giovedì 26 febbraio 2009

Consiglio di Stato, V, 17 febbraio 2009 n. 869

N. 864/09 REG.DEC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, (Quinta Sezione)


ha pronunciato la seguente
DECISIONE
sul ricorso in appello n. 9398/00 Reg. Gen., proposto dal signor Silverio MAZZELLA, rappresentato e difeso dall’Avv. Adriano Casellato ed elettivamente domiciliato presso il medesimo in Roma, viale Regina Margherita n. 290;
CONTRO
il Comune di Formia, in persona del Sindaco in carica, in atto rappresentato e difeso dall’Avv. Giampiero Amorelli ed elettivamente domiciliato presso il medesimo in Roma, via dei Mille n. 41/A;
per la riforma
della sentenza 19 aprile 2000 n. 210 del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sezione staccata di Latina, resa tra le parti.
Visto il ricorso con i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune appellato;
Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;
Vista l’ordinanza collegiale 13 maggio - 20 agosto 2008 n. 3975, con la quale il giudizio è stato dichiarato interrotto per decesso del difensore dell’Ente appellato;
Visto l’atto di riassunzione dell’appellante;
Visti gli atti di costituzione con nuovo difensore e comparsa di risposta del Comune di Formia;
Visti gli atti tutti della causa;
Alla pubblica udienza del 7 novembre 2008, relatore il consigliere Angelica Dell’Utri Costagliola, uditi per le parti gli Avv.ti Casellato e Pafundi, quest’ultimo per delega dell’Avv. Amorelli;
Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue:
F A T T O
Con atto di appello notificato il 27 settembre - 4 ottobre 2000 e depositato il 25 seguente il signor Silverio Mazzella ha esposto che con decisione 7 settembre 1989 n. 531 del Consiglio di Stato, sezione V, confermativa della sentenza 15 aprile 1988 n. 250 del TAR Lazio, sezione di Latina, era stata accertata la sussistenza di rapporto di pubblico impiego dal 21 giugno 1969 tra lo stesso Signor Mazzella, messo di conciliazione, ed il Comune di Formia; quanto alle pretese patrimoniali, era stata dichiarata la prescrizione di quelle dal 1969 al 1972 e l’inammissibilità di quelle fino al 30 giugno 1978, mentre per il periodo successivo il detto Comune era stato condannato al pagamento delle differenze retributive, interessi e rivalutazione monetaria. Con successiva decisione 23 luglio 1994 n. 808 della medesima Sezione V è stato ritenuto che l’obbligo nascente dal giudicato comportasse l’attribuzione dell’anzianità giuridica dal 21 giugno 1969. Pur essendo stata accertata con sentenza passata in giudicato la sussistenza di rapporto di lavoro subordinato con il Comune di Formia e pur avendo detto Comune utilizzato l’attività dell’appellante con continuità ed esclusività, nel periodo da tale data (decorrenza giuridica) al 20 settembre 1978 (decorrenza economica) egli non ha percepito il trattamento economico corrispondente a quello di messo comunale, bensì somme inferiori in base a contratti annuali. Ha perciò proposto davanti al TAR Lazio, sezione di Latina, azione di arricchimento senza giusta causa, chiedendo che l’Ente fosse condannato al pagamento, a titolo di indennizzo ai sensi dell’art. 2041 c.c., delle differenze retributive al lordo dei contributi previdenziali, aumentate per rivalutazione monetaria ed interessi legali. Il TAR ha però respinto tale ricorso con sentenza 19 aprile 2000 n. 210, gravata in questa sede.

A sostengo dell’appello ha dedotto:

1.- Il TAR ha ritenuto che l’azione non sarebbe esperibile per la stessa pretesa dichiarata prescritta e inammissibile, aggiungendo che in ogni caso mancherebbe la prova della diminuzione patrimoniale.

2.- In tal modo il TAR non ha tenuto presente la diversità tra le due azioni e, nel contempo, che la prova della diminuzione patrimoniale è stata fornita con l’espresso riferimento allo stipendio che il ricorrente ha percepito per le stesse funzioni nell’ambito dello stesso rapporto d’impiego nel periodo non prescritto.

3.- La sentenza è ingiusta ed erronea anche per la condanna del ricorrente alle spese di giudizio.

Il Comune di Formia si è costituito in giudizio ed ha chiesto la reiezione dell’appello perché inammissibile, irricevibile ovvero infondato anche per lo spirare del termine di prescrizione di cui all’art. 2948, n. 4) c.c., o in subordine quello di cui all’art. 2946 c.c..

Fissata l’udienza del 13 maggio 2008, il domiciliatario del difensore costituito dell’Ente ha dichiarato il decesso del medesimo difensore; pertanto il processo è stato interrotto con ordinanza 13 maggio – 20 agosto 2008 n. 3975/08. Già con atto notificato il 26 giugno 2008 e depositato il 22 luglio seguente il signor Mazzella ha riassunto il giudizio.

In data 5 settembre 2008 il Comune di Formia si è costituito in giudizio con nuovo difensore e con memoria del successivo 22 ottobre 2008 ha svolto controdeduzioni ed ha riproposto le eccezioni di giudicato e di prescrizione implicitamente assorbite dal TAR.

All’odierna udienza pubblica l’appello è stato posto in decisione.
D I R I T T O
Com’è esposto nella narrativa che precede, la questione sottoposta all’esame della Sezione concerne differenze retributive, rivendicate dall’attuale appellante signor Silverio Mazzella mediante l’azione di arricchimento senza causa di cui all’art. 2041 cod. civ., aumentate per rivalutazione ed interessi e relative al periodo dal 21 giugno 1969 (decorrenza giuridica del rapporto di lavoro subordinato con il Comune di Formia quale messo comunale, la cui sussistenza è stata accertata con decisione 7 settembre 1989 n. 531 di questa Sezione) al 30 settembre 1978 (decorrenza economica del detto rapporto), durante il quale egli rappresenta di aver percepito non il trattamento economico corrispondente a quello di dipendente comunale non di ruolo di pari qualifica e funzioni, bensì somme inferiori a seguito di contratti annuali.

Lo stesso appellante espone che analoghe pretese patrimoniali, avanzate nell’ambito dell’azione diretta all’accertamento del rapporto di lavoro subordinato alle dipendenze del Comune di Formia, sono state dichiarate in parte prescritte ed in parte inammissibili.

Il giudice di primo grado ha ritenuto l’esperita azione di arricchimento senza causa non proponibile, poiché esclusa dall’astratta possibilità di soddisfare le pretese in parola con azione specifica, in realtà infruttuosamente svolta, nonché infondata, mancando la prova di una effettiva diminuzione patrimoniale subìta.

In questa sede il signor Mazzella lamenta, in ordine al primo profilo, che il TAR abbia ignorato come per quel periodo gli sia stato comunque riconosciuto il titolo giuridico che gli darebbe oggi diritto non alla stessa azione (per recupero di stipendi arretrati), ma alla nuova e distinta azione sussidiaria ex art. 2041 cod. civ., avendo comunque la pubblica amministrazione utilizzato le proprie prestazioni senza corrispondergli la retribuzione dovuta al dipendente comunale con le stesse funzioni. E, in ordine al secondo profilo, di aver invece fornito la prova predetta mediante l’espresso riferimento al documentato stipendio che egli ha poi percepito per le stesse funzioni, nell’ambito dello stesso rapporto e con riguardo al periodo non prescritto.

L’appello è infondato poiché la pronuncia appellata merita piena conferma.

Ai sensi dell’art. 2042 cod. civ., l’azione di arricchimento senza causa prevista dall’articolo precedente ha "carattere sussidiario", ossia "non è proponibile quando il danneggiato può esercitare un’altra azione per farsi indennizzare il pregiudizio subito".

Come bene evidenziato dal TAR, la valutazione della possibilità di realizzare altrimenti la stessa pretesa deve operarsi in astratto, ossia nel senso che occorre verificare l’insussistenza di altri rimedi tipici, messi a disposizione dall’ordinamento, idonei a rimuovere il pregiudizio di che trattasi.

Nella specie non è dubbio che l’ordinamento offrisse al signor Mazzella un’azione tipica in tema di retribuzione di prestazioni lavorative rese in favore di un’amministrazione pubblica, tanto che egli ne ha fatto uso, sia pur con esito negativo, sicché la nuova azione era sicuramente inammissibile.

Oltretutto, la svolta domanda era da ritenersi in ogni caso infondata in relazione all’omessa dimostrazione di un impoverimento subito per effetto dell’arricchimento dell’altro soggetto, impoverimento che è altra cosa rispetto al mancato incremento patrimoniale (cfr. Cons. St., sez. V, 3 ottobre 2002 n. 5209, nonché sez. IV, 6 agosto 2005 n. 4171 e Sez. 5 dicembre 2006 n. 7118).

Non senza dire che l’azione in parola era comunque prescritta per l’inutile decorso di ben oltre un decennio, come a suo tempo eccepito dal resistente Comune di Formia e da esso ribadito in questa sede, tenuto conto che la domanda giudiziale idonea ad interrompere la prescrizione è soltanto quella con cui l’attore chiede la tutela giuridica del diritto della cui prescrizione si tratta, con la conseguenza che la domanda proposta per chiedere l’adempimento di un’obbligazione derivante dalla legge (qual è quella a suo tempo avanzata dal signor Mazzella per il riconoscimento del rapporto di impiego pubblico e delle rispettive differenze retributive), non vale ad interrompere la prescrizione dell’azione di indebito arricchimento successivamente esperita con riferimento alla medesima situazione di fatto (cfr. Cass., sez. III, 29 marzo 2005 n. 6570 e sez. un., 4 febbraio 1997 n. 1049).

L’appellante contesta la sentenza appellata anche quanto alla statuizione di condanna alle spese. Al riguardo si osserva che, com’è noto, nel giudizio di appello la sentenza del giudice di primo grado recante la condanna alle spese del giudizio è sindacabile solo quando le spese stesse siano state poste a carico di una parte non soccombente, oppure quando la relativa statuizione risulti manifestamente irrazionale, e non quando, come nella specie, la condanna sia stata disposta in base al criterio della soccombenza (cfr., tra le tante, Cons. St., sez. IV, 15 luglio 2008 n. 3564).

In conclusione, l’appello dev’essere respinto. Tuttavia, ragioni di equità consigliano la compensazione tra le parti delle spese di questo grado.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quinta, respinge l’appello in epigrafe.

Spese compensate.

Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 7 novembre 2008 con l’intervento dei magistrati:

Raffaele Iannotta Presidente

Cesare Lamberti Consigliere

Claudio Marchitiello Consigliere

Marzio Branca Consigliere

Angelica Dell’Utri Costagliola Consigliere, estensore

L’ESTENSORE IL PRESIDENTE

Angelica Dell’Utri Costagliola Raffaele Iannotta

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

17/02/2009


TAR Sardegna, sez. I, 25 febbraio 2009 n. 226

N. 00064/2009 REG.RIC.
N. 00226/2009 REG.SEN.

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sardegna
(Sezione Prima)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
Sul ricorso numero di registro generale 64 del 2009, proposto da:
Congiu Raimondo, rappresentato e difeso dall'avv. Emanuela Vargiu, con domicilio eletto presso Emanuela Vargiu in Quartucciu, via delle Serre n.64;
contro
Argea Agenzia Regionale Gestione ed Erogazione Aiuti Agricoli e Argea Sede di Oristano, rappresentata e difesa dagli avv. ti Fabio Cuccuru e Marcello Serra, con domicilio eletto presso Fabio Cuccuru in Cagliari, c/o Ersat - via Caprera n. 8;;
nei confronti di
Societa' Sgaravatti Land Scarl, non costituitasi in giudizio;
Ditta Barroccu Antonietta, non costituitasi in giudizio;
per la condanna
della ARGEA Sardegna a provvedere all'esibizione di tutti gli atti e documenti richiesti con istanza del 15 ottobre 2008, con riferimento alle ditte Sgaravatti Land Scarl e Barroccu Antonietta, quali beneficiarie del contributo POR Sardegna 2000/2006 misura 4.9 L, accesso cui è stato dato riscontro negativo, per tali due ditte, con la nota dell’ARGEA Sardegna del 25 novembre 2008 -
DINIEGO ACCESSO ATTI.
Visto il ricorso con i relativi allegati;
visto l'atto di costituzione in giudizio di Argea Agenzia Regionale Gestione ed Erogazione Aiuti Agricoli;
viste le memorie difensive;
visti tutti gli atti della causa;
relatore nella camera di consiglio del giorno 11/02/2009 il Consigliere Grazia Flaim;
uditi per le parti i difensori Vargiu per il ricorrente e Serra per l’ARGEA;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue:
FATTO
Il ricorrente, che ha avuto (solo) un parziale accoglimento di domanda di finanziamento, ha formulato istanza di accesso all’ARGEA per conoscere le pratiche istruite nell'analogo settore (florovivaismo). Ha potuto ottenere la visione dei fascicoli riferiti a soggetti che non avevano manifestato opposizione all’accesso.
Contrariamente, per due posizioni (Sgaravatti Land Scarl e Barroccu Antonietta) l'amministrazione ha ritenuto di non concedere la visione in quanto tali interessati si erano opposti, ritenendo che la diffusione di "informazioni aziendali" sarebbero state lesive.
Conseguentemente l’ARGEA ha sostanzialmente negato la visione di questi due fascicoli.
DIRITTO
Il ricorrente ha la necessità di consultare le pratiche che sono state istruite dal medesimo ufficio, riferite allo stesso settore per il quale egli ha ottenuto un (solo) parziale contributo.
A fronte di tale posizione gli interessati hanno opposto esigenze di tutela e di riservatezza.
La verifica del richiedente è però elemento inevitabile per poter controllare la correttezza e l'omogeneità negli accertamenti svolte dall'ufficio competente.
Sulla problematica in esame si è espressa la giurisprudenza, di primo e di secondo grado, che ha riconosciuto la fondatezza delle richieste di accesso, adottando un'interpretazione decisamente ampia e onnicomprensiva.
"Il diritto di accesso ai documenti amministrativi prevale sull'esigenza di riservatezza del terzo ogni qualvolta l'accesso venga in rilievo per la cura o la difesa di interessi giuridici del richiedente in quanto titolare di una posizione soggettiva giuridicamente rilevante e qualificata dall'ordinamento come meritevole di tutela." (Consiglio Stato , sez. V, 13 giugno 2008 , n. 2975).
"Ai sensi dell'art. 24 comma 7, l. n. 241 del 1990, prevalgono le esigenze difensive a fronte delle esigenze di tutela della riservatezza delle posizioni, anche industriali e finanziare" (T.A.R. Lazio Roma, sez. III, 09 settembre 2008 , n. 8186).
"Il diritto di accesso ai documenti amministrativi riconosciuto dagli artt. 22 e ss., l. 7 agosto 1990 n. 241 prevale sulle esigenze di riservatezza del terzo ogniqualvolta l'accesso venga in rilievo per la cura o la difesa di interessi giuridici del richiedente. In tal senso, il diritto ad accedere ai documenti sussiste anche in relazione a dati particolarmente sensibili, allorché preordinato alla tutela giudiziale di interessi di pari dignità costituzionalmente tutelati" (T.A.R. Trentino Alto Adige Trento, 16 luglio 2008, n. 170).
"Ai sensi dell'art. 13 d.lg. 12 aprile 2006, n. 163, il diritto di un concorrente ad una gara pubblica ad accedere agli atti della procedura prevale sul diritto alla riservatezza degli altri partecipanti." (T.A.R. Puglia Lecce, sez. II, 09 luglio 2008 , n. 2087).
"Gli atti, una volta acquisiti alla procedura d'appalto, sono diventati di pertinenza dell'Amministrazione e sono essenziali per la validità dell'esito della gara, con la conseguenza che la riservatezza dei terzi recede in nome della imparzialità amministrativa, anche perché i partecipanti alla selezione hanno implicitamente acconsentito alla comparazione dei requisiti generali posseduti e, quindi, anche alla verifica sulla sussistenza di quelli richiesti per poter partecipare alle procedura selettiva" (T.A.R. Abruzzo Pescara, sez. I, 21 novembre 2008, n. 926).
"Con la partecipazione alla gara, la documentazione viene sottoposta a valutazione comparativa che, per sua natura, esclude, in occasione di un'istanza di accesso, la prevalenza della tutela della riservatezza a fronte di esigenze di tutela giurisdizionale della posizione giuridica di un partecipante alla gara insoddisfatto" (T.A.R. Campania Napoli, sez. V, 10 ottobre 2008 , n. 14691).
Vedi anche T.A.R. Lazio Roma, sez. III, 08 luglio 2008 , n. 6450.
In conclusione la domanda va accolta .
Le spese seguono la soccombenza e vengono quantificati in dispositivo.
P.Q.M.
accoglie il ricorso in epigrafe e ordina la visione, l'esibizione (e, se richiesto, il rilascio di copia) della documentazione inerente le pratiche presentate dalle due ditte contro interessate.
Condanna la Argea al pagamento delle spese ed onorari di giudizio, che si quantificano in € 2000.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Cagliari nella camera di consiglio del giorno 11/02/2009 con l'intervento dei Magistrati:
Paolo Numerico, Presidente
Silvio Ignazio Silvestri, Consigliere
Grazia Flaim, Consigliere, Estensore
L'ESTENSORE
IL PRESIDENTE
DEPOSITATA IN SEGRETERIA il 25/02/2009
(Art. 55, L. 27/4/1982, n. 186)
IL SEGRETARIO

lunedì 23 febbraio 2009

Consiglio di Stato, sez. V, 19 settembre 2008, n. 4522

N. 4522/08 REG.DEC.
N. 140 REG:RIC. ANNO 2007

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Quinta Sezione
ha pronunciato la seguente
DECISIONE
sul ricorso in appello n. 140/2007, proposto da Garbellini s.r.l., in persona del legale rappresentante, rappresentata e difesa dall’Avvocato Franco Ferru ed elettivamente domiciliata presso lo studio dell’Avv. Maria Teresa Barbantini, in Roma, Viale Giulio Cesare, n. 14.
CONTRO
il comune di Occhiobello, in persona del sindaco in carica, rappresentato e difeso dagli Avvocati Prof. Mario Bertolissi, Amleto Cattarin e Andrea Manzi ed elettivamente domiciliato presso lo studio di quest’ultimo, in Roma, Via Confalonieri, n. 5.
E NEI CONFRONTI
della ACFT S.p.A. e dell’AMI – Agenzia Mobilità Impianti Ferarra, non costituite in giudizio.
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto, Sezione Prima, 10 luglio 2006 n. 1979.
Visto il ricorso con i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio della parte appellata;
Esaminate le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;
Visti tutti gli atti di causa;
Relatore alla pubblica udienza del 15 aprile 2008, il Consigliere Marco Lipari;
Uditi gli avv.ti Barbantini, Manzi e Bartolissi come da verbale di udienza;
Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue:
FATTO
La sentenza impugnata ha dichiarato irricevibile il ricorso proposto dall’attuale appellante, per l'annullamento della deliberazione consiliare del Comune di Occhiobello n. 32 del 30 marzo 2006; della deliberazione di Giunta Municipale n. 94 del 30 maggio 2006; della determinazione del responsabile Area Amministrativa n. 20 del 31 maggio 2006.
L’appellante contesta la pronuncia di irricevibilità e ripropone le censure non esaminate dal tribunale. Il comune resiste al gravame, mentre le altre parti non si sono costituite in giudizio.
DIRITTO
La società appellante, ricorrente in primo grado, è affidataria dell’autolinea interregionale "Castelmassa (RO) – Ferrara", la quale serve anche, senza soluzione di continuità, il complesso urbano formato dal capoluogo del comune di Occhiobello e dalla Frazione di Santa Maria Maddalena. In tale veste, ha impugnato i provvedimenti adottati dal comune di Occhiobello, indicati in narrativa, con ricorso notificato il 15 giugno 2006.
L’appellante contesta la pronuncia di irricevibilità del ricorso, sostenendo, in primo luogo, che i provvedimenti impugnati sono nulli, ai sensi dell’articolo 21-septies della legge n. 241/1990, per mancanza dell’oggetto. Pertanto, la domanda proposta non è soggetta al termine decadenziale di sessanta giorni, riferito solo ai ricorsi volti all’annullamento dei provvedimenti contestati.
A dire dell’appellante, i tre atti impugnati "dispongono la proroga e/o l’indizione della gara d’appalto del servizio di trasporto pubblico "aggiuntivo" mai venuto in essere né giuridicamente né attualmente".
A sostegno della propria tesi, la società appellante richiama la disciplina normativa regionale, la quale prevede che i "servizi di trasporto aggiuntivi" debbano essere individuati mediante atti di programmazione regionale, nel rispetto di determinati parametri sostanziali.
Pertanto, secondo l’appellante, in assenza dei prescritti atti regionali, i provvedimenti impugnati risultano privi del necessario oggetto.
La tesi dell’appellante non è condivisibile.
L’articolo 21-septies della legge n. 241/1990, introdotto dalla legge n. 15/2005, ha codificato la categoria concettuale del provvedimento amministrativo nullo.
La norma indica, in modo sommario, le ipotesi di nullità, includendovi anche i casi di mancanza di uno degli elementi essenziali dell’atto.
In assenza di una esplicita indicazione legislativa degli elementi essenziali del provvedimento, è possibile sviluppare una lettura interpretativa della disposizione, modellata sulle nozioni sostanziali di derivazione civilistica, concernenti il contratto e il negozio giuridico.
In questa prospettiva, quindi, è corretta l’impostazione generale seguita dall’appellante, secondo cui l’oggetto del provvedimento costituisce uno degli elementi essenziali dell’atto e la sua eventuale mancanza determina la nullità del provvedimento.
Peraltro, nemmeno l’oggetto del provvedimento amministrativo è esplicitamente definito dalla legge. Anche nella prospettiva civilistica, poi, la categoria generale dell’oggetto del contratto non è precisata in sede legislativa e, in via interpretativa, essa è delineata secondo prospettive teoriche molto diverse.
Senza analizzare, nel dettaglio, le varie tesi prospettate, risulta preferibile l’opinione, seguita dalla giurisprudenza prevalente, secondo cui l’oggetto indica la porzione di realtà giuridica e materiale su cui l’atto è destinato ad incidere.
Pertanto, nel caso di specie, la domanda proposta dall’interessata non può essere qualificata come deduzione della mancanza dell’oggetto dei provvedimenti contestati.
Questi indicano con chiarezza il loro riferimento oggettivo al servizio di trasporto locale, qualificato come aggiuntivo. L’eventuale mancanza del presupposto sostanziale, rappresentato, a giudizio dell’appellante, dalla individuazione effettuata nell’ambito della programmazione regionale, comporterebbe, se accertata, l’illegittimità degli atti per violazione di legge (da far valere nell’ordinario termine decadenziale) e non già la nullità dei provvedimenti per asserita mancanza di oggetto
Con un secondo motivo, l’appellante sostiene che la deliberazione consiliare n. 32/1996 "si articola in due manifestazioni: una effettivamente provvedimentale ed una meramente intenzionale e/o di direttiva interna".
La parte provvedimentale riguarderebbe la conferma del servizio di trasporto pubblico urbano. Viceversa, la parte meramente programmatica si riferirebbe alla decisione riguardante l’indizione della gara per l’affidamento del servizio.
La determinazione provvedimentale riguardante la gara si concentra, invece, nella delibera della giunta municipale n. 94/2006, la quale determina i contenuti e i requisiti specifici della gara.
Pertanto, l’eventuale tardività dell’impugnazione della deliberazione consiliare n. 32/2006 non inciderebbe sulla tempestività del ricorso proposto contro la delibera di Giunta n. 94/2006. Quest’ultima non potrebbe essere qualificata come atto meramente esecutivo, considerando la sua autonoma valenza provvedimentale.
Il motivo è infondato.
La delibera di giunta n. 94/2006 e la determinazione dirigenziale n. 20/2006 contengono nuovi effetti provvedimentali, i quali non sono riconducibili alla mera esecuzione della deliberazione consiliare, ma risultano riferiti alle modalità di svolgimento della gara.
Tuttavia, va considerato che le censure proposte dall’appellante riguardano, esplicitamente, la sola decisione dell’amministrazione comunale di istituire un servizio di trasporto pubblico in una tratta interessata dall’attività della società interessata.
Pertanto, la lesione lamentata si riferisce, indiscutibilmente, alla prima parte ("provvedimentale") della delibera consiliare impugnata.
In definitiva, quindi, l’appello deve essere respinto, con la conferma della pronuncia di irricevibilità del ricorso proposto in primo grado.
Le spese possono essere compensate.
Per Questi Motivi
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quinta, respinge l'appello, compensando le spese;
ordina che la presente decisione sia eseguita dall'Autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 15 aprile 2008, con l'intervento dei signori:
Emidio Frascione - Presidente
Claudio Marchitiello - Consigliere
Marco Lipari - Consigliere Estensore
Aniello Cerreto - Consigliere
Vito Poli - Consigliere
L'estensore Il Presidente
f.to Marco Lipari f.to Emidio Frascione
DEPOSITATA IN SEGRETERIA 19/09/2008.

venerdì 20 febbraio 2009

Consiglio di Stato, sez. V, 13 febbraio 2009 n. 826

N. 826/09 REG.DEC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Quinta Sezione
ha pronunciato la seguente
DECISIONE
sui ricorsi riuniti iscritti:
- il primo al NRG 9088\2007, proposto da Spinosa Costruzioni Generali s.r.l. in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Nicola Marcone ed elettivamente domiciliato presso quest'ultimo in Roma, via G. Mercalli n. 11;
contro
Comune di Firenze, in persona del sindaco pro tempre, non costituito;
Impresa Pisa Costruttori s.p.a. - successore della Romagnoli s.p.a. – in proprio e quale mandataria dell’a.t.i. con la C.T.C. Consorzio Toscano Costruzioni, in persona del legale rappresentante pro tempore, non costituita;
e nei confronti di
Saced s.r.l. in persona del legale rappresentante pro tempore, non costituita;
Ingg. Provera e Carrassi s.p.a. in persona del legale rappresentante pro tempore, non costituita;
- il secondo al NRG 9246\2007, proposto dall’Impresa Pisa Costruttori s.p.a. - successore della Romagnoli s.p.a. - in proprio e quale mandataria dell’a.t.i. con la C.T.C. Consorzio Toscano Costruzioni, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Calogero Narese ed elettivamente domiciliato presso lo studio Grez in Roma, Lungotevere Flaminio, n. 46, Pal. IV, Sc. B;
contro
Spinosa Costruzioni Generali s.r.l. in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Nicola Marcone ed elettivamente domiciliato presso quest'ultimo in Roma, via G. Mercalli n. 11;
e nei confronti di
Comune di Firenze, in persona del sindaco pro tempre, non costituito;
Saced s.r.l. in persona del legale rappresentante pro tempore, non costituita;
Ingg. Provera e Carrassi s.p.a. in persona del legale rappresentante pro tempore, non costituita;
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana, sezione seconda, n. 825 del 4 giugno 2007.
Visti i ricorsi in appello;
visto l’atto di costituzione in giudizio di Spinosa Costruzioni Generali s.r.l.;
viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;
visti gli atti tutti della causa;
data per letta alla pubblica udienza del 5 dicembre 2008 la relazione del consigliere Vito Poli, uditi gli avvocati Narese e Marcone;
ritenuto e considerato quanto segue:
FATTO e DIRITTO
1. Con bando di gara del 31 luglio 2002, il comune di Firenze indisse una gara, da aggiudicarsi col criterio del prezzo più basso, per la realizzazione dei lavori di completamento del Padiglione Sud del Centro d’Arte Contemporanea – II° Lotto -.
Per quanto di interesse ai fini della presente controversia, il bando stabiliva che l’amministrazione avrebbe proceduto alla valutazione ed eventuale esclusione delle offerte risultate anomale in base al meccanismo di calcolo previsto dall’art. 21, co. 1 bis, l. n. 109 del 1994; a tal fine le offerte sarebbero dovute essere corredate, fin dalla loro presentazione, da giustificazioni da fornirsi almeno sulla base dell’elaborato denominato "Elenco opere compiute"; in ogni caso, si precisava che nel rispetto delle prescrizioni europee, restava ferma la possibilità di un eventuale contraddittorio successivo e della produzione, da parte dei concorrenti, o su richiesta dell’amministrazione, di qualsiasi tipo di giustificazione ritenuta pertinente a dimostrare la congruità dell’offerta.
1.1. Nel corso della gara fu individuata la soglia di anomalia al 22,77%; inter alios, risultarono sospette le offerte delle seguenti imprese:
Romagnoli s.p.a. – in proprio e quale mandataria dell’a.t.i. con la C.T.C. Consorzio Toscano Costruzioni – (già aggiudicataria a suo tempo del primo lotto dei lavori di completamento), poi trasformatasi nella Pisa Costruttori s.p.a. (in prosieguo Pisa), con un ribasso del 22,87%;
Spinosa Costruzioni Generali s.r.l. (in prosieguo Spinosa), con un ribasso del 24,50%;
Saced s.r.l., con un ribasso del 28,63.
1.2. All’esito di una prima verifica di anomalia risultò immune la sola offerta della Pisa.
Con sentenza n. 5479 del 27 ottobre 2003 il T.a.r. per la Toscana dichiarò inammissibile un primo ricorso proposto dalla Spinosa avverso il giudizio di anomalia della propria offerta.
Con sentenza n. 5478 del 27 ottobre 2003 il medesimo T.a.r. accolse il ricorso proposto dalla Saced s.r.l. ed annullò tutta la fase del procedimento di verifica di anomalia delle offerte per la difettosa costituzione dell’organo chiamato a valutarle.
1.3. Il nuovo gruppo di lavoro costituito dal comune di Firenze rinnovò il procedimento di anomalia pervenendo alle medesime conclusioni, sicché in data 1 aprile 2004 la gara fu aggiudicata in via provvisoria alla ditta Pisa.
1.4. Con ricorso rubricato al nrg. 1167/2004 e successivi motivi aggiunti, la società Spinosa aggredì il giudizio di anomalia della propria offerta (ed in via derivata anche l’aggiudicazione provvisoria e definitiva della gara), lamentando nella sostanza:
la violazione del principio del contraddittorio, avendo reso giustificazioni su elementi che poi non erano stati effettivamente considerati dalla stazione appaltante in sede di giudizio di anomalia;
la validità dei giustificativi dei prezzi ritenuti inattendibili dall’amministrazione perché successivi alla data di presentazione dell’offerta;
la disparità di trattamento operata dall’organismo verificatore nel valutare le giustificazioni della Pisa e quelle rese da essa ricorrente.
Nel corso del giudizio il T.a.r. concesse la misura cautelare richiesta ordinando all’amministrazione di effettuare una ulteriore verifica, in contraddittorio, dell’offerta della Spinosa (cfr. ordinanza n. 717 del 29 giugno 2004).
Anche a conclusione di questa ennesima attività procedimentale la stazione appaltante confermò il giudizio di anomalia dell’offerta di Spinosa che si vide costretta ad articolare motivi aggiunti.
Il T.a.r., sempre nell’ambito del ricorso proposto da Spinosa, dispose c.t.u. per accertare la logicità dell’operato dell’organismo incaricato della valutazione di anomalia.
1.5. Con ricorso rubricato al nrg. 1210/2004 la società Ingg. Provera & Carrassi s.p.a. (in prosieguo Provera), che aveva presentato una offerta non esuberante la soglia di anomalia, ha impugnato l’aggiudicazione effettuata in favore della ditta Pisa sostenendo che l’offerta di quest’ultima avrebbe dovuto essere esclusa per anomalia.
1.6. Con ricorso rubricato al nrg. 2275/2004 la ditta Saced, a sua volta, ha chiesto l’annullamento sia della propria esclusione che del giudizio di non anomalia dell’offerta della Pisa.
2. L’impugnata sentenza – T.a.r. per la Toscana, sezione seconda, n. 825 del 4 giugno 2007 –:
ha riunito i tre ricorsi di primo grado;
ha ritenuto di esaminare in via prioritaria il ricorso proposto dalla Spinosa, nel presupposto che l’eventuale accoglimento dello stesso avrebbe esteso i suoi effetti favorevoli anche nei confronti degli altri due ricorsi (punti 3 e 21 lett. d);
ha ritenuto illegittima l’esclusione per anomalia della Spinosa, anche sulla scorta delle indicazioni fornite dal c.t.u., accogliendo il relativo ricorso;
ha accolto la domanda di risarcimento del danno in forma specifica, formulata dalla Spinosa, limitatamente all’obbligo per l’amministrazione di rinnovare, con esito libero, il procedimento di verifica di anomalia;
ha dichiarato improcedibili per sopravenuta carenza di interesse i ricorsi proposti dalle Imprese Provera e Saced (tale capo non è stato impugnato);
ha condannato il comune di Firenze al pagamento delle spese di lite e di c.t.u. in favore della Spinosa (anche tale capo non è stato impugnato).
3. Con ricorso rubricato al nrg. 9246/2007 - notificato il 14 e 15 novembre 2007, e depositato il successivo 26 novembre - la società Pisa ha interposto appello avverso la su menzionata sentenza del T.a.r. deducendo:
con il primo motivo, violazione dell’art. 21, comma 1 bis, l. n. 109 del 1994; violazione dell’art. 30 della direttiva n. 37/1993; erroneità e contraddittorietà della motivazione e della valutazione dei presupposti, omessa pronuncia su questioni determinanti; violazione dell’art. 15, d.m. n. 145 del 2000;
con il secondo motivo, violazione dei limiti del sindacato giurisdizionale; difetto, erroneità e contraddittorietà della motivazione; errata valutazione dei presupposti;
con il terzo motivo, violazione dell’art. 112 c.p.c., del principio di corrispondenza fra chiesto e pronunciato; violazione del principio del contraddittorio; violazione dell’art. 21, l. n. 109 del 1994; errata valutazione dei presupposti; difetto ed erroneità della motivazione.
4. Si è costituita la società Spinosa deducendo l'infondatezza del gravame in fatto e diritto.
5. Con ricorso avviato per la notifica a mezzo posta, ex art. 1, l. n. 53 del 1994, il 18 e 20 novembre 2007, e depositato il successivo 21 novembre, la società Spinosa, a sua volta, ha interposto appello – rubricato al nrg. 9088/2007 – deducendo:
con il primo motivo, l’illegittima estensione degli effetti dell’accoglimento del ricorso da essa proposto alle imprese Saced e Provera nonostante la declaratoria di improcedibilità dei gravami proposti da queste ultime;
con il secondo motivo, la condanna del comune di Firenze al risarcimento del danno in forma specifica mediante aggiudicazione diretta della gara in contestazione;
con il terzo motivo, infine, la condanna del comune al risarcimento dei danni per equivalente monetario, commisurato al mancato utile d’impresa ed alla perdita di chance.
6. Nel relativo giudizio non si è costituita nessuna delle parti intimate.
7. Le cause sono passate in decisione all’udienza pubblica del 5 dicembre 2008.
8. Gli appelli, proposti avverso la medesima sentenza, devono essere riuniti a mente dell’art. 335 c.p.c.
9. Preliminarmente deve essere respinta l’eccezione di tardività ed improcedibilità del gravame proposto dalla società Spinosa, vagheggiata nella memoria della società Pisa del 24 novembre 2008, in alternativa alla riunione degli appelli in trattazione.
L’eccezione si basa sul decisivo presupposto che tale appello avrebbe forma e sostanza di gravame incidentale.
La tesi è inaccoglibile.
L’appello proposto dalla società Spinosa, infatti, è qualificabile come incidentale in senso improprio perché volto a contestare capi autonomi dell’impugnata sentenza e dunque sorretto da autonomo interesse ad impugnare principaliter.
Se è vero che nel processo amministrativo si applica l'art. 333 c.p.c., a norma del quale la parte cui sia stata notificata l'impugnazione principale deve a sua volta proporre le proprie doglianze nello stesso processo in via incidentale - onde realizzare il simultaneus processus - è anche vero che, individuata la forma del secondo gravame, occorre analizzarne il contenuto sostanziale per l'individuazione della disciplina applicabile. Sicché ove questo, come nel caso di specie, si risolva non in una mera controimpugnazione su capi dipendenti o connessi da quelli contrastati principaliter, ma abbia ad oggetto doglianze autonome ed indipendenti, sarà soggetto ai termini ordinari per l'impugnazione previsti dall'art. 28, l. 6 dicembre 1971, n. 1034 e 327 c.p.c. (cfr. da ultimo Cons. St., sez. IV, 7 settembre 2006, n. 5196).
Nella specie il gravame incidentale improprio è stato ritualmente notificato e depositato.
In ogni caso, anche a voler considerare il gravame della Spinosa quale appello incidentale proprio, risultano rispettati, nel peculiare caso di specie, i termini di notificazione e deposito sanciti dall’art. 37, r.d. n. 1054 del 1924, ancorché dimezzati ex art. 23 bis, l. T.a.r., rispettivamente pari a 15 e 5 giorni.
10. Con il primo mezzo la società Pisa sostiene, nella sostanza, che le giustificazioni rese all’interno del sub procedimento di verifica dell’anomalia, non possano essere di data successiva a quella di presentazione dell’offerta originaria; sotto tale angolazione bene avrebbe fatto la stazione appaltante a ritenere inammissibili, quelle rese dalla Spinosa e, nel complesso, inattendibile l’offerta di quest’ultima.
Il mezzo è infondato.
Il sistema delle regole comunitarie (come interpretate dalla Corte di giustizia nella sentenza 27 novembre 2001, n. 285 e dalla giurisprudenza nazionale, cfr. ex plurimis Cons. St., sez. IV, 7 giugno 2004, n. 3554), anche antecedentemente alle direttive 17 e 18 del 2004 ed al codice degli appalti (d.lvo n. 163 del 2006) che le ha recepite (inapplicabile ratione temporis), non si oppone a che l’amministrazione richieda a pena di esclusione che le offerte presentate siano corredate da giustificazioni preventive anche in misura inferiore al 100%, purché sia garantita una effettiva fase di valutazione in contraddittorio, successivamente all’apertura delle buste.
Il principio, per essere attuato in modo pienamente conforme al sistema comunitario, va temperato con alcune precisazioni:
La procedura di verifica "a valle" deve essere attivata in ogni caso, non solo quando si abbiano dubbi e perplessità sull’attendibilità dell’offerta, ma anche quando i rilievi svolti dalla stazione appaltante riguardino i contenuti sostanziali della proposta negoziale, essendosi riscontrata la difformità della prestazione offerta rispetto a quella richiesta dal bando o dalla lettera di invito che avrebbe comportato l’inammissibilità dell’offerta medesima e non il giudizio di anomalia (cfr. Cons. St., sez. IV, 21 agosto 2002, n. 4268).
L’acquisizione preliminare di giustificazioni non può ovviamente concernere i chiarimenti e le precisazioni in merito all’affidabilità ed alla remuneratività della proposta contrattuale logicamente immaginabili solo in riscontro a puntuale e circoscritta richiesta dell’amministrazione (cfr. Cons. St., sez. IV, 7 giugno 2004, n. 3554);
L’integrazione delle giustificazioni originarie a mezzo di ulteriore produzione documentale, costituendo applicazione del principio comunitario del contraddittorio successivo, implica un fisiologico arricchimento degli elementi dedotti in origine, senza che la stazione appaltante possa dedurre il carattere nuovo ed ulteriore della documentazione rispetto a quella esibita in origine, con il limite, però, del divieto dello stravolgimento dell’offerta originaria, che non può trasformarsi, per il tramite delle seconde giustificazioni, in un quid di sostanzialmente nuovo o diverso (cfr. Cons. St., sez. IV, 7 giugno 2004, n. 3554).
Nel caso di specie, come risulta dall’esame di tutta la documentazione versata in atti, deve escludersi che le giustificazioni, ritenute inattendibili dal saggio di gara, alterassero gli elementi costitutivi dell’offerta.
Devono essere pertanto respinte tutte le censure articolate dalla società Pisa da pagina 22 a pagina 48 dell’atto di gravame.
Tali doglianze sono infondate, alla luce delle risultanze istruttorie, anche nella parte in cui contestano la fornitura dei diaframmi, della bentonite, degli impianti elettrici nonché la consistenza della riserva economica elaborata dalla Spinosa.
Per quanto specificamente attiene alla fornitura di due ascensori della ditta Schindler, la difesa della Pisa sostiene che i modelli offerti dalla ditta Spinosa sarebbero fuori produzione, donde il giudizio di incongruità del prezzo offerto formulato dal seggio di gara. Anche tale doglianza è priva di pregio in quanto l’amministrazione non si è avveduta che le cabine offerte dalla società Spinosa (modello Schindler S300 Design elegante S48) erano proprio quelle richieste dall’Elenco opere compiute (punto 30) sulla base del quale, a mente del bando di gara (cfr.pagina 2), le concorrenti avevano l’obbligo di fornire le giustificazioni a corredo dell’offerta.
10.1. Con il secondo mezzo la ditta Pisa sostiene che il giudice avrebbe decampato dai limiti della giurisdizione di legittimità sostituendo la propria valutazione (e quella del c.t.u. definito ignoto ingegnere di Lucca) a quella della stazione appaltante.
Il mezzo è infondato.
In primo luogo giova precisare che il c.t.u. è (o almeno era all’epoca dei fatti) il capo dell’Ufficio tecnico comunale del comune di Lucca, professionista dunque munito di specifiche competenze settoriali.
In ogni caso la tesi propugnata dall’appellante è smentita dalla piana lettura dell’impugnata sentenza.
Il T.a.r. non si è affatto sostituito alle valutazioni tecnico discrezionali appannaggio del seggio di gara, ma le ha confutate ab externo, mettendo in luce la loro manifesta illogicità ed irregolarità formale.
Tanto è vero questo che si è limitato ad annullare il giudizio di anomalia a carico della Spinosa imponendo alla stazione appaltante una nuova verifica (statuizione questa, come si vedrà meglio in prosieguo, che è stata contrastata dalla società Spinosa mediante autonoma impugnativa).
Per quanto concerne il profilo delle irregolarità procedimentali poste in essere dall’amministrazione, osserva il collegio che da tutta la documentazione versata in atti emerge la sistematica violazione, da parte di quest’ultima della regola basilare del contraddittorio che deve sempre ispirare il confronto fra stazione appaltante ed impresa. In concreto risulta che buona parte delle mende addebitate in sede di giudizio finale di anomalia non sono state preventivamente contestate, sicché l’Impresa Spinosa si è trovata nella impossibilità di fornire le pertinenti giustificazioni.
12.2. Con il terzo motivo si lamenta il vizio di extrapetizione in cui sarebbe incorso il T.a.r. ampliando la domanda di annullamento, in origine rivolta dalla ditta Spinosa nei confronti della sola esclusione per anomalia della propria offerta, fino al punto di comprendervi anche quella di caducazione della mancata esclusione della aggiudicataria.
Il mezzo è infondato.
Il T.a.r. ha affidato al c.t.u. la pertinente indagine tecnica sulla congruità dell’offerta resa dalla Pisa al solo scopo di decidere della fondatezza della censura di disparità di trattamento sollevata dalla ditta Spinosa; una volta assodata la disomogeneità del metro di giudizio utilizzato dal seggio di gara, si è ben guardato dall’annullare il giudizio di non anomalia formulato da tale organo nei confronti dell’offerta risultata poi aggiudicataria.
Risultano pertanto inconferenti, e comunque infondate nel merito sulla scorta dei dati tecnici acquisiti al fascicolo d’ufficio, le doglianze mosse dall’appellante (da pagina 62 a pagina 69 del ricorso), nel presupposto che la sentenza avrebbe annullato il giudizio di non anomalia della aggiudicataria.
11. Può scendersi adesso all’esame dell’appello proposto dalla società Spinosa.
11.1. Con il primo mezzo si contestano le argomentazioni sviluppate ai punti 3 e 21 lett. d) dell’impugnata sentenza nella parte in cui estendono gli effetti conformativi favorevoli della pronuncia alle imprese Saced e Provera, facendone discendere l’obbligo per la stazione appaltante di sottoporre a nuovo procedimento di anomalia tutte e tre le offerte (Spinosa, Saced e Provera) e conseguentemente l’improcedibilità dei rispettivi ricorsi proposti dalle ultime due.
Il mezzo è fondato.
Sebbene le società Saced e Provera non abbiano formulato appello sul capo della sentenza che ha dichiarato improcedibili i rispettivi ricorsi, ciò nonostante è evidente l’interesse della Spinosa a rimuovere il punto ad essa sfavorevole che pregiudica in via immediata e diretta l’eventuale futuro riesercizio del potere da parte della stazione appaltante.
Effettivamente il T.a.r. è incorso in una serie di errori di fatto che hanno fuorviato l’iter e la conclusione del giudizio culminato nella declaratoria di improcedibilità dei ricorsi Saced e Provera.
In particolare non si è avveduto che:
l’offerta della società Provera non aveva superato la soglia di allarme di anomalia e dunque in alcun modo sarebbe dovuta essere sottoposta al relativo procedimento di verifica in sede di esecuzione di eventuale giudicato;
la società Provera ha chiesto l’annullamento dell’aggiudicazione definitiva esclusivamente nel presupposto della illegittimità della mancata esclusione per anomalia della offerta Pisa, ma tale domanda che ha sostenuto il ricorso di primo grado della Provera, come in precedenza evidenziato, non è mai stata esaminata;
la Saced non si è classificata alle spalle della Spinosa, ma al contrario in posizione poziore avendo offerto un ribasso maggiore;
Spinosa non ha mai chiesto l’annullamento della mancata esclusione per anomalia della offerta di Pisa, essendo evidente, sul punto, la carenza dello specifico interesse ad agire per avere offerto un maggior ribasso.
In definitiva non può sostenersi che l’annullamento dell’aggiudicazione sia stato pronunciato per la illegittimità della mancata esclusione per anomalia dell’offerta Pisa; il T.a.r., sul punto specifico, ha ritenuto in modo anodino che <> (punto 21 lett.c); deve ribadirsi, però, che la ditta Spinosa ha lamentato la concessività del metro di giudizio utilizzato dalla stazione appaltante per valutare l’offerta Pisa al solo scopo di suffragare la censura di eccesso di potere per disparità di trattamento, mossa in funzione dell’annullamento della propria esclusione e non della mancata esclusione della Pisa.
Per completezza il collegio dà atto che la difesa della società Pisa non ha contestato l’accoglimento del mezzo di gravame in trattazione (pagina 5 memoria conclusionale del 24 novembre 2008).
11.2. Quanto al secondo mezzo di gravame la sezione osserva che è sicuramente inammissibile la domanda di risarcimento del danno in forma specifica, mediante aggiudicazione diretta della gara, sulla scorta delle argomentazioni recentemente sviluppate dall’Adunanza Plenaria di questo Consiglio da cui la sezione non intende discostarsi (cfr. decisioni 21 novembre 2008, n. 12 e 30 luglio 2008, n. 9).
11.3. Parimenti inaccoglibile è la domanda di risarcimento, per equivalente monetario, dei danni derivanti dal mancato utile di impresa e dalla perdita di chance.
Il collegio sul punto non intende deflettere dall’indirizzo giurisprudenziale che esclude la possibilità di valutare la fondatezza della pretesa risarcitoria allorquando il provvedimento di esclusione per anomalia venga annullato, come nel caso di specie, per vizi formali e procedimentali che consentano il riesercizio del potere da parte della stazione appaltante (cfr. Cons. St., sez. VI, 30 giugno 2006, n. 4231; sez. IV, 20 maggio 2003, n. 2708; sez. VI, 4 settembre 2002, n. 4435).
12. In conclusione deve essere respinto in toto l’appello proposto dalla società Pisa, mentre quello della società Spinosa deve essere accolto limitatamente alla modificazione, nel senso dianzi precisato, della motivazione dell’impugnata sentenza che rimane confermata nel resto.
Nella reciproca soccombenza delle parti il collegio ravvisa giusti motivi per compensare integralmente fra le stesse le spese del presente grado di giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (sezione quinta), definitivamente pronunciando sui ricorsi riuniti meglio indicati in epigrafe:
- respinge l’appello proposto dall’Impresa Pisa Costruttori s.p.a. - successore della Romagnoli s.p.a. - in proprio e quale mandataria dell’a.t.i. con la C.T.C. Consorzio Toscano Costruzioni;
- accoglie in parte, ai sensi e nei limiti di cui in motivazione, l’appello proposto da Spinosa Costruzioni Generali s.r.l. e per l’effetto conferma la sentenza impugnata con diversa motivazione;
- dichiara integralmente compensate fra le parti le spese del presente grado di giudizio.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 5 dicembre 2008, con la partecipazione di:
Raffaele Iannotta - Presidente
Vito Poli Rel. Estensore - Consigliere
Gabriele Carlotti - Consigliere
Giancarlo Gianbartolemei - Consigliere
Angelica Dell’Utri Costagliola - Consigliere
ESTENSORE IL PRESIDENTE
f.to Vito Poli f.to Raffaele Iannotta
IL SEGRETARIO
f.to Cinzia Giglio
DEPOSITATA IN SEGRETERIA il 13/02/09.

giovedì 19 febbraio 2009

Consiglio di Giustizia Amministrativa, sez. giurisdizionale - sentenza parziale 18 febbraio 2009 n. 51

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana in sede giurisdizionale ha pronunciato la seguente
D E C I S I O N E e O R D I N A N Z A
sul ricorso in appello n. 871/2008, proposto da
Cafeo Giovanni,
in proprio e nella qualità di procuratore generale del fratello CAFEO PIETRO, rappresentato e difeso dall'avv. Giuseppe Tamburello ed elettivamente domiciliato in Palermo, via G. Abela n. 10, presso lo studio dell’avv. Salvatore Raimondi;
c o n t r o
il COMUNE DI SIRACUSA, in persona del sindaco in carica, rappresentato e difeso dall’avv. Salvatore Bianca ed elettivamente domiciliato in Palermo, via Resuttana n. 366, presso lo studio dell’avv. Maurizio Cannizzo;
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia - Sezione staccata di Catania (sezione Seconda) - 3 aprile 2008, n. 612.
Visto il ricorso con i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio dell’avv. S. Bianca per il Comune di Siracusa;
Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;
Visti tutti gli atti di causa;
Relatore alla pubblica udienza del 12 dicembre 2008, il Consigliere Marco Lipari;
Uditi l’avv. G. Tamburello per l’appellante e l’avv. S. Bianca per il comune appellato;
Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue:
F A T T O
Con delibera n. 56 del 26.1.1988 il Consiglio comunale di Siracusa affidava in concessione i lavori di progettazione e di realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria della zona in cui ricade il terreno di proprietà del ricorrente, destinato ad interventi di edilizia economica e popolare localizzati con precedente delibera consiliare n. 313 del 21.7.1987.
Con delibera n. 2509 del 31.10.1989 le opere venivano dichiarate di pubblica utilità indifferibilità e urgenza.
Con ordinanza n. 8453 del 30.1.19990 veniva disposta l’occupazione d’urgenza, anche di parte dei terreni di proprietà dei ricorrenti, occupazione eseguita il 14.3.1990.
Con ricorso n. 2793/1988 era stata impugnata la delibera consiliare n. 313 del 21.7.1987 e con ricorso n. 1428/1990 tutti gli altri provvedimenti.
Con ulteriore ricorso n. 285/1993 R.G. i signori Cafeo impugnarono anche l’ordinanza di espropriazione definitiva n. 75430 del 14.8.1992.
I lavori furono eseguiti e ultimati.
Con sentenza n. 1353/2000 del TAR Sicilia, Sezione staccata di Catania, II sez., passata in giudicato, sono stati decisi i tre ricorsi sopraindicati e annullati i provvedimenti impugnati, compresa la dichiarazione di pubblica utilità di cui alla delibera di Giunta n. 2509 del 31.10.1989.
Con il ricorso introduttivo deciso dalla sentenza oggetto di impugnazione, l’appellante, rilevato che il suolo era stato utilizzato per la realizzazione della strada nonostante l’intervenuto annullamento della dichiarazione di pubblica utilità e degli altri provvedimenti chiedeva il risarcimento del danno.
La sentenza impugnata, in accoglimento parziale del ricorso ha condannato l’amministrazione comunale al risarcimento del danno lamentato dal ricorrente, conseguente alla utilizzazione del suo fondo, non assistita da valido titolo.
L’appellante contesta il capo della sentenza riguardante la determinazione della misura del risarcimento del danno.
Il comune resiste al gravame.
D I R I T T O
L’amministrazione comunale, con la propria memoria difensiva, deduce, in primo luogo, il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo.
Il Collegio osserva, al riguardo, che sulla questione della giurisdizione si è formato il "giudicato implicito", conseguente all’accogli-mento, nel merito, delle domande proposte in primo grado dal ricorrente (Cfr. Cassazione, Sezioni Unite, n. 2483/2008), poiché l’amministrazione non ha impugnato ritualmente il capo della sentenza ad essa sfavorevole, limitandosi a prospettare la propria tesi con semplice memoria, nemmeno notificata alla controparte.
In ogni caso, l’eccezione è destituita di fondamento, considerando l’evidente connessione della pretesa risarcitoria con le conseguenze dell’annullamento dei provvedimenti ablatori impugnati dall’interessato nell’ambito del giudizio definito dal TAR con la sentenza n. 1353/2000 (Adunanza Plenaria 22 ottobre 2007, n. 12).
La giurisdizione amministrativa sulla presene controversia, dunque, è radicata nell’articolo 7 della legge TAR e nell’articolo 35 del decreto legislativo n. 80/1998 (cognizione delle domande risarcitorie "conseguenziali", prima ancora che nell’articolo 53 del testo unico dell’espropriazione e nell’articolo 34 del decreto legislativo n. 80/1998 (Cassazione civile, sez. un., 19 aprile 2007, n. 9324; Cassazione civile, sez. un., 19 febbraio 2007, n. 3725).
Il collegio osserva, poi, che l’amministrazione non ha rivolto alcuna censura alla statuizione della sentenza appellata, secondo la quale il ricorrente di primo grado ha conservato il diritto di proprietà del bene fino alla proposizione della domanda di risarcimento del danno per equivalente: in tale momento, rinunciando alla richiesta di restituzione del bene, l’interessato ha abbandonato il proprio diritto di proprietà, dismettendolo in favore dell’amministrazione utilizzatrice dell‘immobile, fermo restando il proprio diritto al risarcimento del danno.
Pertanto, in questo grado di giudizio, resta precluso l’esame di ogni questione relativa al regime transitorio dell’occupazione acquisitiva, di matrice giurisprudenziale, e della disciplina prevista dall’artcolo 43 del testo unico dell’espropriazione (acquisizione sanante): secondo la giurisprudenza della Cassazione la nuova normativa - ritenuta di carattere sostanziale e non processuale - non si applica alle occupazioni acquisitive verificatesi anteriormente al 30 giugno 2003, data di entrata in vigore del testo unico dell’espro-priazione (fra le più recenti: Cassazione civile, sez. I, 28 luglio 2008, n. 20543).
D’altro canto, come meglio chiarito nei punti che seguono, nel caso di specie, l’intervenuto annullamento della dichiarazione di pubblica utilità impedisce la configurabilità dell’occupazione appropriativa e, pertanto, l’irreversibile trasformazione del suolo con la contestuale edificazione dell’opera pubblica non ha determinato alcun effetto estintivo del diritto di proprietà dell’interessato.
Nel merito, l’appellante contesta, sotto diversi aspetti, la pronuncia del tribunale, nella parte riguardante la determinazione della misura del risarcimento del danno liquidata in suo favore, chiedendo anche l’espletamento di una consulenza tecnica di ufficio, volta ad accertare, esattamente, la misura del credito risarcitorio spettantegli.
La sentenza appellata ha accolto la domanda di risarcimento del danno, svolgendo la seguente motivazione.
"Ai fini della liquidazione del danno, va osservato che a seguito della pronuncia della Corte Costituzionale, con sentenza n. 349 del 24.10.2007, che ha dichiarato l’incostituzionalità dell'art. 5-bis, comma 7-bis, del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica) – convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359 – comma aggiunto dall'art. 3, comma 65, della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), poiché, "non prevedendo un ristoro integrale del danno subito per effetto dell'occupazione acquisitiva da parte della pubblica amministrazione, corrispondente al valore di mercato del bene occupato, è in contrasto con gli obblighi internazionali sanciti dall'art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU e per ciò stesso viola l'art. 117, primo comma, della Costituzione.", il danno subito dal ricorrente va liquidato tenendo conto del detto valore venale del fondo alla data della realizzazione dell’opera, momento in cui si verifica la dismissione del diritto dominicale da parte del privato che ha optato per il risarcimento. Da ultimo, nelle more della stesura della motivazione della sentenza è intervenuta la norma contenuta nella Legge Finanziaria per l’anno 2008, l. 24.12.2007 n. 244, il cui art. 2, comma 89, lett. e) così dispone: all'articolo 55 (del D.Lvo n. 327 dell’8.6.2001), il comma 1 è sostituito dal seguente:
"1. Nel caso di utilizzazione di un suolo edificabile per scopi di pubblica utilità, in assenza del valido ed efficace provvedimento di esproprio alla data del 30 settembre 1996, il risarcimento del danno è liquidato in misura pari al valore venale del bene".
Il Comune è, pertanto condannato a risarcire il danno in questione, attenendosi al suddetto criterio di liquidazione, ed ovviamente detraendo dall’importo così determinato le somme già corrisposte, con l’avvertenza che avverso il provvedimento di liquidazione è possibile ricorrere a questo Tribunale per le opportune decisioni.
Va precisato che il "valore venale" del bene va individuato tenendo conto del prezzo medio di mercato per aree delle medesima tipologia, con le medesime caratteristiche urbanistiche, ricadenti nella stessa zona. L’indagine volta ad individuare i prezzi praticati nel mercato immobiliare potrà essere effettuata attingendo informazioni presso le agenzie immobiliari più accreditate della zona.
Il valore così determinato deve essere, poi, oggetto di maggiorazione per rivalutazione monetaria e interessi legali dalla data di calcolo fino al soddisfo (TAR Lazio II bis, 18.1.2008, 363)".
In primo luogo, la parte appellante contesta che, per la determinazione del valore venale dell’immobile, occorra fare riferimento alla data di ultimazione dell’opera pubblica insistente sul suolo. A suo dire, invece, occorre considerare la data di emanazione dell’atto di acquisizione coattiva dell’immobile, o, in mancanza, la data di deposito della sentenza che pronuncia la condanna al risarcimento del danno, oppure, in ulteriore subordine, la data di proposizione della domanda di risarcimento del danno (comportante, in quest’ottica, l’abdicazione del diritto di proprietà del privato).
La censura è fondata, per le ragioni di seguito illustrate.
Anzitutto, va chiarito che non sembra pertinente il richiamo, compiuto dalla sentenza appellata, all’articolo 55 del testo unico delle espropriazioni. Tale disposizione si riferisce, indiscutibilmente, alle occupazioni senza titolo anteriori al 30 settembre 1996. Nel caso di specie non è contestato che l’occupazione sia iniziata il 21 dicembre 2001 e che la trasformazione del fondo si sia verificata in epoca ancora successiva (nel corso del 2002).
Tuttavia, resta condivisibile la conclusione cui è pervenuto il tribunale, diretta ad affermare il principio del diritto all’integrale risarcimento del danno subito dall’interessato (espresso dal citato articolo 55, nel testo ora vigente, ma desumibile anche dall’articolo 43 del testo unico dell’espropriazione e dalla giurisprudenza, anche europea, richiamata), sia pure per ragioni in parte diverse.
Infatti, nel caso di specie, non è sicuramente configurabile l’ipotesi dell’occupazione appropriativa, dal momento che il presupposto indefettibile della valida ed efficace dichiarazione di pubblica utilità dell’opera, all’epoca dell’irreversibile trasformazione del fondo (ripetutamente affermato dalla giurisprudenza) è, in concreto, carente, proprio in conseguenza dell’intervenuto annullamento di tale dichiarazione.
Al riguardo, giova richiamare il prevalente indirizzo della giurisprudenza, secondo cui "dall'ambito dell'occupazione appropriativa devono essere esclusi i comportamenti della p.a. non collegati ad alcuna utilità pubblica formalmente dichiarata, o per mancanza "ab initio" della dichiarazione di pubblica utilità o perché questa è venuta meno in seguito ad annullamento dell'atto in cui essa era contenuta o per scadenza dei relativi termini. In tali vicende, definite di occupazione usurpativa, non si produce l'effetto acquisitivo a favore della p.a., donde il proprietario può chiedere la restituzione del fondo occupato o il risarcimento del danno, che deve essere liquidato in misura integrale (fra le tante, Consiglio Stato, sez. VI, 20 maggio 2004, n. 3267).
Nello stesso senso, si è precisato che, ove il giudice amministrativo abbia annullato un atto con valore di dichiarazione di pubblica utilità, l'attività esecutiva dell'amministrazione è qualificabile come mero comportamento materiale e si configura un'occupazione usurpativa; tuttavia la domanda di restituzione dell'area e quella di risarcimento del danno vanno proposte al giudice amministrativo, ai sensi dell'art. 35 d.lg. 31 marzo 1998 n. 80, come modificato dall'art. 7 l. 21 luglio 2000 n. 205, essendo venuta meno la riserva al giudice ordinario dei "diritti consequenziali" (Cassazione civile, sez. un., 19 aprile 2007, n. 9324).
Pertanto, in ipotesi di occupazione usurpativa il risarcimento del danno deve essere commisurato al valore pieno del terreno perduto, stante l'inapplicabilità a tale tipo di occupazione, in relazione al suo carattere abusivo, della l. n. 359 del 1992, art. 5 bis, comma 7 bis, da riferirsi esclusivamente alla occupazione "appropriativa", intendendo il richiamo alle "occupazioni illegittime di suoli per causa di pubblica utilità" esprimere un collegamento teleologico con le finalità perseguite a mezzo della procedura espropriativa (Cassazione civile, sez. I, 1 febbraio 2007, n. 2207).
Ciò, chiarito, l’esatta individuazione delle modalità di liquidazione del danno conseguente alla utilizzazione, senza titolo, di un bene di proprietà privata aveva formato oggetto, in passato, di una complessa elaborazione interpretativa, nella giurisprudenza della Corte di Cassazione, fortemente influenzata, tuttavia, dalla costruzione pretoria della occupazione acquisitiva, dal suo recepimento nell’or-dinamento positivo e dagli interventi della Corte europea dei diritti umani (CEDU) e della Corte costituzionale. Meno ampia risulta, invece, la giurisprudenza riguardante, più specificamente, la determinazione del risarcimento del danno conseguente all’occupazione usurpativa, probabilmente anche perché l’emersione della figura è più recente e controversa.
Con riferimento all’occupazione appropriativa, la giurisprudenza della Corte di Cassazione aveva prospettato diverse soluzioni interpretative, ancorando il valore del bene, alternativamente, ai seguenti momenti essenziali (salve alcune limitate "varianti", legate alla eventuale peculiarità di singole fattispecie):
a) l’inizio dell’occupazione illegittima;
b) la trasformazione irreversibile del suolo;
c) la proposizione della domanda di risarcimento del danno;
d) la pronuncia della sentenza.
A queste soluzioni potrebbe aggiungersi, ora, sulla base dell’articolo 43 del testo unico delle espropriazioni, il riferimento alla data di inizio della effettiva "utilizzazione per scopi di interesse pubblico", che, secondo una certa linea interpretativa, indicherebbe un momento diverso e successivo rispetto alla materiale trasformazione dell’immobile.
La soluzione prevalente, tuttavia, è stata (ed è tuttora) quella prospettata alla lettera b): determinante è il momento della trasformazione definitiva e non più reversibile dell’immobile.
Effettivamente, essa risulta coerente con la costruzione interpretativa della occupazione acquisitiva. Con la trasformazione irreversibile del suolo si verifica la vicenda consistente nell’estinzione del diritto di proprietà del privato, accompagnata dalla insorgenza del nuovo diritto reale dell’amministrazione sul bene e del contestuale obbligo al risarcimento del danno in favore del soggetto spogliato della proprietà. Non a caso, del resto, il termine di prescrizione dell’azione risarcitoria decorre da tale momento.
La tesi di cui alla lettera a) non potrebbe essere accolta, perché la sola occupazione sine titulo del bene lascia ancora intatto il diritto di proprietà dell’interessato e il conseguente diritto ad ottenere la restituzione dell’immobile.
È vero che, secondo i principi generali elaborati dalla stessa giurisprudenza, la restituzione del bene potrebbe essere ugualmente impedita, in applicazione dell’articolo 2058 del codice civile, qualora sia comprovata l’eccessiva onerosità per l’amministrazione debitrice, con la conseguenza che all’interessato spetterebbe il solo risarcimento del danno per equivalente. In tal caso, tuttavia, il momento rilevante di valutazione del bene non potrebbe essere ricondotto alla mera apprensione dell’immobile, ma si dovrebbe considerare la fase temporale successiva.
Con riferimento, poi, alle tesi sub b) e sub c), la giurisprudenza ha affermato che esse porterebbero all’esito, definito "illogico", di ancorare il fatto oggettivo - e sostanziale - del danno risarcibile ad un’evenienza soggettiva e variabile, di ordine meramente processuale (la data di proposizione della domanda, oppure quella della pronuncia della sentenza di accoglimento).
Da questo punto di vista, il tempo della domanda e della pronuncia possono assumere rilievo a fini diversi, correlati, in particolare alla interruzione della prescrizione, alla rivalutazione monetaria del valore calcolato alla data della trasformazione del bene, al computo degli interessi.
L’indirizzo interpretativo prevalente della giurisprudenza ordinaria, quindi, è incentrato, essenzialmente, sulla strettissima connessione tra l’irreversibile trasformazione del fondo, la perdita della proprietà e il diritto al risarcimento del danno, nelle coordinate ricostruttive della occupazione appropriativa.
In questa prospettiva, non sembra determinante il rilievo che nello stesso momento della trasformazione irreversibile del fondo si verifica anche lo "svuotamento sostanziale" delle facoltà del diritto di proprietà ed il perfezionamento dell’illecito, qualificato come istantaneo, ad effetti permanenti. Infatti, nell’occupazione appropriativa, la definitiva perdita del "valore economico" della proprietà si accompagna alla vicenda estintiva del diritto dominicale del bene acquisito dalla pubblica amministrazione.
Quindi, lo stesso orientamento interpretativo non sembra automaticamente esportabile in un contesto ordinamentale che non prevede più l’istituto dell’occupazione appropriativa e collega la perdita della proprietà per l’utilizzazione senza titolo del bene, per finalità di interesse pubblico, all’adozione di un apposito provvedimento costitutivo dell’amministrazione.
A maggiore ragione, tale linea interpretativa non può trovare applicazione nei casi di "occupazione usurpativa", qualora sia intervenuto l’annullamento della dichiarazione di pubblica utilità e l’opera pubblica sia stata ultimata, ma senza determinare - per ciò solo - l’estinzione del diritto di proprietà dell’interessato.
Se il pregiudizio da risarcire consiste, essenzialmente, nella perdita del valore patrimoniale in cui si sostanzia il diritto di proprietà, il danno deve essere necessariamente correlato alla entità economica del bene nel momento in cui il bene è definitivamente sottratto alla titolarità del privato ed è acquisito al patrimonio dell’amministrazione.
Tale momento non è quello di ultimazione dell’opera pubblica, ma quello, diverso, in cui l’amministrazione adotta un provvedimento di acquisizione sanante, oppure, in mancanza, quello in cui il proprietario, optando per il solo risarcimento del danno per equivalente, abbandona in proprio diritto di proprietà in favore dell’amministrazione.
Né si potrebbe obiettare che il momento della irreversibile trasformazione del bene (o quello, diverso e - generalmente successivo - dell’inizio della utilizzazione per scopi di interesse pubblico) determinerebbe già la consumazione della perdita di valore del diritto di proprietà, svuotandone interamente tutte le facoltà sostanziali.
Infatti, anche in tale situazione resterebbe fermo il diritto dell’interessato ad ottenere la restituzione del bene, con la piena riespansione delle facoltà compresse dalla utilizzazione illecita del bene, con i soli limiti generali dell’articolo 2058 del codice civile.
Pertanto, nei casi di occupazione "usurpativa" e nei casi di acquisizione sanante, di cui all’art. 43 del testo unico dell’espropria-zione, il risarcimento deve essere commisurato al valore del bene nel momento in cui il proprietario "perde" il proprio diritto sulla cosa.
Il citato articolo 43, al comma 6, detta, con riferimento alla determinazione del risarcimento del danno, alcune regole che, attentamente interpretate, risultano conformi a detti principi, ancorché la formula della disposizione presenti, sul piano letterale, alcune incertezze.
"6. Salvi i casi in cui la legge disponga altrimenti, nei casi previsti nei precedenti commi il risarcimento del danno è determinato:
a) nella misura corrispondente al valore del bene utilizzato per scopi di pubblica utilità e, se l'occupazione riguarda un terreno edificabile, sulla base delle disposizioni dell'articolo 37, commi 3, 4, 5, 6 e 7;
b) col computo degli interessi moratori, a decorrere dal giorno in cui il terreno sia stato occupato senza titolo (L)".
Il duplice riferimento al valore del bene utilizzato per scopi di pubblica utilità, nonché agli interessi moratori, potrebbe essere letto come volontà del legislatore di ancorare il computo economico dell’immobile al momento in cui il bene è concretamente utilizzato, o addirittura, al momento (che potrebbe essere precedente) in cui è iniziata l’occupazione senza titolo (ma per finalità di interesse pubblico).
Il dato lessicale utilizzato dalla norma, tuttavia, non deve essere frainteso.
Il riferimento agli interessi mira, nelle intenzioni del legislatore, a generalizzare la previsione normativa dell’articolo 3 della legge n. 458 del 1988, conformemente all’orientamento consolidato della giurisprudenza ordinaria.
La qualificazione degli interessi come "moratori" si spiega, intanto, come retaggio della disciplina legislativa richiamata, introdotta nel contesto della occupazione appropriativa di matrice giurisprudenziale.
D’altronde, le qualificazioni operate dalla legge non sono vincolanti per l’interprete e, da tempo, sono state rimarcate le notevoli difficoltà di inquadrare correttamente le diverse ipotesi di interessi, moratori, corrispettivi e compensativi.
Inoltre, la norma si spiega considerando che, sin dall’inizio dell’occupazione senza titolo, l’amministrazione versa in una situazione illecita, causando un danno che deve essere risarcito, anche nella componente correlata al ritardo nel pagamento della somma dovuta.
Nel comma 6, poi, il riferimento al "valore del bene utilizzato" esprime il principio di necessaria reintegrazione del pregiudizio subito dal proprietario e non intende fissare alla data dell’inizio dell’utilizza-zione del bene l’esatta commisurazione del danno.
Sul piano sistematico, si è osservato che l’articolo 43 configura l’illecito (costituito dall’occupazione del bene e alla sua utilizzazione per scopi di interesse pubblico) come permanente, a differenza della fattispecie dell’occupazione appropriativa, ricondotta alla categoria dell’illecito istantaneo.
Non può trascurarsi, inoltre, il rinvio esplicito, compiuto dall’articolo 43, all’articolo 37, comma 3, in materia di determinazione dell’indennità di espropriazione, il quale stabilisce la necessità di considerare anche le "possibilità legali ed effettive di edificazione, esistenti al momento dell’emanazione del decreto di esproprio o dell’accordo di cessione": in tale prospettiva, quindi, la commisurazione del valore è ancorata al tempo di perfezionamento della vicenda acquisitiva.
In definitiva, quindi, secondo l’articolo 43, il risarcimento è rapportato al valore del bene, mentre la data di inizio di utilizzazione senza titolo del bene rileva ai fini della decorrenza degli interessi.
Nel caso di specie, peraltro, l’amministrazione non ha adottato alcun provvedimento, ai sensi del citato articolo 43.
La sentenza appellata, con statuizione passata in giudicato, ha affermato che il diritto di proprietà dell’interessato si è estinto solo con la proposizione della domanda, implicante rinuncia alla richiesta di restituzione e allo stesso diritto di proprietà.
Tale lettura della vicenda è pienamente in linea con un consolidato orientamento interpretativo (delineatosi già prima dell’entrata in vigore dell’articolo 43), secondo cui nei casi di occupazione "usurpativa" il privato conserva la proprietà del bene, indipendentemente dalla realizzazione dell’opera pubblica.
Tuttavia, per assicurare effettività e pienezza di tutela, la giurisprudenza ordinaria (indirettamente avallata anche dalla Corte costituzionale, con la sentenza n. 191/2006), ha da tempo affermato il principio secondo cui l’interessato può sempre optare per il risarcimento monetario, rinunciando alla restituzione del bene.
Dunque, è in tale momento che si realizza la "perdita" del valore del diritto di proprietà, derivante da una scelta conseguente, comunque, all’illecito perpetrato dall’amministrazione.
In questa prospettiva, la somma di denaro che spetta all’interessato a titolo di risarcimento del danno deve sostituire il valore del bene che l’amministrazione non restituisce all’interessato.
Pertanto, occorre fare riferimento a tale momento per stabilire il valore di mercato del bene e computare il risarcimento del danno.
Il valore monetario del bene, così determinato, dovrà poi essere rivalutato, secondo i principi generali in materia risarcitoria, al momento della pronuncia della decisione.
In secondo luogo, la parte appellante chiede il risarcimento del danno riguardante la mancata utilizzazione del bene, relativo al periodo di occupazione senza titolo dell’immobile.
Al riguardo, l’interessato rileva che la sentenza impugnata ha omesso di pronunciarsi e chiede di determinare questa voce di danno mediante l’applicazione degli interessi legali sulla somma liquidata come risarcimento derivante della perdita di valore della proprietà.
Anche tale domanda è fondata, per le ragioni di seguito specificate.
Il tema proposto dalla parte appellante si inquadra nella problematica più ampia della liquidazione del danno e al suo rapporto con la rivalutazione e gli interessi legali.
In questa cornice di riferimento, poi, si prospetta la questione più specifica della individuazione delle voci di risarcimento del danno nelle diverse ipotesi di occupazione appropriativa, occupazione usurpativa e, ora, di "acquisizione sanate", disciplinata dall’articolo 43 del testo unico dell’espropriazione.
Tale norma, seppure non direttamente applicabile nella presente fattispecie (inquadrabile, semmai, nell’ambito dell’occupazione usurpativa, per le ragione sopra esposte), assume importante rilevanza sistematica, specie nella parte riguardante l’obbligo di corrispondere gli "interessi moratori".
L’utilizzazione senza titolo di un bene di proprietà privata comporta, normalmente, due distinti danni, i quali vanno entrambi risarciti, anche alla luce dei principi espressi dalla giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’Uomo (CEDU), relativi alla necessaria integrità del ristori del pregiudizio derivante da attività illecita dell’amministrazione
Il primo attiene alla perdita (definitiva) della proprietà, che avviene nel momento in cui è adottato il provvedimento di cui all’articolo 43 del testo unico o quando il privato "rinuncia" alla proprietà.
Il secondo danno riguarda la mancata utilizzazione del bene (o del suo corrispondente valore monetario) per il periodo compreso tra l’inizio dalla occupazione senza titolo e la perdita della proprietà.
Tale seconda voce di danno, espressamente richiesta dall’inte-ressato in primo grado, deve essere risarcita, in modo pieno e completo, ma, ovviamente, senza determinare duplicazioni o sovrapposizioni con il ristoro già insito nel risarcimento calcolato sulla perdita del bene, opportunamente rivalutato.
Ai fini della liquidazione, la parte appellante sostiene che debbano essere considerati gli interessi "moratori", di cui al citato articolo 43, comma 6.
L’indicata prospettazione deve esser condivisa, con le seguenti precisazioni.
Anzitutto, il criterio fissato dall’articolo 43, seppure riferito al provvedimento di acquisizione sanante, può assumere portata generale (trattandosi, del resto di disposizione non completamente innovativa, corrispondente anche ad un consolidato indirizzo interpretativo giurisprudenziale) e, pertanto, deve trovare applicazione anche nei casi in cui la richiesta risarcitoria (con effetti abdicativi della proprietà) sia formulata dall’interessato.
In secondo luogo, deve ribadirsi che gli interessi di cui all’articolo 43, sebbene qualificati come "moratori" dal legislatore, nel contesto sistematico della disposizione, assumono, piuttosto, la fisionomia degli interessi compensativi, per il mancato godimento del bene, in analogia alla previsione dell’articolo 1499 del codice civile.
Ne deriva, quindi, che il criterio degli interessi supera, assorbendoli, altri diversi criteri elaborati dalla giurisprudenza, compresi quello del "valore figurativo" del bene, connesso al valore locativo del bene e quello della indennità di occupazione (legittima).
Tale ultimo criterio di calcolo trova applicazione nel caso in cui occorra determinare il risarcimento del danno per le temporanee occupazioni senza titolo, non accompagnate, però, dalla perdita del diritto di proprietà (come statuito da questo Consiglio, con la decisione n. 842/2008).
Resta fermo, inoltre, che l’interessato potrebbe dimostrare, in concreto, di avere subito perdite maggiori.
Nell’indicata prospettiva, senza ripercorrere tutta la complessa tematica ricostruttiva delle modalità di calcolo degli interessi legali sulla somma liquidata a titolo di risarcimento del danno, è utile svolgere alcuni chiarimenti.
Secondo un tradizionale indirizzo, gli interessi legali sulla somma dovuta a titolo di risarcimento del danno svolgono la funzione di compensare il ritardo con cui il debitore adempie la propria obbligazione risarcitoria, che sorge sin dal momento della commissione dell’illecito.
Secondo una diversa interpretazione, invece, gli interessi legali rappresentano l’equivalente dei "frutti" civili del bene, i quali, in forza di una ragionevole presunzione, possono essere rapportati, appunto al saggio legale di interessi sull’equivalente monetario del bene.
Nel contesto dell’articolo 43 e nella presente fattispecie risulta preferibile la seconda opzione ermeneutica, dal momento che l’obbli-go risarcitorio relativo alla perdita della proprietà sorge solo al momento di adozione del provvedimento di acquisizione sanante o di rinuncia all’azione restitutoria, mente gli interessi decorrono da un’epoca precedente.
La riconosciuta struttura permanente dell’illecito, infatti, non impedisce di distinguere nettamente due fasi: nella prima l’ammini-strazione occupa senza titolo il bene; nella seconda il privato è definitivamente privato della proprietà del bene.
L’inquadramento dell’obbligazione relativa agli interessi in questa cornice, corrispondente alla richiesta della parte appellante, comporta una ulteriore conseguenza, riguardante la determinazione del valore di riferimento del "capitale".
Esso non può corrispondere al valore del bene al momento della perdita della proprietà, ma deve essere determinato con riferimento al valore del bene in ciascun anno di occupazione senza titolo.
Con un terzo motivo, la parte appellante lamenta che il tribunale abbia omesso di accertare, in modo imparziale, il valore venale dell’immobile, demandandone la liquidazione alla stessa amministrazione. A dire dell’appellante, è necessario effettuare i necessari accertamenti, utilizzando la consulenza tecnica di ufficio.
Anche tale censura è fondata.
È vero che lo strumento dell’articolo 35 del decreto legislativo n. 80/1998, in un’ottica di accelerazione e di semplificazione processuale, consente al giudice di limitarsi a fissare i criteri di determinazione del danno, demandando all’amministrazione il compito di offrire al danneggiato una somma fissata mediante l’applicazione di tali canoni.
Tuttavia, nel caso di specie, sussistendo un contrasto fra le parti in ordine alle stesse modalità di calcolo delle voci di danno, risulta necessaria un’apposita istruttoria tecnica.
Pertanto, ai fini della determinazione del valore venale dell’immobile, è indispensabile l’espletamento di apposita consulenza tecnica di ufficio, secondo le modalità di seguito indicate, con sottoposizione al consulente tecnico designando dei seguenti quesiti:
"Dica il CTU, tenendo conto di tutti gli atti di causa, nonché dei documenti e degli atti esibiti dalle parti, previo rituale scambio, nonché degli eventuali necessari accertamenti tecnici, effettuati con congruo preavviso alle parti:
1) quale fosse il valore venale dell’immobile, secondo i criteri fissati dall’articolo 43 del testo unico delle espropriazioni, all’epoca di notificazione del ricorso di primo grado, nonché all’epoca dell’inizio dell’occupazione (21 dicembre 2001);
2) quali siano state le variazioni medie del valore dell’immobile nel periodo compreso fra le due date indicate al punto 1, indicando la misura media del valore dell’immobile, debitamente rivalutato, in relazione a ciascun anno di riferimento;
3) quale sia la misura degli interessi legali riferita a ciascuno dei valori e dei periodi indicati ai punti precedenti 1) e 2)."
La predetta consulenza tecnica, da effettuarsi senza la presenza del Giudice, dovrà riportare distintamente i risultati e le conclusioni finali in una relazione scritta con allegati i documenti ritenuti necessari all’accertamento sopra disposto.
A norma dell’art. 201/1 c.p.c., le parti possono nominare propri consulenti tecnici sino al momento dell’inizio delle operazioni della c.t.u., alle quali gli stessi consulenti tecnici di parte e i difensori possono intervenire ai sensi e per gli effetti dell’art. 194/2 c.p.c..
A tal fine, il consulente tecnico nominato da questo Consiglio, ai sensi degli artt. 90 e 91 disp. att. c.p.c., comunicherà alle parti costituite, presso il domicilio eletto, ed agli eventuali consulenti tecnici di parte, la data di inizio delle operazioni peritali e ciò almeno 5 giorni prima.
Per l’espletamento dell’incarico, il consulente tecnico potrà chiedere chiarimenti alle parti, assumere informazioni da terzi e svolgere tutte le indagini ritenute necessarie.
Nella camera di consiglio dell’11 marzo 2009 ore 10, il C.T.U. designato presterà giuramento, come da separato verbale.
Le spese saranno liquidate con la sentenza definitiva.
Da ultimo, la parte appellante contesta la pronuncia relativa alla compensazione delle spese del giudizio.
Tale aspetto della lite, peraltro, dovrà essere deciso all’esito della disposta consulenza tecnica.
Pertanto, l’appello deve essere accolto nei sensi sopra precisati
Ai fini della determinazione del danno dovranno essere valutate le risultanze della disposta consulenza tecnica di ufficio.
Per Questi Motivi
Il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, non definitivamente pronunciando, accoglie l'appello, nei sensi indicati in motivazione;
dispone gli incombenti istruttori indicati in motivazione;
nomina CTU il dott. Schimmenti Emanuele con studio in Palermo, rinvia alla camera di consiglio dell’11 marzo 2009 per la prestazione del giuramento;
spese al definitivo.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'Autorità amministrativa.
Così deciso in Palermo, nella camera di consiglio del 12 dicembre 2008, dal Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, in sede giurisdizionale, con l'intervento dei signori: Riccardo Virgilio Presidente, Chiarenza Millemaggi, Marco Lipari, estensore, Antonino Corsaro, Filippo Salvia, Componenti.
F.to: Riccardo Virgilio, Presidente
F.to: Marco Lipari, Estensore
F.to: Loredana Lopez, Segretario
Depositata in segreteria il 18 febbraio 2009.