneamente la Corte d'Appello ha ritenuto tardiva l'emissione del decreto di esproprio tenuto conto che il decreto di occupazione previsto per la durata di anni due scadeva il 29.8.1991, che prima di tale scadenza, in data 5.3.1991, era intervenuto il decreto del Ministero LL.PP. che aveva fissato i nuovi termini per l'inizio dei lavori e l'ultimazione delle espropriazioni rispettivamente in giorni 1.080 e 1440 con decorrenza dalla data del decreto medesimo con conseguente proroga dell'occupazione fino alla data del 13.2.1995, che in pendenza dell'occupazione interveniva la L. 20 maggio 1991, n. 158 la quale all'art. 22 disponeva, per le occupazioni in corso alla data di entrata in vigore della stessa legge, la proroga di ulteriori due anni, portando così il nuovo termine di occupazione fino al 14.2.1997, vale a dire in data successiva al decreto di esproprio intervenuto il 24.8.1995. Sostiene che non poteva essere condivisa la statuizione resa al riguardo dalla Corte di merito la quale ha ritenuto che nessuna proroga la occupazione aveva subito per effetto del decreto ministeriale ma solo quella di due anni prevista dalla L. n. 158 del 1991 con scadenza quindi al 29.8.1993 in quanto con il suddetto decreto ministeriale sarebbero stati prorogati i diversi termini di efficacia della dichiarazione di pubblica utilità.
Con il terzo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 1224 c.c.. Sostiene che, trattandosi di somma dovuta a titolo di indennità, il debito deve ritenersi di valuta, con la conseguenza che devono essere riconosciuti solo gli interessi, senza peraltro il riconoscimento del maggior danno di cui all'art. 1224 c.c. in mancanza di una prova al riguardo.
Va premesso che le recenti sentenze della Corte Costituzionale nn.348 e 349 del 207 - in base alle quali sia l'indennità di esproprio di cui alla L. n. 359 del 1992, art. 5 bis, commi 1 e 2, che il risarcimento del danno di cui al successivo comma 7 bis sono stati sostanzialmente commisurati al valore venale del bene oblato - nonchè la L. n. 244 del 1977, art. 2, commi 89 e 90 - che hanno ancorato espressamente la determinazione sia dell'indennità che del risarcimento al valore venale del bene e previsto l'applicazione di tali norme a tutti i procedimenti espropriativi in corso "nei quali tale determinazione non sia divenuta irrevocabile" - rendono sostanzialmente irrilevante ai fini della determinazione dell'importo dovuto la soluzione della questione prospettata la quale incide in tal modo unicamente sulla natura del debito, da considerarsi di valuta o di valore a seconda che il procedimento si sia svolto con l'osservanza delle disposizioni in materia od in violazione di esse e, di conseguenza, sugli accessori.
Orbene, ferma restando l'esposta premessa, entrambi i motivi sopra esposti, da esaminarsi congiuntamente, sono infondati.
Il ricorrente, nel riproporre in questa sede la tesi della cumulabilità della proroga del termine disposta con il decreto del Ministero dei Lavori Pubblici del 5.3.1991 con la proroga prevista dalla L. 20 maggio 1991, n. 158, art. 22 persiste, nonostante la chiara esposizione sul punto contenuta nella sentenza non definitiva della Corte d'Appello, nel non considerare su piani distinti detti termini, destinati ad assolvere una diversa funzione nell'ambito dello stesso procedimento espropriativo.
Come risulta infatti da detta sentenza, con il decreto ministeriale "furono prorogati i termini finali di pubblica utilità". Trattasi cioè dei termini per il compimento dei lavori e delle espropriazioni richiesti della L. n. 2359 del 1865, art. 13 ai fini della giuridica esistenza e validità della dichiarazione di pubblica utilità, in osservanza del principio generale contenuto nell'art. 42 Cost. in base al quale la espropriazione della proprietà privata può essere giustificata solo in relazione ad interessi generali concreti ed attuali e non già per esigenze future ed ipotetiche (Sez. Un. 460/99; Cass. 11351/98; Cass. 1907/97), con la conseguenza che il loro inutile decorso, comportando la cessazione della programmata destinazione del bene all'interesse generale, determina l'inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità ed il venir meno del potere di espropriazione su quel bene.
Con la L. 20 maggio 1991, n. 158, art. 22, invece è stato prorogato di ulteriori due anni il termine di occupazione inizialmente fissato in anni due, come risulta chiaramente dalla lettera della norma che fa espresso riferimento dalla L. n. 865 del 1971, art. 20.
Con l'occupazione temporanea infatti - che da vicenda eventuale ed eccezionale secondo la previsione della L. n. 2359 del 1865, art. 71, è divenuta sempre più una fase comune ed ordinaria del procedimento espropriativo anticipando nel tempo gli effetti del decreto di esproprio - viene consentita l'apprensione del bene per l'inizio dei lavori ed il completamento delle procedure per un periodo rimesso al potere discrezionale della Amministrazione espropriante entro il limite massimo di cinque anni fissato dalla citata L. n. 865 del 1971, art. 20, salva la previsione di proroghe, come è avvenuto nel caso in esame.
Da tale diversa funzione discendono la non cumulabilità delle due proroghe e l'inutile decorso di entrambi i termini (quello relativo all'occupazione scaduto il 29.8.1993 e quello di efficacia della dichiarazione di pubblica utilità scaduto il 13.2.1995) in quanto scaduti precedentemente all'emissione del decreto di esproprio (avvenuto il 24.8.1995), come accertato dalla Corte d'Appello.
Correttamente pertanto la sentenza non definitiva impugnata in questa sede ha ritenuto che si vertesse nell'ambito dell'istituto della occupazione usurpativa e, conseguentemente, di un fatto illecito della P.A. produttivo di danno che va risarcito.
Le esposte considerazioni comportano il rigetto anche del terzo motivo, essendosi in presenza, come si è già detto, di un debito di valore, con conseguente riconoscimento degli interessi e della rivalutazione monetaria.
Con il secondo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. e della L. n. 359 del 1992, art. 5 bis e L. n. 865 del 1971, art. 16, nonché erronea e contraddittoria motivazione. Lamenta che il terreno in questione, pur essendo qualificato come Agricolo - Costiera con indice di fabbricabilità 0,01 mc/mq con altezza massima delle costruzioni di m. 4,00 e ad una distanza dalla strada di tipi B di m. 15,00 e quindi con vincolo di inedificabilità direttamente previsto dalla legge (artt. 16 C.d.S. e 26 relativo Reg.) e pur essendo stato ritenuto agricolo anche dalla sentenza non definitiva, sia stato poi considerato dalla Corte d'Appello con la sentenza definitiva, in adesione alla C.T.U., come edificabile di fatto in considerazione della rilevante edificazione avvenuta nella zona anche in violazione dei vincoli legali e dello strumento urbanistico, determinando così il valore all'epoca del terreno in L. 75.000 al mq..
La censura è fondata.
Con la sentenza definitiva la Corte d'Appello, dopo aver accertato che il terreno in questione è compreso in una zona classificata dallo strumento urbanistico come "Zona (omissis) - Agricola - Costiera", ha ritenuto decisivo, nell'effettuare la stima, che esso è inserito in un contesto "altamente urbanizzato per la presenza di numerose costruzioni di natura abitativa (nella massima parte ad utilizzazione estivo - balneare) e di una cospicua rete viaria.
Ora, una tale motivazione evoca all'evidenza la figura della edificabilità di fatto abbandonata ormai dalla unanime giurisprudenza la quale, nei Comuni provvisti, come quello in esame, dello strumento urbanistico, attribuisce rilievo unicamente all'edificabilità legale a seguito dell'entrata in vigore della L. n. 359 del 1992, art. 5 bis non travolto sul punto dalle recenti sentenze nn. 348 e 349 del 2007 della Corte Costituzionale, con la conseguenza che un'area va ritenuta edificabile per il solo fatto che essa risulti tale in base alle previsioni urbanistiche, indipendentemente da ogni valutazione circa l'edificabilità di fatto la quale incide, nell'ambito dell'edificabilità legale, solo quale causa di riduzione o di esclusione delle possibilità effettive di edificazione e, conseguentemente, nella determinazione del valore di mercato.
Peraltro, anche nell'ipotesi di edificabilità legale, qualora, come sostiene il ricorrente, il terreno in questione fosse posto a confine con la strada statale (SS (omissis)) di tipo B, sarebbe stato necessario considerare anche i limiti legali previsti al riguardo, vale a dire la distanza da osservarsi nell'edificazione dal ciglio della strada - distanza che in base al D.M. 1 aprile 1968, art. 4 e del D.P.R. n. 495 del 1992, art. 26 (Regol. al C.d.S.) è in tal caso di m. 40,00 - e, di conseguenza, valutare anche sotto tale profilo la possibilità di edificazione della parte residua.
Nè ha tenuto conto la sentenza definitiva che la precedente sentenza non definitiva, sia pure senza il dovuto approfondimento attraverso il necessario riferimento allo strumento urbanistico, aveva già ritenuto agricolo nell'ambito della sua motivazione (pag. 6) il terreno in questione. Pertanto, anche se non si voglia considerare che vi sia stata al riguardo una statuizione vincolante per la stessa Corte d'Appello in sede di decisione definitiva, la stessa non avrebbe dovuto comunque ignorare una tale affermazione, sia pure per rilevare che trattavasi di un "obiter" nel convincimento che la relativa questione era stata demandata, unitamente alla determinazione del "quantum", alla decisione definitiva.
La sentenza definitiva deve essere pertanto cassata ed il giudice di rinvio - che si individua nella stessa Corte d'Appello di Lecce e che provvedere anche alle spese del presente giudizio di legittimità - dovrà accertare la natura del terreno ablato unicamente sulla base dello strumento urbanistico vigente con riferimento all'epoca della cessazione del decreto di occupazione (29.8.1993), se successivo alla irreversibile trasformazione del terreno ed, in caso contrario, dalla data di tale trasformazione, tenendo presente il valore di mercato che, nell'ipotesi si tratti di terreno agricolo e comunque non classificabile come edificabile, deve ancorarsi al valore tabellare delle colture, come prevede la L. n. 865 del 1981, art. 5 bis, comma 4, Titolo II che rinvia a tal fine.

P.Q.M.
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE Rigetta il primo ed il terzo motivo. Accoglie il secondo. Cassa la sentenza definitiva impugnata e rinvia, anche per le spese alla Corte d'Appello di Lecce in diversa composizione.
Così deciso in Roma, il 17 aprile 2008.
Depositata in Cancelleria il 5 settembre 2008.

CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. UNITE CIVILI - sentenza 11 settembre 2008 n. 23385

CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. UNITE CIVILI - sentenza 11 settembre 2008 n. 23385 - Pres. Carbone, Est. Salvago - Comune di Acireale c. Consorzio Ravennate delle Cooperative di Produzione e Lavoro e altri - (cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di appello di Catania, in diversa composizione).

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. Il Tribunale di Catania con sentenza del 31 marzo 2000 condannava il comune di Acireale al pagamento in favore del Consorzio Ravennate delle Cooperative di produzione e lavoro, quale capogruppo mandatario del R.T.l. costituito con la Soc. Cooperativa Ravennate Costruttori - C.R.C., a r.l., a titolo di arricchimento senza causa, la complessiva somma di L. 992.363.470, corrispondente alla differenza tra quanto il Comune,con delibera di Giunta 22 marzo 1989 n. 505, aveva riconosciuto a titolo di indennizzo (L. 2.962.621.111) ed il valore effettivo delle opere realizzate nell'ambito di un contratto di appalto, annullato dal Consiglio di giustizia amministrativa della Regione siciliana quando i lavori erano stati parzialmente eseguiti e positivamente collaudati in data 14 aprile 1991.
In accoglimento dell'appello incidentale del Consorzio, la Corte di appello di Catania con sentenza del 21 febbraio 2003,dopo aver confermato la giurisdizione del giudice ordinario, ha elevato l'importo dell'indennizzo ad € 571.136,00, e respinto l'appello principale del comune. Ha osservato al riguardo,per quanto ancora qui interessa:
1) l'ammontare dell'indennizzo non può essere limitato con riferimento al corrispettivo contrattualmente determinato ed al relativo impegno di spesa, trattandosi di obbligazione rispetto alla quale non rileva il titolo negoziale annullato e la pubblica amministrazione si trova nella stessa situazione di un privato;
2) l'indennizzo deve tenere conto, nella determinazione del costo delle opere, sia del loro valore effettivo sia del mancato guadagno dell'impresa; pertanto, indipendentemente dalla sussistenza dei relativi presupposti (domanda dell'appaltatore e delibera dell'ente pubblico), poteva farsi ricorso alla procedura revisionale, le cui risultanze non erano state specificamente contestate, come criterio per accertare l'effettiva entità della diminuzione patrimoniale subita dal Consorzio;
3) la stazione appaltante è altresì tenuta al pagamento dell'IVA (£. 124.881.139) sull'importo corrisposto in quanto a seguito del riconoscimento dell'utilità delle opere, queste erano state acquisite dal Comune di Acireale e si era, quindi, verificato uno spostamento patrimoniale ricadente nella generica nozione di cessione di beni a titolo oneroso, compiuta nell'esercizio di impresa, assoggettabile ad IVA.
Per la cassazione della sentenza l'amministrazione comunale ha proposto ricorso per 4 motivi, cui resiste il Consorzio ravennate con controricorso illustrato da memoria.
La 1° sezione della Corte, con ordinanza interlocutoria 19944 del 26 settembre 2007, ha trasmesso la controversia al Primo presidente per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, rilevando che sussiste un contrasto nelle sezioni semplici circa i criteri di calcolo dell'indennizzo ex art. 2041 cod.civ.; e considerando di particolare importanza la questione della utilizzabilità della revisione prezzi quale criterio per la determinazione del valore dell'indennizzo al momento del verificarsi dell'arricchimento.
MOTIVI DELLA DECISIONE
2. Con il primo motivo del ricorso,il Comune, deducendo violazione dell'art. 2041 cod. civ. e vizi di motivazione, addebita alla sentenza impugnata di avere erroneamente attribuito alla controparte una somma superiore a quella contrattualmente dovuta; di avere applicato la revisione prezzi calcolata dal direttore dei lavori, malgrado la stessa fosse stata immediatamente contestata dall'amministrazione con il richiamo dei, criteri dettati dall'art. 2041 cod. civ.: peraltro a partire dal 29 ottobre 1986, data della gara d'appalto, e perciò da epoca addirittura anteriore alla sottoscrizione del contratto, e di avere ritenuto irrilevante il regolamento contrattuale che, invece, doveva rappresentare l'indice di riferimento al fine di stabilire non l'impoverimento, ma l'arricchimento delle parti; di avere, infine, ricompreso nell'impoverimento il lucro cessante, operando una sorta di restitutio in integrum, mentre l'arricchimento, nella disciplina dell'art. 2041 cod. civ. non rappresenta il quantum della pretesa dell'impoverito, ma il suo limite massimo, nel senso che l'indennità dovuta dell'arricchito trova un secondo punto di riferimento nell'ammontare del danno.
Con il secondo motivo, deduce la violazione dell'art. 2041 cod. civ. ed il vizio di motivazione, lamentando che la Corte territoriale, abbia dapprima affermato l'inesistenza di un contratto di appalto,e,poi, contraddittoriamente l'esistenza di una cessione a titolo oneroso, che invece era da escludere poiché il diritto all'indennità nasce da uno spostamento patrimoniale privo di una causa che lo giustifichi; che l’IVA comunque non era dovuta sull'importo revisionale, punto sul quale la sentenza aveva contraddittoriamente taciuto; e che in ogni caso era ingiustificata la condanna alla rivalutazione di una somma, quella relativa all'IVA, che il Consorzio non risultava avere versato.
Con il terzo motivo, deducendo violazione dell'art. 2041 cod. civ., dell'art. 103 del regolamento n. 350/1895, della L. n. 2248 del 1965, art. 344 e ss. del D.Lgs. n. 1501 del 1947, art. 1, si duole che la Corte territoriale abbia ritenuto ammissibile l'azione di arricchimento senza causa nei confronti di un comune, malgrado non si possa dare luogo a spese pubbliche se non in conformità a deliberazioni degli organi competenti, sottoposte al controllo di legge; ed abbia riconosciuto al Consorzio una revisione prezzi, che invece è espressione di un potere discrezionale dell'Amministrazione.
Con il quarto motivo, deducendo violazione dell'art. 33 legge 41 del 1986, art. 33, censura nuovamente la sentenza impugnata per avere riconosciuto il diritto ad un compenso revisionale in assenza dei presupposti di legge.
3. Il ricorso è fondato.
Fin dalle prime applicazioni dell'art. 2041 cod. civ., che ha introdotto l'azione generale di arricchimento, dottrina e giurisprudenza non ebbero dubbi nel ravvisarne i presupposti: a) nell'arricchimento senza causa di un soggetto; b)nell'ingiustificato depauperamento di un altro; c)nel rapporto di causalità diretta ed immediata tra le due situazioni,di modo che lo spostamento risulti determinato da un unico fatto costitutivo; d) nella sussidiarietà dell'azione (art. 2042 cod. civ.), nel senso che essa può avere ingresso solo quando nessun'altra azione sussista ovvero se questa, pur esistente in astratto, non possa essere esperita per carenza ab origine di taluno dei suoi requisiti.
Si ritenne, poi, del tutto pacifico che l'arricchimento debba consistere in un'effettiva attribuzione patrimoniale: configurabile tuttavia con il conseguimento di qualunque utilità economica, e quindi non soltanto quando vi sia stato un incremento patrimoniale,ma anche se la prestazione eseguita da altri con diminuzione del proprio patrimonio abbia fatto risparmiare una spesa o abbia evitato il verificarsi di una perdita (Cass. 178/1970 e da ultimo, Cass. 10884/2007), ricevendo anche in questi casi un'utilità per la quale, il soggetto beneficiato, ove non avesse potuto disporne,avrebbe dovuto effettuare un esborso o subire una diversa diminuzione patrimoniale.
Mentre, per quanto riguarda la perdita correlativa all'arricchimento altrui, le prime interpretazioni della giurisprudenza, legate alla lettera della norma, considerarono ai fini dell'indennizzo dovuto, soltanto la effettiva diminuzione patrimoniale subita dal depauperato.
La questione acquistò tuttavia rilevanza nel corso degli anni ‘70, allorché la giurisprudenza cominciò ad ammettere la proponibilità dell'azione anche nei confronti della Pubblica Amministrazione ove questa abbia riconosciuto sia pure implicitamente l'utilità derivata dall'opera o dalla prestazione altrui; e ritenne che detto riconoscimento ben potesse risultare per implicito dal fatto che l'ente sia addivenuto alla sua utilizzazione: posto che l'oggetto era costituito quasi sempre da prestazioni di privati in dipendenza di contratti irregolari, nulli o addirittura inesistenti coinvolgenti in genere,appaltatori,fornitori o professionisti. E quindi situazioni caratterizzate dal fatto che l'opera svolta dall'impoverito ha carattere imprenditoriale ovvero professionale ed in ogni caso consiste in un'attività posta in essere abitualmente e professionalmente onde procurarsi un guadagno.
In tale ottica Cass. 14 marzo 1983 n. 1890, affrontando il problema della quantificazione dell'indennizzo dovuto ad un professionista, in relazione all'arricchimento conseguito dalla p.a., pur avvertendo i rischi che comportava la diretta applicazione della tariffa professionale, che di fatto "rendeva priva di conseguenze giuridiche la sanzione di nullità del contratto", questa anzi traducendosi in un vantaggio per il depauperato che conseguiva anche la rivalutazione monetaria, consentì il ricorso alla suddetta tariffa quale mero parametro di indole tecnica: affidandone l'applicazione al prudente apprezzamento del giudice di merito, ed avvertendo che comunque il compenso secondo tariffa rappresenta il limite massimo al quale la determinazione può pervenire.
Subito dopo, Cass. sez. un. 5833/1984 in fattispecie in cui l'amministrazione aveva espressamente riconosciuto con apposito atto il proprio debito per competenze professionali,dichiarò che la stessa fosse obbligata al pagamento di tali competenze, nella misura prevista dalle tariffe; e negli stessi anni Cass. 4275/1983 e 3627/1986 attribuirono a chi abbia venduto merci alla pubblica amministrazione, in base ad un negozio e non possa conseguirne la restituzione per avere l'amministrazione medesima consumato od utilizzato irreversibilmente quelle cose, il diritto di essere indennizzato dalla subita diminuzione patrimoniale, nei limiti in cui l'amministrazione, consumando od utilizzando detti beni, abbia ricevuto ed implicitamente riconosciuto un proprio arricchimento: e, quindi, il diritto di ottenere, in tali limiti, il pagamento di una somma corrispondente al prezzo di mercato dei beni medesimi.
E' stata tuttavia Cass. 12 aprile 1995 n.4192, ad affrontare in termini generali il problema del computo del lucro cessante nella "diminuzione patrimoniale" subita dall'impoverito, ed a risolverlo in senso favorevole all'esecutore della prestazione: che cioè tale formula deve comprendere quanto costui, ove il contratto fosse stato valido, avrebbe percepito a titolo di guadagno per l'espletamento di essa. Pur dando atto, infatti che la disposizione codicistica, se interpretata in senso letterale potrebbe indurre all'esclusione dell'indennizzabilità del mancato guadagno, la pronuncia ne ha ritenuto necessaria un'interpretazione estensiva fondata sulla ratio della norma di evitare che un soggetto ottenga senza causa un incremento patrimoniale a danno di altro soggetto; con la conseguenza che tale incremento non può che essere eliminato avendo riguardo all'intero pregiudizio subito da chi ha effettuato la prestazione priva di causa.
Da qui la regola che l'impoverimento, allorquando riguardi l'appaltatore, deve essere costituito innanzitutto dalle spese affrontate per effettuare la prestazione, senza che possa distinguersi tra valore dei materiali e della mano d'opera impiegate:da quelle generali destinate ad essere ammortizzate con la loro vendita, alle imposte corrisposte in relazione alle forniture effettuate ed ai costi di realizzazione del servizio o di consegna delle merci. E,quindi, da ogni ulteriore pregiudizio economico del soggetto a svantaggio del quale l'accipiens si è arricchito,perciò comprendente anche il profitto dell'appaltatore per utile d'impresa connesso a prestazioni erogate posto che questo è il risultato dell'organizzazione dei fattori della produzione da lui posta in essere.
Questi principi sono stati immediatamente estesi (Cass. 7136/1996) all'indennizzo dovuto ai professionisti "con riguardo alla entità dell'effettiva perdita patrimoniale subita,da accertarsi tenendo a tal fine conto delle spese anticipate per l'esecuzione dell'opera, e del guadagno (mancato) da determinarsi eventualmente anche ex art.1226 cod.civ. che lo stesso avrebbe ricavato dal normale svolgimento dell'attività professionale nel periodo di tempo dedicato all'esecuzione dell'opera di poi utilizzata dall'ente pubblico..."; e le decisioni successive oltre a riportarli quasi testualmente hanno cercato sempre più di liquidare a favore dell'indennizzato una somma in tutto e per tutto corrispondente al corrispettivo contrattualmente previsto,attraverso una valutazione rivolta il più possibile a ricostruire condizioni equivalenti a quelle nelle quali è stata resa la prestazione,nonché ad applicare le tariffe previste per la particolare tipologia di queste. Con il temperamento apportato da Cass.6570/2005, secondo cui il mancato guadagno indennizzabile deve considerarsi soltanto quello che il professionista avrebbe ricavato dal normale svolgimento della sua attività professionale nel periodo di tempo dedicato invece all'esecuzione dell'opera utilizzata dall'ente pubblico: senza la possibilità di far ricorso a parametri contrattuali, stante la carenza di un valido vincolo contrattuale, o di commisurare, "sic et simpliciter", la perdita patrimoniale alla "utilitas" derivatane all'ente sotto il profilo della spesa risparmiata.
4. Si è già anticipato che la prima interpretazione dell'art. 2041 cod.civ. ne aveva invece ricondotto l'utilizzo alla sola eliminazione della diminuzione patrimoniale subita dal soggetto coinvolto, escludendovi la categoria del lucro cessante. Cass.12 luglio 1965 n. 1471, aveva infatti precisato che il mancato guadagno dell'imprenditore esula dall'ambito della mera diminuzione patrimoniale di cui la norma prevede l'indennizzo, nei limiti dell'arricchimento, con la conseguenza di escludere dal suo computo sia le spese generali delll'imprenditore, sia il profitto di questo, nonché la retribuzione dell'opera non consistente nella progettazione e direzione dei lavori: posto che tutte dette voci sono "connesse non con la consistenza materiale dell'opera,ma con l'esecuzione di una prestazione, nei confronti della quale non sussiste obbligo di corrispettivo" .
Questo indirizzo,pur in mancanza di nuove ed espresse conferme negli anni successivi ad eccezione di quella del tutto generica contenuta in Cass. 1992/1969, non è stato mai abbandonato del tutto dalla Corte che ne ha talvolta sotteso la ricorrenza, facendovi implicito riferimento pur nel periodo di maggiore affermazione di quello opposto, per attenuarne gli effetti estensivi: come dimostrano Cass. 6981/1986 secondo cui per la liquidazione dell'indennizzo non rileva l'utilità che l'autore dell'opera o della prestazione mirava a far conseguire o che il destinatario di esse sperava di realizzare, bensì quella che quest'ultimo ha in effetti conseguito, non consistente necessariamente in un conguaglio o in una riduzione delle spese. E Cass. 1753/1987 secondo la quale nel caso dell'elaborazione, a favore di un ente pubblico, di un progetto di opera pubblica non preceduto dal conferimento di un valido incarico professionale, occorre accertare soltanto l'entità della effettiva perdita patrimoniale subita dal professionista: senza possibilità né di fare riferimento a parametri contrattuali,, non utilizzabili stante la nullità dell'incarico, né di equiparare sic et simpliciter detta perdita alla utilitas derivatane al comune sotto il profilo della spesa risparmiata. Mentre secondo Cass. 22667/2004 (e la conforme 20747/2007), nell'ipotesi di arricchimento senza causa per i miglioramenti apportati al fondo altrui l'indennizzo "dev'essere rapportato, nei limiti dell'arricchimento ricevuto dal concedente, all'importo della diminuzione patrimoniale, cioè alle spese sostenute dall'affittuario". E Cass. 21292/2007 ha ulteriormente ridotto la possibilità di ricorso alle tabelle professionali, pur come mero parametro di valutazione,subordinandolo alla prova gravante sul professionista "che le stesse corrispondano, da un lato, al suo impoverimento (e cioè che egli, nel tempo dedicato alla redazione del progetto per conto del Comune, avrebbe potuto esplicare altri incarichi nella stessa misura remunerativi) e, dall'altro, all'arricchimento della p.a. (la quale, se avesse conferito l'incarico secundum legem, avrebbe dovuto pagare, per onorario e rimborso spese, in relazione a quell'importo dei lavori, esattamente la stessa somma indicata nella parcella)".
L'interpretazione restrittiva è stata, invece, nuovamente riproposta dapprima da Cass. 2 3 luglio 2003 n. 11454, la quale, proprio in tema di lavori effettuati da un imprenditore in favore di un ente pubblico in assenza di un valido contrattola affermato che "la diminuzione patrimoniale subita da questi è costituita da ogni genere di spese affrontate per effettuare le opere richieste"; e poi in modo più articolato da Cass. 26 settembre 2005 n. 18785 per la quale l'art. 2041 cod.-civ. considera solo la diminuzione patrimoniale subita dal soggetto e non anche il lucro cessante, che è altra componente, separata e distinta, del danno patrimoniale complessivamente subito alla stregua dell'art. 2043 cod.civ., ma espressamente escluso dall'art. 2041 cod.-civ. Con l'ulteriore duplice limite che "non è l'intero arricchimento che la legge prende in considerazione,ma solo quello corrispondente al danno o pregiudizio subito dall'altro soggetto; e non è l'intero pregiudizio che può essere risarcito,ma solo quello corrispondente ad un profitto o vantaggio dell'arricchito". E da ultimo è apparsa più convincente anche alla menzionata ordinanza interlocutoria 19944/2007, sia per la chiara lettera della disposizione suddetta; sia perché "l'argomento della ratio della norma si risolve nella sostanza in una petizione di principio e cioè nel ritenere che scopo della norma sia quello di impedire l'arricchimento al quale corrisponda il danno di un altro soggetto anziché, come sembra suggerire la lettera della norma, quello di impedire l'arricchimento al quale corrisponda la diminuzione del patrimonio di un altro soggetto"; sia,infine perché attraverso il computo nella diminuzione patrimoniale anche del lucro cessante, si "finisce per attribuire all'istituto dell'arricchimento senza causa una funzione che sembra ad esso estranea e cioè quella di trovare, in una ottica redistributiva, un equilibrio tra le prestazioni".
5. Anche fra gli studiosi dell'arricchimento senza giusta causa non vi è univocità di vedute in merito allo specifico tema se il mancato guadagno possa rientrare in una nozione lata di diminuzione patrimoniale indennizzabile.
La maggior parte di essi si è preoccupata di rivendicare l'autonomia della nozione di diminuzione patrimoniale sottesa alla tutela residuale e sussidiaria offerta dall'art. 2041 cod.civ. rispetto alla nozione di danno ingiusto peculiare della tutela aquiliana ex art. 2043 cod.civ.; ed ha evidenziato che il principio di ingiustificato arricchimento è un principio altrettanto generale e centrale dell'ordinamento, che sta a fondamento anche delle altre fonti legali delle obbligazioni: accomunate dal postulato che il conseguimento di un vantaggio patrimoniale a carico di altri deve essere giustificato da un interesse meritevole di tutela.
E tuttavia da tali premesse alcuni autori hanno tratto la conseguenza della non indennizzabilità del lucro cessante che ci si attendeva in cambio dell'attività svolta, assumendo che il ristoro integrale del danno che lo comprende, è previsto dalla legge solo in caso di fatto illecito: ed allorché,dunque ne ricorrono i presupposti del dolo o della colpa.
Altri invece, si sono dichiarati favorevoli all'inclusione del mancato guadagno nella depauperazione indennizzabile (o l'hanno rimessa al prudente apprezzamento del giudice di merito), ora riproponendo le considerazioni della giurisprudenza prevalente;ora invocando principi di carattere generale,quale quello del "giusto prezzo" in base al quale l'azione di cui all'art. 2041 cod.civ. sarebbe finalizzata a procurare all'impoverito una somma pari a quello che sarebbe il giusto corrispettivo del bene o della prestazione, o del suo godimento secondo l'andamento del mercato. O infine, ricorrendo a principi di giustizia distributiva, in base ai quali se non si tenesse conto anche del lucro cessante,tutto ciò che non viene riconosciuto all'impoverito, resterebbe definitivamente acquisito all'arricchito.
Ma il problema ha perduto di rilevanza nella dottrina più moderna che,prendendo spunto dall'esperienza comparativistica, ha svalutato la concezione dell'indebito incentrata sul binomio danno-diminuzione patrimoniale e vi ha sostituito quale punto di riferimento, il profitto, realizzato mediante fatto ingiusto: in particolare rivolgendo il proprio interesse alla c.d., teoria del profitto creato,che autorizza il ricorso all'istituto ogni volta che si sia determinato un profitto per l'arricchito,senza perciò più richiedere alcuna correlazione tra locupletazione e perdita economica che in ipotesi può pure mancare.
In base a questa prospettiva - che in Italia ha consentito di estendere l'indebito arricchimento ai diritti sui beni immateriali (cfr. Cass. 3599/1999) e specificamente ai comportamenti lesivi di brevetti industriali, per l'utilizzazione di invenzioni non brevettate e delle informazioni e/o dei segreti industriali, nonché per lo sfruttamento abusivo del nome e dell'immagine altrui,ed in genere a tutela dei diritti della personalità - diviene indispensabile soltanto la realizzazione di un profitto o di un plusvalore prodotto attraverso l'utilizzazione di risorse altrui,o di utilità spettanti ad altri; e l'istituto viene ad assumere la funzione di nuova clausola generale,mirante questa volta alla sua integrale restituzione,indipendentemente dalla esistenza e dall'entità del danno cagionato: a somiglianza di quanto impongono già l'art.2032 cod.civ. al gestore di affari altrui qualunque sia il suo stato soggettivo,nonché il successivo art.2038 cod.civ. a carico di chi abbia alienato una cosa ricevuta indebitamente. Con l'indubbio merito non solo di giustificarne la piena dignità ed autonomia rispetto alle altre fonti delle obbligazioni,ma di avere enucleato nel suo ambito la categoria del lucro o profitto ottenuto a spese di un altro soggetto,perciò integralmente da restituire;e di tenerla distinta dalle fattispecie in cui si è di fronte ad ingerenze lecite negli altrui diritti, ovvero attuate in buona fede,o ancora dovute ad iniziative e comportamenti stessi dell'impoverito (ed. arricchimento imposto o mediato).
Siffatta concezione che dichiara di fondarsi su noti principi enunciati dalla giurisprudenza romana classica ("neminem ... fieri locupletiorem. . " ) , a livello legislativo, è ampiamente diffusa nei Paesi di common law,dove ai fini della configurabilità dell'azione in questione si ritiene sufficiente che qualcuno abbia realizzato un profitto a spese di un altro,ed è assurta a regola generale in altre legislazioni europee (cfr. art. 812 ed 818 BGB cit.; art. 10.0 cod. Sp.; art. 473 n.l cod. Portog.). Ed anche il nostro legislatore non ha mancato di condividerne l'idea di fondo sia pure in fattispecie specifiche: come quella dell'art.18 della legge 349 del 1986, il quale in materia di tutela civilistica dell'ambiente, dopo avere attribuito prevalenza alla riparazione in forma specifica,ha disposto, ove una tale reintegrazione non sia più possibile, la devoluzione a favore dello Stato di una somma di denaro,che tenga conto non solo dei danni effettivamente inferti,ma anche del profitto realizzato mediante il comportamento illecito (cfr. altresì il riferimento dell'art. 1 sub b] d.lgs. 480/1992 al "vantaggio indebito"; nonché dell'art. 125, 1° comma d.lgs. 30/2005 agli "utili realizzati in violazione del diritto").
6. Le Sezioni Unite ritengono che il contrasto debba essere composto privilegiando l'interpretazione dell'art. 2041 cod.civ. che esclude dal calcolo dell'indennità richiesta per la "diminuzione patrimoniale" subita dall'esecutore di una prestazione in virtù di un contratto invalido, quanto lo stesso avrebbe percepito a titolo di lucro cessante se il rapporto negoziale fosse stato valido ed efficace.
A questo risultato induce anzitutto la chiara lettera della norma, saldamente ancorata alla tradizione romanistica rivolta a riparare il "detrimentum" sofferto dall'impoverito, attraverso le numerose "condictiones indebiti" via via apprestate a partire dal diritto classico, onde garantirgli la restituzione di quanto avesse dato in base ad una giustificazione mancante fin dall'inizio, o venuta meno successivamente. E pure la maggior parte delle decisioni che hanno recepito l'orientamento opposto (c.d. estensivo) ha dato atto del significato testuale inequivoco della formula,che secondo gli studiosi, trova un significativo completamento nell'espressione "pregiudizio" utilizzata dall'art. 2042 cod.civ. a riprova dell'intento del legislatore di evitare qualsiasi confusione con il "danno ingiusto" ex art. 2043 cod.civ. e con le sue componenti.
D'altra parte, l'invocata esigenza di sacrificare la lettera della norma alla asserita "ratio" che, intendendo eliminare ogni pregiudizio (nei limiti dell'arricchimento) subito dall'impoverito, ne imporrebbe una interpretazione estensiva comprendente anche il mancato guadagno per utile d'impresa connesso a prestazioni erogate sine causa,non si sottrae all'addebito rivoltogli dall'ordinanza interlocutoria 19944/2007 di risolversi in una mera petizione di principio: posto che ciò che doveva dimostrarsi era proprio che la "diminuzione patrimoniale" nel contesto della menzionata disposizione legislativa acquistasse, malgrado la diversa terminologia, la medesima estensione di quella dell'art. 1223 cod.civ. (recepita dagli art. 2043 e segg. cod.civ.) contenente espresso riferimento non soltanto alla perdita subita dal creditore (c.d. danno emergente), ma anche all'intero pregiudizio di costui, e quindi, anche all'accrescimento patrimoniale che avrebbe conseguito se ad impedirlo non fosse intervenuto il fatto generatore del danno.
Detta equiparazione è invece smentita sia dalle origini che dalle finalità dell'istituto: come è noto non considerato quale rimedio generico dal codice del 1865 che riconosceva e disciplinava, invece, unitamente ad alcune leggi speciali (art. 67 l. camb.; art. 59 l. assegno) singole tipologie (art. 447, 704-705, 1145-1150 ecc.),oltre alla ripetizione di indebito ed alla gestione di affari altrui; e che tuttavia non aveva impedito di enucleare una autonoma azione di arricchimento sia alla dottrina,sia alla giurisprudenza, inducendo la Cassazione a configurarla in termini generali ed a denominarla azione "de in rem verso": quasi ad evidenziarne la funzione restitutoria identica alla originaria fattispecie conosciuta dal diritto romano,e fonte delle successive "condictiones" (Cass. Torino 19 dicembre 1887 e Cass. Firenze 24 febbraio 1888) .
Essa venne quindi introdotta nel progetto di codice delle obbligazioni del 1936, ove un unico articolo stabiliva che "Chi sì arricchisce senza legittima causa a danno di un'altra persona, è tenuto, nei ,limiti dell'arricchimento, ad indennizzarla " ; ed accolta nel vigente codice che l'ha significativamente collocato dopo la previsione di numerosi casi particolari (art. 31, 3° comma, 535, 821, 2° comma, 935-940, 1150, 1185, 2° comma, 1190, 1443, 1769, 2037, 3° comma, 2038, 3° comma cod.civ.): assolutamente eterogenei, ma ispirati al medesimo principio, ed accomunati dall'obbligo di "restituire" all'impoverito esclusivamente perdite, esborsi, spese,prestazioni ed altri elementi, utilità o valori già sussistenti nel suo patrimonio "nei limiti dell'arricchimento". Sicché si è mantenuto un sistema di figure tipiche spesso disciplinate in modo minuzioso cui - quale unica novità -ha fatto seguito l'enunciazione del principio generale privo di innovazioni rispetto ad esse,ispirato al modello francese ed avente le medesime caratteristiche già individuate dalla giurisprudenza precedente (arricchimento di un soggetto,correlativo impoverimento di un altro soggetto,mancanza di una giusta causa); il quale ha assunto,come espressamente reso palese dalla Relazione al progetto del codice, la funzione di norma di chiusura formulata onde coprire anche i casi "che il legislatore non sarebbe in grado di prevedere tutti singolarmente".
Esso necessariamente partecipa,in conseguenza, della disciplina e delle finalità sostanziali cui sono rivolte ed ispirate le disposizioni suddette, di eliminare l'iniquità prodottasi mediante uno spostamento patrimoniale privo di giustificazione di fronte al diritto, sancendone la restituzione: perciò disposta in funzione e nei limiti dell'arricchimento, e non già in dipendenza di una variabile legata al concreto ammontare del danno subito,come avviene nell'azione risarcitoria. Sicché soltanto questo e non altro può ritenersi il fondamento dell'istituto, sintetizzato da qualificati studiosi nella formula che l'azione è data non contro l'arricchimento o il danno, ma "per evitare l'arricchimento a danno altrui".
Il fatto,poi, che il legislatore abbia inteso rimarcarne la valenza di rimedio generale dell'ordinamento al pari del principio del neminem laedere in materia di responsabilità civile, nonché del principio pacta sunt servanda in materia contrattuale,e che nella ricordata Relazione sia definito "uno di quei precetti ampi ed elastici" deputati ad abbracciare "un gran numero di casi oggi non tutti prevedibili", ne comporta l'idoneità a recepire una serie illimitata di ipotesi indefinite e non predeterminabili,via via riconosciute meritevoli di protezione giuridica:e,quindi la possibilità di estenderne sia l'ambito che i criteri legali di applicazione (fino a raggiungere i diritti della personalità, o i diritti sui beni immateriali). Ma non autorizza il sostanziale equivoco che sta alla base dell'orientamento tuttora prevalente, di annullarne l'autonoma funzione recuperatoria, onde inglobarlo per imprecisati motivi di giustizia sostanziale, nell'ottica panaquiliana propria dell'art.2043 cod.civ.
7. Non mancano, peraltro, ipotesi specifiche in cui è lo stesso legislatore a spostare il baricentro dell'istituto dalla sua tradizionale ragione giustificatrice alla persona del "danneggiato" in ossequio ora alla preoccupazione che la lesione della sua posizione giuridica sia meritevole di particolare protezione,ora a quella di trovare in un'ottica redistributiva un equilibrio tra le prestazioni (e comunque tra i due patrimoni) : considerando il pregiudizio pari al valore del bene o del suo uso,o al valore della prestazione. Ma con ciascuna di queste soluzioni confermando che si tratta di altrettante deroghe dell'oggetto e della funzione della disposizione generale che sono rispettivamente la locupletazione e la restituzione;e non il danno ed il suo risarcimento.
E' sufficiente al riguardo ricordare esemplificativamente le fattispecie di consumazione della cosa altrui di cui agli art. 935 e 93 9 cod.civ. in cui spetta un'indennità pari al suo valore. Laddove se la consumazione è stata compiuta in malafede è dovuto il risarcimento dei danni ulteriori, peculiari della responsabilità da illecito: con ciò introducendosi una tutela differenziata in base alla quale il danno rilevante per l'azione di arricchimento ha una misura inferiore a quella del danno rilevante per l'azione da illecito e la responsabilità non va oltre quella misura, quale che sia la consistenza dell'arricchimento o dell'impoverimento.
E, per converso, nell'ipotesi di opere eseguite da un terzo sul fondo altrui prevista dall'art.936 cod. civ. (ed in quella di specificazione di cui all’art.940 cod. civ.), ove il proprietario ne voglia acquistare la proprietà per accessione, si realizza una fattispecie tipica di arricchimento ingiustificato,che la norma ha disciplinato specificamente ponendo a carico di quest'ultimo l'obbligo di pagare al terzo oltre al valore dei materiali anche "il prezzo della mano d'opera". Con la conseguenza che, essendo detto prezzo dovuto anche nel caso in cui il proprietario dei materiali abbia eseguito personalmente l'attività lavorativa,secondo alcuni autori in tale fattispecie si è in presenza di una sorta di indennizzo per mancato guadagno,rivolto a compensare la perdita della possibilità di svolgere altre attività remunerative. Mentre, secondo altri l'azione mira a conseguire,entro i limiti dell'arricchimento soltanto il giusto prezzo del godimento o della prestazione (prezzo che può essere superiore o inferiore al lucro cessante).
Ancor più marcata è la tutela dell'impoverito nella nota ipotesi prevista dall'art.2126 cod.civ. in cui egli abbia eseguito una prestazione lavorativa in esecuzione di un contratto di lavoro nullo o annullato: posto che equipara gli effetti del contratto invalido a quello valido "per il periodo in cui il rapporto ha avuto esecuzione", al fine di tutelare il diritto del lavoratore alla retribuzione (ed alle altre prestazioni connesse previste dalla legge).
Se si considera che pur in assenza della norma, il lavoro di fatto avrebbe potuto essere compensato ricorrendo allo strumento dell'art.2041 cod.civ. , risulta evidente, da un lato, che il legislatore ha inteso in detta fattispecie privilegiare soprattutto la prestazione di lavoro subordinato,attribuendo al suo titolare una tutela rafforzata cui corrisponde un obbligo restitutorio integrale ed in forma specifica a carico dell'arricchito: commisurato all'intero valore della prestazione ottenuta senza causa; e che prescinde perfino da qualsiasi accertamento circa l'esistenza di un effettivo arricchimento e giovamento per il datore di lavoro. Ma, dall'altro, diviene ancor più palese la distanza tra la peculiarità di detta riparazione completa e l'obbligazione generale dell'art. 2041 cod.civ. correlata (e limitata) alla diminuzione patrimoniale dell'impoverito: già evidenziata del resto negli anni '80 dalle Sezioni Unite allorché - limitarono l'applicazione dell’art. 2126 cod.civ. nell'ambito del lavoro pubblico,escludendola in presenza di specifiche norme che ne vietino comunque la costituzione in difetto di determinate condizioni all'uopo tassativamente prescritte e sanciscono espressamente la assoluta improduttività di qualunque effetto per l'assunzione o l'affidamento di attività lavorative. Ed in tal caso consentendo al prestatore di lavoro di esperire soltanto l'azione di indebito arricchimento di cui l'amministrazione abbia beneficiato per effetto delle sue prestazioni (Cass., Sez. Un., 1494/1981; 4198/1982; 3098/1985).
8. Il realtà l'indirizzo giurisprudenziale c.d. maggioritario ha operato una mera trasposizione di concetti e contenuti propri della responsabilità aquiliana alla materia dell'arricchimento; e ponendo in primo piano l'interesse leso dell'arricchito,ed individuando un nesso di causalità ex art.40 e 41 cod.pen. tra di esso e la locupletazione,ha ritenuto di perseguire quale logico risultato la restituito in integrum del patrimonio dell'impoverito: perciò includendovi sia la perdita subita che il mancato incremento, questa volta riparato togliendo il valore corrispondente ad altra persona a cui vantaggio l'utilità è stata rivolta.
Ma, pur convenendo sul fatto che l'elaborazione dell'azione di arricchimento ad opera dei compilatori del codice è sicuramente avvenuta con particolare riferimento ai casi di locupletazione ottenuta mediante fatto ingiusto,le Sezioni Unite non ritengono di condividere tale commistione tra le due azioni: esclusa, già, dallo loro autonoma collocazione nel libro quinto delle obbligazioni ove il legislatore ha posto l'arricchimento senza causa nel titolo VIII,e dedicato ai fatti illeciti un successivo e distinto titolo,il nono:con ciò mostrando l'intendimento di separarne in modo netto ed inequivoco anche disciplina e funzione.
Si tratta del resto di una scelta assolutamente coerente con la diversità delle fonti delle rispettive obbligazioni,addirittura di origine contrapposta nella disposizione dell'art. 1173 cod. civ.:posto che quella risarcitoria nell'art. 2043 nasce da un comportamento illecito che è - esso - origine dell'obbligazione in quanto fatto esclusivo causante il danno. Laddove con riguardo al rimedio dell'art. 2041 cod.civ. impoverimento ed arricchimento non sono in rapporto di causa ed effetto,ma sono entrambi due effetti,i quali producono direttamente la nascita dell'obbligazione in quanto fatti causati da circostanze esterne al meccanismo di produzione della fonte;per cui, dal punto di vista giuridico l'arricchimento può essere l'effetto economico di un fatto qualunque che il legislatore non ha avuto interesse a qualificare,significativamente enunciando una "correlazione" tra di esso (allorché sia ingiustificato) e "diminuzione patrimoniale" dell'attore.
E proprio perché le relative obbligazioni sorgono e si pongono su piani non comparabili, ne sono affatto diversi anche il contenuto ed il risultato che si propone ciascuna, che nell'azione risarcitoria è quello,congenito alla sua funzione, di approntare un rimedio contro il danno,ristabilendo la situazione patrimoniale alteratasi per effetto dell'illecita ingerenza; laddove l'altra è rivolta ad apprestare tutela contro il profitto realizzato secondo modalità ingiuste e riparare il grave squilibrio che in forza del relativo spostamento patrimoniale si è formato. Con la conseguenza che in detta azione la centralità del danno viene necessariamente meno, e non mirando la norma ad operare la ricomposizione del patrimonio dell'impoverito, manca in radice il titolo idoneo a compensare il suo mancato incremento attraverso i profitti non realizzati.
Il che non significa che si è in presenza di una tutela debole o secondaria rispetto a quella aquiliana,perché se è vero che in numerose fattispecie - quelle in particolare di appropriazione di beni ed utilità che competevano all'impoverito - si produce una diminuzione del suo patrimonio che viene riparata soltanto nei limiti dell'arricchimento,è pur vero che la casistica giudiziaria ne evidenzia altrettante perfettamente speculari, in cui l'ingerenza arreca un beneficio patrimoniale al convenuto senza tuttavia provocare al soggetto leso alcun danno effettivo (o un pregiudizio facilmente individuabile); o ancora in cui l'arricchimento ottenuto può essere nettamente superiore al danno cagionato:fattispecie nelle quali non potrebbe comunque invocarsi l'obbligazione risarcitoria, ed ha invece piena cittadinanza,come già si è visto a proposito delle ipotesi particolari disciplinate dagli art. 936 e 940 cod.civ., l'azione di arricchimento per la cancellazione del profitto prodotto da quell’ingerenza ingiustificata. Tanto da indurre questa Corte già in pronunce assai lontane nel tempo (Cass. 966/1965) all'elaborazione di complesse formule onde evitare un arricchimento dell'impoverito,con le quali si prendevano le distanze dalla ricostruzione incentrata sull'illecito, chiarendosi che "non è l'intero pregiudizio che deve essere risarcito,ma solo quello che corrisponde ad un profitto o vantaggio dell'arricchito. L'indennità deve perciò essere contenuta nei limiti della locupletazione, se questa è inferiore all'altrui impoverimento,e nei limiti dell'impoverimento,anche se l'arricchimento sia maggiore".
Anche sotto questi profili non è conclusivamente consentito sovrapporre la funzione risarcitoria propria dell'azione aquiliana a quella restitutoria dell'indebito arricchimento, mantenendo quest'ultima in un rapporto di subalternità al precetto del neminem laedere, ed al parametro di natura soggettiva che lo stesso comporta al fine di conseguire la reintegrazione patrimoniale del danno ingiusto. E neppure raggiungere analogo risultato attraverso un abnorme cumulo delle loro discipline, ripristinando di fatto la relativa costruzione prospettata durante la vigenza del codice civile del 1865, da qualche autore; che, tuttavia,avvertendone l'anomalia,l'aveva fondata su di un fatto illecito ravvisato nella mancata restituzione dell'arricchimento (o su un quasi-delitto, consistente nello stesso fatto di arricchirsi a spese altrui).
Senza considerare,infine,che la trasposizione del regime peculiare dell'obbligazione risarcitoria è resistita anche dal ruolo indispensabile svolto dall'elemento soggettivo:il quale,in essa presupponendo un problema di responsabilità,postula un comportamento antigiuridico del danneggiante,che nell'indebito arricchimento dovrebbe tradursi in una condotta colposa o dolosa dell'arricchito.
Ma questa non può né potrebbe essere richiesta dalla normativa ad esso relativa,dato che ove fosse configurabile, l'impoverito,come rilevato da attenta dottrina, avrebbe a disposizione proprio l'azione generale di cui all'art.2043 cod.civ.: con ciò facendo venir meno il presupposto della sussidiarietà indispensabile per esperire quella di indebito arricchimento;con la conseguenza che il rimedio prescinde necessariamente dal comportamento tenuto dall'agente. A differenza dell'azione risarcitoria,ove se il danneggiante non è in colpa nella produzione del danno,non gli si può a maggior ragione addossare il profitto perduto dal danneggiato.
Ed allora,questa voce di danno gli viene attribuita dalla giurisprudenza ad essa favorevole in base ad una sorta di responsabilità oggettiva che da istituto eccezionale ed utilizzabile in ipotesi specificamente individuate, nell'azione in esame è assurta al rango di regola generale (seppur inespressa dalla norma); e per di più indiscriminatamente applicabile, dato il carattere unitario del rimedio, sia ai casi di arricchimento conseguito appropriandosi di utilità insite nell'altrui situazione protetta,sia a quelli che dipendono da comportamenti dell'impoverito.
In relazione ai quali invece la dottrina più moderna si è posta sempre più frequentemente (cfr. § 5) la questione basilare di evitare l'imposizione di una responsabilità da arricchimento non desiderato, e le legislazioni di numerosi stati europei hanno messo in forse la stessa esperibilità dell'azione: come dimostrano esemplificativamente l'art. 814 BGB tedesco, per il quale "ciò che è stato prestato per l'adempimento di un'obbligazione non può essere ripetuto se l'adempiente era consapevole di non essere obbligato alla prestazione..." ; nonché il sistema del Common Law in cui nessuna pretesa può essere fatta valere nei confronti di chi abbia ricevuto un servizio senza volerlo o senza la consapevolezza di doverlo pagare.
9. Nella seconda di dette categorie rientrano le prestazioni professionali o imprenditoriali eseguite,come nella specie, in conseguenza di un contratto invalido o giuridicamente inesistente,allorché non sia perciò possibile ottenerne altrimenti il corrispettivo stabilito;ed in essa a differenza della prima, ove l’approfittamento che ha provocato l'arricchimento, presenta innegabili punti di contatto con la responsabilità civile,ne sussistono altrettanti, questa volta con il regime di esecuzione dei contratti.
In effetti,è proprio questa la strada alternativa percorsa dalla giurisprudenza, anche di merito, favorevole ad includere il mancato guadagno tra i criteri di calcolo dell'indennizzo dovuto al professionista o all'imprenditore; la quale, a partire dagli anni ‘80 in tali casi, ha ragionato in un'ottica di adempimento della prestazione dedotta nel contratto invalido (così come nell'altra categoria di condotte era stata perseguita la finalità della reintegrazione integrale del danno subito): ritenendo - in ricordo della natura di quasi contratto attribuita alle relative obbligazioni fin dal periodo giustinianeo - che chi ha eseguito la prestazione ha diritto, onde evitare lo squilibrio che si verrebbe altrimenti a provocare,ad una determinazione indennitaria estremamente aderente a quanto egli avrebbe percepito ove avesse stipulato un negozio valido. E ad essere ricollocato in posizione sostanzialmente analoga a quella nella quale si sarebbe trovato in quest'ultimo caso: perciò nella medesima prospettiva di chi si propone effettivamente di trarre un guadagno dalla propria attività.
Pur dando atto, infatti, che detto soggetto non ha diritto ad una controprestazione,né tanto meno a quella stessa prestazione che gli sarebbe spettata se il contratto stipulato fosse stato valido ed efficace, per l'insussistenza di un rapporto sinallagmatico,queste decisioni hanno fatto ricorso alla finzione che il negozio sussistesse al limitato fine di determinare le utilità spettanti all'impoverito: con sistematico riferimento sia pure in via indiretta e meramente parametrica, al corrispettivo contrattualmente previsto ovvero a quello stabilito dalle tariffe professionali,nonché ad ogni ulteriore condizione contrattuale più favorevole all'autore della prestazione;ed attribuendo al riguardo ampio valore probatorio perfino alle fatture emesse dall'imprenditore (dal fornitore,o dal professionista) , quanto all'importo ivi riportato mediante richiamo all'obbligo di fatturazione unitamente al rischio, anche penale inerente all'inesatta o addirittura falsa fatturazione (Cass. 9690/1999; 5021/1997).
Ne è scaturita una liquidazione estremamente favorevole all'impoverito, ed il più delle volte addirittura premiale, già avvertita da Cass.1890/1983, non soltanto perché il relativo importo,avente pacificamente natura di credito di valore, viene rivalutato dal giudice alla data della pronuncia automaticamente e senza necessità della prova del maggior danno richiesta al creditore di pretese contrattuali dall'art. 1224, comma 2, cod.civ.;ma anche perché nella quantificazione non si tiene conto delle condizioni di particolare favore per la p.a.,normalmente inserite nei contratti dalla stessa predisposti, nonché delle clausole e condizioni cui è subordinato il compenso,comunque prestabilito nella convenzione o nel capitolato e non rimesso a successive parcelle o alle tariffe professionali, che non consentirebbero di preventivarne la spesa. Per cui, in questo settore l'azione di cui all'art.2041 cod.civ. da rimedio residuale è divenuto sempre più l'obbiettivo principale di quanti hanno volontariamente eseguito una prestazione, pretermettendo del tutto l'osservanza dei normali canoni che presiedono alla conclusione dei contratti con la P.A., o non avendo convenienza ad utiliz-zarli;e mostrando,invece, interesse a far valere essi la nullità o l'inesistenza del contratto.
Da qui le pronunce di questa Corte rivolte a rimediare a tali incongruenze sia pure in relazione allo specifico caso concreto: ora incidendo in modo più rigoroso sul "riconoscimento dell'utilità dell'opera o della prestazione" da parte dell'amministrazione,che è stato escluso comunque nei casi di mera presentazione all'ente senza formale incarico,di un progetto o di un'opera,a prescindere dal fatto che questi li abbia ricevuti:con l'enunciazione del principio che tale attività non si identifica nella utilizzazione proficua della prestazione richiesta dalla norma (Cass. 5638/1995). Ora richiedendo che il riconoscimento debba provenire soltanto da atti degli organi deliberanti dell'ente pubblico o che ne abbiano per legge la rappresentanza esterna (Cass. 11133/2002; 9694/2001; 8285/2000). Mentre altre decisioni hanno cercato di introdurre maggior rigore nell'ambito dell'onere probatorio a carico del professionista o dell'imprenditore che agisce ex art.2041 cod.civ. rilevando che il ricorso alle tabelle professionali o ai capitolati di appalto,è una mera finzione del tutto inaccettabile una volta stabilita la nullità dell'incarico o dell'appalto che costituisce la conditio sine qua non della loro applicazione; e che grava comunque sul richiedente l'onere di dimostrare, da un lato, che egli nel tempo dedicato al compimento della prestazione per conto dell'ente pubblico avrebbe potuto espletare altre equivalenti attività, anch'esse egualmente remunerative. E,dall'altro che se la p.a. avesse dovuto conferire l'incarico o l'opera secundum legem,avrebbe dovuto pagare, per rimborso spese e compensi, una somma analoga a quella indicata nella parcella o nel contratto (Cass. 1753/1987 e da ult. 6570/2005; 21292/2007, cit.).
Pur con tali apprezzabili contemperamenti, neanche la rilettura in chiave contrattuale dell'istituto appare convincente, anzitutto per le ragioni inerenti alla sua ben precisa identità ed alla esclusiva finalità di indennizzare lo spostamento di ricchezza senza giusta causa dall'uno all'altro soggetto, già evidenziate per escluderne possibili funzioni risarcitorie (§ 6 ed 8); le quali ragioni non consentono neppure di ricondurlo tra gli strumenti che l'ordinamento predispone per porre rimedio allo squilibrio nelle prestazioni,come invece avviene in ambito contrattuale. Sicché a maggior ragione gli è estraneo il ruolo, pur attribuitogli da non poche pronunce giurisdizionali,di assicurare all'autore di una prestazione eseguita malgrado l'invalidità di un contratto, il medesimo profitto che avrebbe ricavato nello stesso periodo di tempo da altre attività remunerate : soprattutto quando detta esecuzione derivi da una iniziativa propria e non sia rispettosa della legge.
Esso, per di più, non tiene in alcun conto che l'attività negoziale della p.a. è comunque soggetta a specifiche condizioni e limitazioni apposte direttamente dal legislatore, costituite dalle regole ed. dell'evidenza pubblica che presidiano e condizionano l'attività negoziale della p.a.: costituenti un vero e proprio sistema rigido" e vincolante, per il quale:
A) i comuni, le Province e gli altri enti locali indicati nel T.U. appr. con r.d. 383 del 1934, ancora vigente all'epoca dell'appalto affidato alla Cooperativa Ravennese,non possono assumere obbligazioni senza rendersi conto del loro ammontare e senza conoscere se e come farvi fronte :perciò dovendo indicare (art. 284 e 288) nelle relative deliberazioni a pena di nullità l'ammontare di esse e i mezzi per farvi fronte (Cass. sez. un. 12195 e 13831/2005, nonché 8730/2008);
B)all'assunzione della spesa deve necessariamente seguire una fase preliminare, caratterizzata dalla formazione della volontà della P.A, che resta sul piano del diritto amministrativo,ed è disciplinata dalle regole ed. dell'evidenza pubblica,poste dalla legge,da un regolamento nonché da atti generali della stessa amministrazione (Cass. 17697/2005; 14789/2003; 2235/1998; 7151/1983); che si conclude con la delibera a contrarre,destinata a disporre in ordine alla stipulazione del negozio;
C) e quindi la sussistenza di un atto contrattuale redatto nelle forme dì legge e sottoscritto dal rappresentante esterno dell'ente stesso e dal privato, da cui deve desumersi la concreta instaurazione del rapporto negoziale con le indispensabili determinazioni in ordine alle prestazioni da svolgersi ed al compenso da corrispondergli;che deve perciò essere stabilito all'interno del contratto (Cass. 19670/2006; 11930/2006; 4635/2006; 1702/2006; 24826/2005);
D) seppure è vero che detti principi devono essere contemperati con la regola di carattere generale che non sono ammessi arricchimenti ingiustificati né spostamenti patrimoniali ingiustificabili neppure a favore della p.a., è pur vero che le regole suddette rivolte a sollecitare un più rigoroso rispetto dei principi di legalità e correttezza da parte di coloro che operano nelle gestioni locali,come già rilevato da queste Sezioni Unite, sono ricollegabili al buon andamento, di dette amministrazioni in un quadro di certezza e di trasparenza, e trovano oggi fondamento nello stesso art. 97 Costit.
Si tratta,dunque, di regole ritenute da dottrina e giurisprudenza assolutamente inderogabili ed aventi forza talmente cogente da invalidare e travolgere qualsiasi convenzione con esse confliggente; per cui è per lo meno illogico utilizzare il rimedio dell'art. 2041 cod. civ. per renderle inoperanti e ricollocare l'autore della prestazione nella situazione in cui si sarebbe trovato se avesse concluso con successo proprio quel contratto che la legge considera assolutamente invalido o addirittura giuridicamente inesistente: perciò consentendone la sostanziale neutralizzazione in nome di imprecisate esigenze equitative. Ed è ancor più contraddittorio dopo avere invocato la funzione riequilibratrice del modello contrattuale, prenderne inopinatamente le distanze onde giustificare detta elusione, in nome del postulato, più volte ripetuto dalla sentenza impugnata, che nell'azione di indebito arricchimento non rilevano né il pregresso titolo negoziale né la disciplina dallo stesso introdotta proprio per l'invalidità del negozio o per la sua avvenuta caducazione: anche perché questo principio comporta soltanto che una ragione di tutela sussiste per l'impoverito anche quando il titolo principale sia venuto meno o non abbia comunque raggiunto alcuna operatività (cfr. l'art.812,1° comma del ricordato cod. civ. tedesco, per il quale "L'obbligazione sussiste anche quando la ragione giuridica viene meno successivamente ..." ) .
Ma solo un salto logico può indurre ad attribuire a detta tutela il carattere di rimedio extra ordinem, che, da un lato, comprenda tutti i benefici derivanti da un contratto valido, e dall'altro lo trascenda per aggiungervi anche quelli altrimenti non consentiti dalle condizioni e dai limiti che nell'ordine normativo presidiano l'attività negoziale degli enti pubblici: a meno di non trasformarla in uno strumento utilizzabile per sottrarsi all'applicazione delle leggi che dettano le "normali regole di contabilità pubblica in tema di copertura di spesa" allorquando appaiono inique (pag.7-8 sent. imp.).
Il che è quanto è avvenuto nella fattispecie, in cui la cooperativa aggiudicataria di un appalto in base ad una gara annullata ha comunque eseguito la prestazione in luogo dell'effettivo aggiudicatario in base a regolare asta pubblica; ed ha conseguito tramite l'azione di cui all'art. 2041, interpretata nel senso di non tener conto di esse, un compenso ben più elevato rispetto a quello che sarebbe spettato al contraente adempiente e rispettoso di dette regole.
Proprio per impedire tale risultato, di apportare di fatto, attraverso il rimedio in esame,singole modifiche e/o correzioni agli istituti giuridici di cui si tratta o a singoli aspetti di essi,e comunque di ovviare a conseguenze non gradite del sistema giuridico imperniato sull'evidenza pubblica -peraltro in base a valutazioni meramente soggettive- il legislatore,in un'ottica di risanamento delle finanze locali, ne ha radicalmente modificato la possibilità di applicazione nei confronti dei comuni e di altri enti locali. Ed a partire dalla legge 144 del 1989, non ha più consentito il ricorso alla prassi di conferire, senza il rispetto di dette normative, appalti, incarichi e forniture, poi egualmente remunerati con il ricorso alla regola dell'indebito arricchimento, rendendo l'amministratore o il funzionario locale direttamente responsabile del conferimento,ed attribuendo all'autore della prestazione le normali azioni contrattuali direttamente nei confronti di costui;con conseguente impossibilità di esperire l'azione di indebito arricchimento senza causa nei confronti dell'ente locale, stante il difetto del necessario requisito della sussidiarietà.
10. Anche l'interpretazione logico-sistematica dell’art. 2041 cod.civ. induce, conclusivamente, il Collegio a ribadire che nel periodo antecedente alla legge suddetta il rimedio debba mantenere il carattere di mezzo di tutela residuale e sussidiaria che l'ordinamento mette a disposizione del privato - allorché non dispone nei confronti della P.A. di nessun'altra specifica azione sia essa contrattuale, o al di fuori del contratto - al fine di garantirgli la conservazione della posizione patrimoniale. Ovvero (se si segue la dottrina più moderna), la restituzione del beneficio (e/o del profitto) conseguito dall'amministrazione .
Neppure nell'ambito di quest'ultima via, residua perciò spazio per trasformare l'azione restitutoria in un meccanismo rivolto ad assicurare il "giusto corrispettivo" dell'incarico,o dei lavori eseguiti; e comunque, più in generale, per garantire gli effetti sostanziali dell'azione contrattuale attraverso l'artificio di valutazioni parametriche. Ed anche allorché esperita nei confronti della P.A., la depauperazione di cui all'art. 2041 cod.civ. deve comprendere,come già affermato dalla lontana Cass. 1471/1965, tutto quanto il patrimonio ha perduto (in elementi ed in valore) rispetto alla propria precedente consistenza;ma non anche i benefici e le aspettative connessi con la controprestazione pattuita quale corrispettivo dell'opera,della fornitura,o della prestazione professionale,non percepito: quale esemplificativamente, per quanto qui interessa, il profitto di impresa, le spese generali e "la retribuzione dell'opera che non sia consistita nella progettazione o direzione dei lavori", con i relativi accessori,nonché ogni altra posta rivolta ad assicurare egualmente al richiedente - direttamente o indirettamente, tramite il ricorso ai parametri di cui si è detto - quanto si riprometteva di ricavare dall'esecuzione del contratto; o che è lo stesso dall'esecuzione di analoghe attività remunerative nello stesso periodo di tempo.
Resta da queste statuizioni assorbita e risolta anche la questione della utilizzabilità della revisione prezzi nella determinazione dell'indennizzo dovuto all'imprenditore che ha eseguito l'opera al di fuori di un valido contratto di appalto,che la Corte siciliana ha contraddittoriamente liquidato dopo aver ripetutamente escluso di voler far ricorso all'istituto-tipico del contratto suddetto - introdotto dal d.l.c.p.s. 1501 del 1947 (o dall'art. 1664 cod.civ. per gli appalti privati): senza saper peraltro indicare quali norme o principi giuridici prevedano un rimedio similare nell'ambito della nozione di "impoverimento patrimoniale": perciò solo apoditticamente affermato (pag.9).
D'altra parte, se lo scopo dell'inclusione dell'importo suddetto è soltanto quello indicato dalla Corte nella prima parte della motivazione,di compensare i maggiori esborsi dovuti sostenere dal Consorzio ravennate per la realizzazione dell'opera a causa dell'aumento dei prezzi dei materiali e della manodopera, allora lo stesso doveva essere subordinato esclusivamente alla prova rigorosa da parte dell'impresa, di averli effettivamente sostenuti (in misura superiore a quella riconosciuta dal Comune con la delibera 648/1991); e dovendo l'indennizzo essere calcolato nei soli limiti in cui la relativa prova era stata fornita, non aveva senso il riferimento al valore dei beni realizzati e dei servizi utilizzabili,né tanto meno all'aumento percentuale dei prezzi correnti di mercato subito nel periodo considerato, che è lo strumento di analisi tipico dell'istituto contrattuale: anche perché nel caso non poteva esservi il dato iniziale di raffronto solitamente costituito dai prezzi di capitolato,indispensabile per quantificare l'eventuale differenza.
Mentre se la decisione ha inteso remunerare "l'utile d'impresa" e comunque l'aumento percentuale subito dai prezzi di mercato nel periodo considerato,sì da determinare (e compensare) la variazione assoluta presunta della spesa complessiva dell'opera (da qui il riferimento al suo valore effettivo), perciò avvalendosi del meccanismo esclusivo dell'istituto della revisione e peraltro conseguendone la precipua funzione, non bastava escludere ripetutamente di avervi inteso fare ricorso, una volta che era stato interamente applicato; ed il consueto espediente di precisare che l'utilizzazione è avvenuta a titolo meramente parametrico per quantificare la diminuzione patrimoniale in base a dati certi e non arbitrari,non poteva valere per quanto si è detto a superare la considerazione della stessa Corte di appello che l'istituto non era applicabile perché ne difettavano i presupposti previsti dalla legge: a cominciare dall'esistenza di un valido contratto di appalto tra le parti,senza il quale dunque il compenso revisionale non poteva essere corrisposto né direttamente, né per via indiretta (Cass. 5951/2008; 10868/2007).
Il Collegio deve aggiungere che esso non poteva essere liquidato neppure se fosse stato previsto dal contratto di appalto caducato dalle pronunce del giudice amministrativo: posto che la legge 37 del 1973 ha vietato ogni genere di patti in materia, perciò escludendo che il riconoscimento della revisione possa avvenire in via preventiva in sede di stipulazione del contratto e consentendolo soltanto mediante un atto successivo,unilaterale dell'amministrazione che può, dunque, sopravvenire soltanto durante lo svolgimento dell'appalto ovvero al termine di esso (Cass. sez. un. 21292/2005; 18126/2005; 6993/2005). In relazione alla cui concessione la posizione dell'appaltatore è stata tradizionalmente qualificata di interesse legittimo (Cass. sez. un. 23072/2006; 22903/2005; 1996/2003).
Per cui, attribuendo al rimedio in esame anche la funzione di adeguare altresì i prezzi ai mutati costi dei fattori produttivi da utilizzare per l'adempimento dei lavori, che è invece il ruolo assegnato dal legislatore esclusivamente all'istituto della revisione prezzi, è stato ancora una volta conseguito il risultato di neutralizzare le regole sui presupposti,sui termini e sui procedimenti tassativamente posti dalla legge per la sua applicazione; e la Corte territoriale si è in concreto sostituita alla stazione appaltante nella valutazione discrezionale della "facoltà" di autorizzare la revisione riservata fin dal d.l.c.p.s. 1501/1947 esclusivamente a quest'ultima:perciò incorrendo in una palese violazione del divieto posto dall'art. 4 legge 2248 del 1865, e trasformando la tradizionale posizione di interesse legittimo dell'appaltatore che non gli avrebbe consentito di pretenderla nell'azione contrattuale, in quella di diritto soggettivo perfetto a conseguirla automaticamente per il solo fatto che a causa della invalidità del contratto sia ammesso ad esercitare la tutela residuale e sussidiaria concessa dall'art. 2041 cod.civ.
Per queste ragioni, il Collegio deve concludere che la revisione prezzi non può costituire neppure un parametro di riferimento di cui tener conto ai fini della liquidazione dell'indennizzo anche perché l'utilizzabilità del relativo meccanismo è sottoposto dalla legge a precisi limiti e condizioni, peraltro sempre all'interno di un valido contratto di appalto di o.p.; per cui non è corretto estrapolarlo dal suo contesto ed utilizzarlo senza i limiti di legge cui esso è soggetto, nonché a maggior ragione per eludere i limiti suddetti,e porre l'appaltatore che ha stipulato un contratto nullo o addirittura inesistente in una situazione più vantaggiosa di quella cui avrebbe avuto diritto in esecuzione di un contratto valido.
La sentenza impugnata che ha disatteso siffatti principi includendo invece nell'indennizzo dovuto al Consorzio ravennate, tutte le poste tipiche di un contratto di appalto, incentrate sugli utili ed i profitti di impresa, nonché più in generale rivolte a compensare il mancato guadagno dell'imprenditore, va conclusivamente cassata; con rinvio alla stessa Corte di appello di Catania che in diversa composizione determinerà l'indennità in questione attenendosi ad essi e provvederà alla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte, a sezioni unite,accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di appello di Catania, in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma l'8 luglio 2008
Il presidente
Il Consigliere est.
Depositata in Cancelleria l’11 settembre 2008.

mercoledì 10 settembre 2008

Consiglio di Stato, sez. V, sentenza 8 settembre 2008 n. 4242

N.4242/08 Reg. Dec.
N. 2042 Reg. Ric. Anno: 2007

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta) ha pronunciato la seguente
DECISIONE
sul ricorso in appello n.r.g. 2042 del 2007, proposto dalla società Autospurgo Molise di Manifesta Costantino & C. s.n.c., con sede in Campomarino, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avv. Francesco Flascassovitti, con elezione di domicilio in Roma via Mantegazza n. 24 presso il cav. Luigi Gardin;
contro
il Comune di Campomarino, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall'avv. Giuseppe Ruta e domiciliato in Roma, alla via Otranto, n. 18, presso lo studio dell’avv. Marco Orlando;
e, nei confronti
della ditta Tekneko Sistemi Ecologici s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avv. Vincenzo Retico, con elezione di domicilio in Roma, via Francesco Denza n. 27, presso lo studio dell’avv. Ugo Bigianti;
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale del Molise - Campobasso, n. 966 del 20 novembre 2006;
Visto il ricorso con i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio del Comune di Campomarino e della ditta Tekneko Sistemi Ecologici s.r.l.;
Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;
Visti gli atti tutti della causa;
Designato relatore, alla pubblica udienza del 18 marzo 2008, il consigliere Cesare Lamberti ed uditi, gli avvocati Flascassovitti per la ricorrente, Ruta per il Comune e Retico per la contro interessata;
Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue.
FATTO
Con ricorso n. 501 del 2006, la società Autospurgo Molise di Manifesta Costantino & C. s.n.c., con sede in Campomarino, ha chiesto al Tar del Molise l’annullamento dei seguenti atti: 1) verbale datato 30.5.2006 (diciottesima seduta) della commissione giudicatrice della gara bandita dal Comune di Campomarino per l'affidamento dei servizi di raccolta, trasporto e conferimento di rifiuti solidi urbani, raccolta differenziata e servizi di igiene e tutela ambientale, con il quale si dispone l'esclusione, in via di autotutela, della ditta ricorrente, perché, non essendo società di capitali, non doveva essere ammessa alla gara, ai sensi dell'art. 113 del T.U.E.L. di cui al D.Lgs. n. 267 del 2000 e s.m.i.; 2) verbale di gara del 31.5.2006 (diciannovesima seduta) di aggiudicazione provvisoria del servizio alla ditta controinteressata; 3) delibera della Giunta Comunale di Campomarino n. 143 del 31.5.2006 di approvazione dei verbali e di aggiudicazione della gara in favore della ditta controiteressata. La società ha poi chiesto la condanna del Comune intimato al risarcimento dei danni pari almeno al 10 per cento dell'importo totale della gara (euro 650 mila per anni tre), oltre a svalutazione e interessi al soddisfo.
La ricorrente ha dedotto i seguenti motivi: 1)violazione dell’art. 113 del D.Lgs. 18.8.2000, n. 267; 2) violazione dell'art. 10 del D.M. 28.4.1998, n. 406, degli artt. 6 e 9 della direttiva n. 75/442/CEE, come sostituiti dalla direttiva n. 91/156/CEE; 3) violazione della lex specialis della gara ed eccesso di potere per difetto di istruttoria. Ha poi richiesto € 195.000,00 a titolo risarcitorio oltre svalutazione e interessi al soddisfo.
Si sono costituiti, in primo grado, il Comune di Campomarino e la ditta Tekneko Sistemi Ecologici s.r.l.
Il ricorso è stato respinto con la sentenza in epigrafe. Nell’appello sono ribadite le prime tre censure del ricorso introduttivo, è ripetuta la domanda risarcitoria ed è formulata istanza di rimessione alla Corte di giustizia comunitaria dell’art. 113 co. 5 del TUEL. Nella fase impugnatoria sono presenti anche le altre due parti del precedente giudizio.
DIRITTO
Con la sentenza in epigrafe è stato respinto il ricorso della società Autospurgo Molise di Manifesta Costantino & C. s.n.c. avverso il provvedimento con il quale il Comune di Campomarino l'ha esclusa dalla procedura di gara per l'affidamento dei servizi di raccolta e trasporto dei rifiuti solidi urbani, sul presupposto che la società, in quanto costituita in nome collettivo, non fosse abilitata a partecipare a gare per il cui accesso l’art. 113 del testo unico degli enti locali, approvato con il D.Lgs. n. 267 del 2000, prescrive la forma della società di capitali. La sentenza di primo grado ha richiamato la prevalente interpretazione dell’art. 113 comma quinto del D.Lgs. n. 267 del 2000, come modificato dall'art. 35 della legge n. 448 del 2001 e confermato dall'art. 14 D.L. n. 269 del 2003 che prevede il conferimento della titolarità di servizi pubblici locali esclusivamente a società di capitali ed esclude che la società in nome collettivo sia abilitata ad ottenere l'affidamento di tali servizi (Cons. Stato V, 20.10.2005 n. 5883; T.A.R. Sardegna 11.12.2003 n. 1683; T.A.R. Milano III, 13.4.2004 n. 1451; T.A.R. Piemonte II, 21.4.2004 n. 311). Ha poi escluso che in materia di smaltimento dei rifiuti, si possa derogare alla normativa sui servizi pubblici locali di rilevanza economica (Cons. Stato V, 6.5.2003 n. 2380; T.A.R. Milano III, 13.4.2004 n. 1451).
Nelle more dell’appello è sopravvenuta la sentenza del 18 dicembre 2007, n. 357 (in causa C-357/06), nella quale la Corte giustizia CE, la stabilito che "l’art. 26 n. 1 e 2 della direttiva del Consiglio 92/50/CE osta a disposizioni nazionali, come quelle costituite dagli art. 113 comma 5 D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 198 comma 1 D.Lgs. n. 152 del 2006 e art. 2 comma 6 l.reg. Lombardia n. 26 del 2003, che impediscono ad operatori economici di presentare offerte, soltanto per il fatto che tali offerenti non abbiano la forma giuridica corrispondente ad una determinata categoria di persone giuridiche, ossia quella delle società di capitali. Il giudice nazionale, in tal caso, è obbligato a dare un’interpretazione ed un’applicazione conformi alle prescrizioni del diritto comunitario e, qualora siffatta interpretazione conforme non sia possibile, a disapplicare ogni disposizione di diritto interno contraria a tali prescrizioni".
Sono pertanto da condividere gli assunti dell’appellante, nella parte in cui censura da sentenza di primo grado di violazione dell’art. 113 del T.u.e.l. che non prescriverebbe alcuna limitazione di ordine soggettivo in ordine alla gestione ed erogazione di servizi pubblici locali. Il discrimine della forma societaria non opera nei riguardi della partecipante alla gara quando la stessa concerne la gestione del servizio, al cui affidamento può concorrere qualsivoglia soggetto, anche costituito in forma diversa dalla società di capitali.
L’appello deve però essere respinto nella parte in cui la società Autospurgo riafferma il diritto al risarcimento del danno. Manca, infatti, la prova della colpa dell’ente locale richiesta dal diritto vivente in tema di responsabilità extracontrattuale della pubblica amministrazione, secondo cui l'imputazione di tale responsabilità non consegue al mero dato obiettivo dell'illegittimità dell'azione amministrativa, ma richiede anche l'accertamento in concreto «della colpa [...] della P.A. intesa come apparato» [Corte cost., 7 aprile 2006, n. 149 e giurisprudenza ivi citata (Cass. SS.UU. 22 luglio 1999, n. 500; ex plurimis, Cass., III, 21 ottobre 2005 n. 20358; Cass., I, 18 giugno 2005 n. 13164)].
La Sezione non ravvisa nella fattispecie sottoposta al suo esame ragione alcuna per discostarsi dall’insegnamento prevalente che l'imputazione della responsabilità nei confronti della p.a. non può avvenire sulla base del mero dato obiettivo della illegittimità dell'azione amministrativa e quindi non può limitarsi alla constatazione dell'illegittimità dell'atto, giacché ciò si risolverebbe in una inammissibile presunzione di colpa, ma comporta, invece, l'accertamento in concreto della colpa dell'Amministrazione, che è configurabile quando l'esecuzione dell'atto illegittimo sia avvenuta in violazione delle regole proprie dell'azione amministrativa, desumibili sia dai principi costituzionali in punto di imparzialità e buon andamento, sia dalle norme di legge ordinaria in punto di celerità, efficienza, efficacia e trasparenza, sia dai principi generali dell'ordinamento, in punto di ragionevolezza, proporzionalità ed adeguatezza (in part. Cass., III, 21 ottobre 2005 n. 20358).
Nello stesso senso, la prova della responsabilità è stata ritenuta determinante dalla giurisprudenza comunitaria unitamente all’esistenza del diritto leso dalla norma giuridica violata, al nesso causale diretto tra la violazione dell'obbligo incombente allo Stato e il danno dei soggetti lesi nonché al carattere grave e manifesto della violazione [Corte giustizia CE, 17 aprile 2007, n. 470 - causa C-470/03) e giurisprudenza ivi citata: Corte Giust. CE 5 marzo 1996 n. 46 - cause riunite C-46/93 e C-48/93, Corte Giust. CE 2 aprile 1998 - causa C-127/95; Corte Giust. CE 4 luglio 2000, causa C-424/97]. L’affermazione della Corte di giustizia secondo cui il giudice nazionale non può subordinare il risarcimento del danno subito dal singolo a causa della violazione di una norma di diritto comunitario all'esistenza di una condotta colposa o dolosa dell'organo cui detta violazione è imputabile (Corte giustizia CE, 5 marzo 1996, n. 46), deve infatti essere interpretata con riferimento al carattere manifesto e grave della violazione delle norma comunitarie, da cui deriva, sotto il profilo soggettivo, la necessità della prova della colpa o del dolo della pubblica amministrazione.
L’art. 113 co. 5, lett. a) del D.Lgs. n. 267 del 2000, dispone che l'erogazione del servizio avviene secondo le discipline di settore e nel rispetto della normativa dell'Unione europea, con conferimento della titolarità del servizio … " a) a società di capitali individuate attraverso l'espletamento di gare con procedure ad evidenza pubblica".
La commissione di gara insediata dal comune di Campomarino aveva ammesso, in primo tempo, alla gara la società ricorrente Autospurgo Molise di Manifesta Costantino & C. s.n.c. e ne aveva analizzato la relazione tecnica (cfr. i verbali dell’11° e 12° seduta). L’aveva poi esclusa nel corso della 18° seduta, a seguito dell’osservazione presentata dalla ditta Tekneko sulla possibilità di aggiudicare il servizio oggetto della gara solo a società di capitali e sull’impossibilità di ammettere la società Autospurgo Molise, perché costituita nella forma della società in nome collettivo.
In presenza della precisa disposizione dell’art. 113 co. 5, lett. a) del D.Lgs. n. 267 del 2000, da cui era scaturita l’eccezione della ditta Tekneko e in assenza di una altrettanto precisa disposizione comunitaria in senso diverso, la violazione commessa della stazione appaltante non ha carattere né manifesto né grave ai fini della valutazione, sotto il profilo soggettivo, della responsabilità dell’amministrazione che aveva, , all’epoca, logicamente e doverosamente, l’obbligo di accogliere l’eccezione delle contro interessata e di escludere dalla gara l’odierna appellante.
In assenza della citata sentenza del 18 dicembre 2007, n. 357 (C-357/06) della Corte giustizia CE, questa stessa Sezione aveva, del resto stabilito che l'art. 113 bis, D.Lgs. 18 agosto 2000 n. 267, considera ipotesi normale di gestione dei servizi pubblici locali, anche se privi di rilevanza industriale, l'affidamento ad apposite istituzioni, ad aziende speciali e a società di capitali (Cons. Stato, V, 04 maggio 2004 , n. 2726; cui adde: Cons. Stato, V 30 agosto 2006 n. 5072 ).
Nessun appunto, sotto il profilo dell’ordinaria diligenza può essere mosso al comportamento del Comune che aveva escluso la società appellante dalla gara senza che all’epoca esistesse alcun obbligo di disapplicare la disposizione di diritto interno contraria all’ammissione degli operatori economici costituiti in forma diversa dalla società di capitali.
È noto al Collegio il precetto affermato dalla Corte giustizia CE nella citata decisione del 5 marzo 1996 n. 46 che l'obbligo di risarcire i danni causati ai singoli dalle violazioni di norme comunitarie non può essere limitato ai soli danni subiti successivamente alla pronuncia di una sentenza della Corte che accerti l'inadempimento contestato. Nella stessa sede la Corte ha però affermato che "il principio in forza del quale gli Stati membri sono tenuti a risarcire i danni causati ai singoli dalle violazioni del diritto comunitario ad essi imputabili trova applicazione allorché l'inadempimento contestato è riconducibile al legislatore nazionale".
È a questo principio che risale l’inadempimento del precetto comunitario di non discriminazione nei confronti delle società costituite in forma diversa da quella delle società di capitali: l’esclusione della società ricorrente Autospurgo Molise risale direttamente alla disposizione contenuta nell’art. 113 co. 5, lett. a) del D.Lgs. n. 267 del 2000. Rispetto ad essa la commissione di gara non aveva alcuna discrezionalità interpretativa: in presenza dell’eccezione espressamente formulata da altra ditta partecipante, il comportamento della commissione era conseguentemente doveroso, salvo incorrere nella manifesta illegittimità per violazione della norma introdotta dal legislatore statale, nei cui confronti deve essere rivolta la domanda risarcitoria.
Per le suesposte considerazioni, l’appello della società Autospurgo Molise deve essere rigettato e deve essere confermata la sentenza impugnata, anche se con diversa motivazione.
Nelle sopravvenienze giurisprudenziali devono essere ravvisati i giustificati motivi per compensare integralmente tra le parti le spese processuali relative al secondo grado del giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quinta, respinge l’appello.
Spese compensate.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'Autorità amministrativa.
Così deciso in Roma, dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta), nella camera di consiglio del 18 marzo 2008, con l'intervento dei Signori:
Sergio Santoro Presidente
Cesare Lamberti rel. est Consigliere
Marco Lipari Consigliere
Vito Poli Consigliere
Francesco Caringella Consigliere
L’Estensore Il Presidente
f.to Cesare Lamberti f.to Sergio Santoro
DEPOSITATA IN SEGRETERIA in data 8-09-08.


martedì 2 settembre 2008

CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI - sentenza 19 giugno 2008 n. 3065


REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) ha pronunciato la seguente

DECISIONE

sul ricorso in appello n. 7409/2003 proposto da ROTONDO NICOLA, rappresentato e difeso dagli avv. Roberto Palmisano, Pietrantonio De Nuzzo, Tommaso Carone, con domicilio eletto in Roma via A. Farnese n. 12, l’avv. Pierfrancesco Bruno;

contro

il Ministero dell’Istruzione, in persona del Ministro p.t., il Centro Servizi Amministrativi per la Provincia di Brindisi, in persona del legale rappresentante p.t., entrambi rappresentati e difesi dall’Avvocatura Generale dello Stato con domicilio in Roma via dei Portoghesi n. 12;

l’Istituto Tecnico Commerciale per Geometri "J Monet",
l’Ufficio Scolastico Regionale per la Puglia, entrambi non costituiti;

Camarda Giovanni, rappresentato e difeso dall’avv. Claudio Consales con domicilio eletto in Roma via Cosseria n. 2 presso l’avv. Alfredo Placidi;

per la riforma e/o l’annullamento

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale della Puglia, Sede di Lecce, n. 4559/2003;

visto il ricorso in appello con i relativi allegati;
visto l’atto di costituzione in giudizio delle parti intimate;
visti gli atti tutti di causa;
relatore, alla pubblica udienza del 15 aprile 2008, il Cons. Fabio Taormina;
Uditi l’Avvocato dello Stato Giannuzzi e l’avv. Cimino per delega dell’avv. Palmisano;
Ritenuto e considerato, in fatto e in diritto, quanto segue:

FATTO

Con il ricorso di primo grado, era stato chiesto dall’odierno appellato Camarda Giuseppe, l’annullamento della nota n. 1111/C-21 del Dirigente Scolastico dell’ITCG di Ostini in data 10.4.2003, la quale questi era stato dichiarato docente soprannumerario nell’organico 2003/2004 dell’ITCG di Ostuni;
del trasferimento d’ufficio, pubblicato all’albo del CSA di Brindisi il 23.5.2003;
di ogni atto presupposto, connesso e/o consequenziale
I primi Giudici, hanno in primis ritenuta sussistere la propria giurisdizione, con riferimento al primo degli atti suindicati, avendo qualificato il provvedimento impugnato quale atto incidente " sul lato esterno dell’organizzazione del Servizio scolastico (cioè sulle linee fondamentali dell’organizzazione dell’Amministrazione scolastica), e pertanto rientrante nel novero degli atti cd. di macro organizzazione ex art. 2, comma 1, D.Lg.vo n. 165/2001.
Hanno poi, in secondo luogo, accolto il ricorso, limitatamente alla parte in cui è stata impugnata la nota del Dirigente Scolastico dell’ ITCG di Ostuni, con la quale l’odierno appellato era stato illegittimamente qualificato docente soprannumerario, mentre hanno invece dichiarato inammissibile il ricorso di primo grado per difetto di giurisdizione, nella parte in cui è stato impugnato il trasferimento d’ufficio, dal momento che il predetto atto di trasferimento costituiva "un cd. atto di micro organizzazione (cioè un atto paritetico implicante l’esercizio dei poteri del datore di lavoro privato, a fronte dei quali il dipendente vanta solo diritti soggettivi e non interessi legittimi), attinente alla gestione del rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti privatizzati (cfr. art. 4, comma 2, e art. 5, comma 2, D.Lg.vo n. 165/2001), il quale spetta ai sensi dell’art. 63, comma 1, D.Lg.vo n. 165/2001 alla cognizione del Giudice Ordinario, in funzione di Giudice del Lavoro."
L’odierno appellante, già resistente in primo grado, ha proposto un articolato atto d’appello- ed una successiva diffusa memoria- con cui ha censurato la predetta sentenza chiedendone l’annullamento in quanto viziata da errore ed illegittima.
Il Tar avrebbe dovuto declinare integralmente la propria giurisdizione, anche all’elementare scopo di evitare conflitti di giudicati con il G.O. Nel merito, la sentenza era palesemente errata e resa in violazione di legge.
L’appellato ha depositato una memoria chiedendo la reiezione dell’appello e la conferma dell’impugnata sentenza, in quanto la medesima era da ritenersi corretta e priva di emende.
Alla camera di consiglio del 28.2.2003 fissata per l’esame dell’istanza cautelare di sospensione della esecutività della sentenza appellata la Sezione con ordinanza n. 3800/2003 ha accolto la predetta istanza e sospeso la esecutività della impugnata decisione.

DIRITTO

La sentenza deve essere annullata senza rinvio, ravvisandosi ricorrere nel caso di specie la giurisdizione del Giudice ordinario.
Invero la ricostruzione contenuta nell’appellata sentenza non tiene conto del costante orientamento della Suprema Corte di Cassazione -condiviso dalla Sezione in quanto rispondente ad elementari esigenze di certezza in ordine alla individuazione del Giudice fornito del potere di decidere la controversia- a tenore del quale, salve le ipotesi c.d. di provvedimenti macro organizzatori, il Giudice competente a conoscere le controversie in materia di pubblico impiego è il Giudice Ordinario.
Ancora di recente, il Supremo Collegio ha affermato (e la ratio della decisione la cui massima di seguito si riporta ben può essere trasposta al caso in questione) che
"Ai sensi dell'art. 68 del d.lg. n. 29 del 1993 (nel testo modificato dall'art. 29 del d.lg. n. 80 del 1998, trasfuso nell'art. 63 del d.lg. n. 165 del 2001) sono attribuite alla giurisdizione del giudice ordinario tutte le controversie riguardanti il rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni in ogni sua fase, dalla instaurazione sino all'estinzione, mentre sono devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo le controversie concernenti gli atti amministrativi adottati dalle pubbliche amministrazioni nell'esercizio del potere loro conferito dall'art. 2, comma 1, del d.lg. n. 29 del 1993 (riprodotto nell'art. 2 del d.lg. n. 165 del 2001) aventi ad oggetto la fissazione delle linee e dei principi fondamentali delle organizzazioni degli uffici - nel cui quadro i rapporti di lavoro si costituiscono e si svolgono - caratterizzati da uno scopo esclusivamente pubblicistico, sul quale non incide la circostanza che gli stessi, eventualmente, influiscono sullo status di una categoria di dipendenti, costituendo quest'ultimo un effetto riflesso, inidoneo ed insufficiente a connotarli delle caratteristiche degli atti adottati iure privatorum. "(Cassazione civile , sez. un., 13 luglio 2006, n. 15904).
Ritiene la Sezione di potere affermare che perché possa ravvisarsi provvedimento organizzatorio devoluto alla cognizione del plesso giurisdizionale amministrativo debba necessariamente possedere natura estesa, sotto il profilo oggettivo, ovvero "categoriale", mentre non appare errato definire l’ipotesi in oggetto limitata e residuale.
Ciò discende non soltanto dal testo della norma di riferimento, ma deriva altresì da esigenze di semplificazione della tutela giurisdizionale, chè altrimenti si onererebbe il dipendente che si sentisse leso da un atto reso dall’amministrazione ed incidente sulla propria posizione lavorativa, a proporre una doppia impugnativa, innanzi a due distinti plessi giurisdizionali, con evidenti inconvenienti in termini di aggravio dell’accesso alla tutela giustiziale (si veda, in tema di esigenza di concentrazione del giudizio, tra le tante, Cass. Civ., sez. un., 7 marzo 2003, n. 3508).
Orbene, nel caso di specie, ci si trova al cospetto di un atto, avente sì natura provvedi mentale "organizzatoria", ma prodromico e connesso rispetto a quello concernente l’odierno appellante in relazione al quale correttamente il Tar ha declinato la propria giurisdizione.
Concerne sì il "lato esterno" del servizio scolastico: ma non possiede caratteristiche organizzatorio/categoriali e, per di più, riguarda un singolo soggetto.
Aderendo alla impostazione seguita dai primi Giudici, sarebbe ben arduo individuare un atto non "organizzatorio" ogniqualvolta l’amministrazione scolastica deliberi in ordine alla posizione di un docente: volendo fare un esempio che può apparire paradossale, anche allorchè viene autorizzata la frequenza di un corso di aggiornamento, ovvero concesso un periodo di aspettativa, si incide sul "lato esterno del servizio"; ciò non implica, tuttavia, che della cognizione della legittimità di detti provvedimenti debba essere investito il plesso giurisdizionale amministrativo.
Anche nelle ipotesi dianzi citate ricorrerebbe per il vero quella che i Giudici di primo grado hanno definito "l’adeguamento dell’organico assegnato alle esigenze in concreto manifestatesi, determinante cioè il cd. "organico di fatto" e l’effettiva dotazione organica complessiva, incidente così sul lato esterno dell’organizzazione del Servizio scolastico".
Una simile estensiva interpretazione del concetto di atto "macroorganizzatorio", si risolverebbe in un appesantimento dell’accesso alla tutela giustiziale.
Frustrerebbe la esigenze di concentrazione del giudizio a più riprese affermate dalla Corte regolatrice della giurisdizione. Ed appare già distonica rispetto al referente legislativo, ove si consideri che l’atto riguarda un singolo e determinato docente.
Al contrario, giova evidenziare che la concorde giurisprudenza di primo grado civile ed amministrativa (Tribunale Isernia, 20 gennaio 1999, T.A.R. Puglia Lecce, sez. II, 1 giugno 2002, n. 1985), ha condivisibilmente ritenuto sussistere la giurisdizione del giudice ordinario in materia di sindacato dei criteri di assegnazione di cattedre a personale docente di ruolo (altresì ritenendo, sotto altro profilo, che "la pretesa, concernente l'annullamento del provvedimento del dirigente del liceo scientifico in assegnazione delle cattedre di matematica e fisica, con specifico riferimento all'assegnazione al corso sperimentale per la sola fisica, riguarda questioni attinenti al rapporto di lavoro alle dipendenze della p.a., devolute al giudice ordinario").
Nel caso di specie, ricorre una ipotesi di atto non macrorganizzatorio, spettante alla cognizione del giudice ordinario ex art. 63, d.lg. 30 marzo 2001 n. 165, considerato che, ai sensi dell'art. 5 del citato decreto, le determinazioni per l'organizzazione degli uffici e le misure inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro, sono assunte dagli organi preposti alla gestione con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro.
Deve pertanto rilevarsi il difetto di giurisdizione del Tar adito con riferimento alla controversia in esame.
Occorre a questo punto verificare quali provvedimenti la Sezione debba adottare per dare attuazione al principio - affermato, sia pure sulla base di percorsi argomentativi in parte divergenti, tanto dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (22 febbraio 2007, n. 4109) tanto dalla Corte costituzionale (12 marzo 2007, n. 77) – secondo il quale, allorquando un giudice declini al propria giurisdizione affermando quella di un altro giudice, il processo può proseguire innanzi al giudice fornito di giurisdizione e rimangono salvi gli effetti sostanziali e processuali della domanda proposta davanti al giudice giurisdizionalmente incompetente.
In attesa dell’intervento legislativo auspicato dalla Corte costituzionale, il Collegio ritiene che per dare attuazione al principio enunciato dalle sopra indicate sentenze sia necessario:
a) rimettere le parti davanti al Giudice ordinario affinché dia luogo al processo di merito: tale rimessione, invero, da un lato, evita "l'inaccettabile conseguenza di un processo, che si debba concludere con una sentenza che confermi soltanto la giurisdizione del giudice adito senza decidere sull'esistenza o meno della pretesa" (Cass. sez. un. n. 4109/2007), e, dall’altro, è funzionale alla riconosciuta esigenza di far salvi gli effetti processuali e sostanziali della domanda;
b) precisare, comunque, che sono salvi gli effetti sostanziali e processuali della domanda: a tale precisazione da parte di questo Giudice non osta, infatti, la circostanza che sarà poi il Giudice ad quem a dover fare applicazione del principio della salvezza degli effetti. Del resto, è la stessa sentenza della Corte costituzionale n. 77/2007, a confermare implicitamente che la dichiarazione della salvezza degli effetti non è prerogativa esclusiva del Giudice ad quem, perché, altrimenti, la questione di costituzionalità dell’art. 30 L. n. 1034/1971 (e cioè di una norma che trova applicazione nel processo amministrativo) avrebbe dovuto essere dichiarata inammissibile per difetto di rilevanza. La Corte costituzionale, invece, ha dichiarato illegittima tale norma nella parte in cui non prevede che "gli effetti, sostanziali e processuali, prodotti dalla domanda proposta a giudice privo di giurisdizione si conservino, a seguito di declinatoria di giurisdizione, nel processo proseguito davanti al giudice munito di giurisdizione". In tal modo la Corte sembra riconoscere che quella relativa alla conservazione degli effetti della domanda è una questione che rileva, in primo luogo, davanti al Giudice che declina la giurisdizione;
c) infine, onde, evitare l’inconveniente, evidenziato in dottrina, di una azione sospesa sine die, e come tale sine die nella disponibilità assoluta di una delle parti, insieme alla precisazione della salvezza degli effetti, fissare un termine entro cui tale salvezza opera (il che conferma ulteriormente che la sentenza che declina la giurisdizione debba contenere la dichiarazione della salvezza degli effetti, anche al fine di delimitarne la durata),
Ai fini dell’individuazione di tale termine può essere applicato analogicamente, come hanno già affermato alcune sentenze di primo grado - seguendo le indicazioni fornite da autorevole dottrina - l’art. 50 c.p.c., anche perché, con l’affermazione del principio della translatio anche tra diverse giurisdizioni (e non solo tra diversi giudici appartenenti allo stresso plesso giurisdizionale), il difetto di giurisdizione diventa per molti aspetti analogo al difetto di competenza del giudice adito.
L’art. 50 c.p.c. prevede che sia lo stesso giudice che si dichiara incompetente a fissare il termine per la riassunzione davanti al giudice ritenuto competente; in mancanza di tale indicazione, il termine per la riassunzione è di sei mesi dalla comunicazione della sentenza.
Il Collegio, applicando tale norma, fissa il termine per la riassunzione davanti al giudice ordinario – termine fino alla scadenza del quale saranno salvi gli effetti sostanziali e processuali della domanda – in sei mesi decorrenti dalla comunicazione o, se anteriore, dalla notificazione della presente decisione.
Alla luce delle considerazioni che precedono, la sentenza di primo grado deve essere annullata per difetto di giurisdizione, con rinvio davanti al giudice ordinario perché dia luogo al giudizio di merito.
Sono dichiarati salvi gli effetti sostanziali e processuali della domanda e si fissa il termine di sei mesi dalla comunicazione o, se anteriore, dalla notificazione della presente decisione, per la riassunzione davanti al giudice ordinario.
Le spese del giudizio possono essere compensate, sussistendo giusti motivi, anche in considerazione delle alterne interpretazioni giurisprudenziali anche di recente succedutesi in subiecta materia

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione VI, annulla per difetto di giurisdizione la sentenza di primo grado. Rimette le parti davanti al giudice ordinario perché dia vita al giudizio di merito, fissando per la riassunzione il termine di mesi sei dalla comunicazione o, se anteriore, dalla notificazione della presente decisione.
Spese del giudizio compensate.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'Autorità amministrativa.

Così deciso in Roma, il 15 aprile 2008, dal Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale - Sez.VI - nella Camera di Consiglio, con l'intervento dei Signori:
Giovanni Ruoppolo Presidente
Carmine Volpe Consigliere
Paolo Buonvino Consigliere
Roberto Chieppa Consigliere
Fabio Taormina Consigliere Rel.

Presidente
GIOVANNI RUOPPOLO
Consigliere Segretario
FABIO TAORMINA GIOVANNI CECI

DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 19/06/2008
(Art. 55, L.27/4/1982, n.186)
Il Direttore della Sezione
MARIA RITA OLIVA