giovedì 9 aprile 2009

Consiglio di Stato, IV, 31 marzo 2009, n. 1917

N.1917/2009 Reg. Dec.

R E P U B B L I C A I T A L I A N A
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta) ha pronunciato la seguente
D E C I S I O N E
sul ricorso iscritto al NRG 4301/2004 proposto da NAPOLI Roberto, rappresentato e difeso dagli avvocati Antonio Campagnola e Francesco Rossi ed elettivamente domiciliato presso il loro studio in Roma, via Lutezia 8;
contro
Presidenza del Consiglio dei Ministri, CESIS, SISDE, in persona del Presidente in carica e dei rispettivi legali rappresentanti, rappresentati e difesi dall'Avvocatura generale dello Stato presso la quale sono per legge domiciliati in Roma, Via dei Portoghesi n. 12;
per l'annullamento
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio – Roma, sez. I , n. 7078 del 2003.
Visto il ricorso in appello;
visto l'atto di costituzione in giudizio dell’Amministrazione appellata;
viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;
visti gli atti tutti della causa;
data per letta alla pubblica udienza del 13 gennaio 2009 la relazione del consigliere Armando Pozzi e uditi, per le parti, gli avvocati Antonio Campagnola e l’avvocato dello Stato Ferrante;
ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue:
F A T T O
L’odierno appellante in data 1 ottobre 1982 transitava dall’Arma dei Carabinieri, con il grado di Tenente, alle dipendenze del SISDE — Presidenza del Consiglio dei Ministri, con inquadramento nel relativo ruolo, svolgendo per oltre dieci anni attività di indagine all’interno di reparti operativi.
Con D.P.C.M. del 29 settembre 1993 veniva trasferito ad altra Amministrazione dello Stato, ex art. 6 lett. b) del D.P.C.M. n. 7 del 1980.
L’allontanamento, a detta dell’appellante, celava un intento sanzionatorio; esso veniva infatti richiesto con nota in data 19.7.1993, dal Direttore pro-tempore del SISDE, sulla scorta di una valutazione negativa sulle qualità professionali e morali del Napoli e non già sul presupposto di esigenze di servizio.
Solo in seguito alla presa visione degli atti dell’Amministrazione, volti a giustificare l’allontanamento del Napoli dal Servizio, questi ha impugnato il passaggio dal SISDE ad altra amministrazione al TAR del Lazio, che con sentenza n. 3261/1998 respingeva il ricorso dichiarandolo irricevibile per decorso del termine decadenziale. Tale pronuncia veniva confermata dal Consiglio di Stato con decisione n. 2742/2000.
Successivamente, il Napoli adiva il Tribunale del Lavoro onde ottenere il risarcimento dei danni morali, alla vita di relazione, biologici, alla professionalità, sofferti in conseguenza dell’ingiustificato trasferimento.
Il giudice del lavoro rigettava la domanda ritenendo il proprio difetto di giurisdizione, stante l’accadimento dei fatti in data anteriore al 30 giugno 1998, limite temporale fissato ex D.lgs. n. 80/1998 per il passaggio delle controversie in materia di pubblico impiego dal giudice amministrativo al giudice ordinario.
A seguito della sentenza del Giudice del Lavoro l’odierno appellante invocava la medesima tutela risarcitoria dinanzi al TAR del Lazio, il quale, tuttavia, con la sentenza qui appellata, ha dichiarato inammissibile il ricorso, sul presupposto dell’inoppugnabilità del provvedimento risolutivo del rapporto alle dipendenze del SISDE e della non proponibilità della domanda risarcitoria in via autonoma.
Il Napoli impugna la sentenza n. 7078/2003 del TAR del Lazio, per i seguenti motivi, peraltro non affidati alle formule tipiche del processo amministrativo.
A) Illegittimamente il TAR ha fatto applicazione dell’istituto della pregiudiziale amministrativa sulla base dell’erroneo presupposto che si controvertesse su un interesse legittimo, laddove la controversia si riferiva bensì ad una posizione di diritto soggettivo nell’ambito della gestione del rapporto di lavoro alle dipendenze del SISDE; ossia, il diritto all’ufficio che si sostanzia nella pretesa a non essere arbitrariamente rimosso dal proprio incarico se non nei casi espressamente previsti dalla legge; nonché il diritto alla funzione, consistente nel diritto all’esercizio delle mansioni connesse alla propria qualifica, senza svilimento della professionalità acquisita.
Il Napoli avrebbe subìto un’ingiusta prevaricazione di tali diritti, in seguito alla richiesta di allontanamento fondata sull’asserito difetto di qualità morali e professionali, smentito peraltro dagli encomiabili precedenti di carriera e senza che siffatta negativa valutazione sia stata preceduta da elementi di istruzione.
Al contrario, come risulta dalla documentazione prodotta nel giudizio di primo grado, l’Amministrazione ha tentato artatamente di giustificare il trasferimento dell’appellante come conseguenza delle indagini relative alla professionalità ed affidabilità degli appartenenti ai Servizi, disposte dal Presidente del Consiglio dei Ministri in risposta alla situazione emergenziale creatasi in seguito agli episodi delle bombe di Milano, Roma e Firenze.
Tuttavia, il Napoli è stato rimosso dall’ufficio ben prima dell’espletamento delle predette indagini che, peraltro, si sono concluse con una valutazione senz’altro positiva della professionalità del ricorrente, giudicato meritevole di far parte dell’organismo di sicurezza.
E’ pur vero che l’Amministrazione ha tentato di rimediare alle accennate incongruenze, anche attraverso la istituzione di una Commissione di inchiesta da parte del Ministero degli Interni, con il compito di far luce sui criteri utilizzati al fine di procedere all’allontanamento del personale del SISDE, ma i lavori della predetta commissione hanno accresciuto i profili di incongruità e contraddittorietà, avendo fatto riferimento ad un inesistente rapporto informativo in data 30.6.1993.
Dalla natura di diritto soggettivo delle posizioni dedotte in giudizio, discenderebbe l’erroneità in punto di diritto della motivazione della sentenza, la quale, sul presupposto della riconducibilità dell’illecito della P.A. nella giurisdizione amministrativa, ha ritenuto applicabili le regole che sono peculiari di tale giurisdizione, cioè la necessaria impugnazione del provvedimento arrecante il danno nei termini decadenziali.
Da una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 7 della legge n. 205/2000 discenderebbe, invece, che l’esperibilità dell’azione risarcitoria, ancorché siano decorsi i termini decadenziali e nonostante l’intervenuta inoppugnabilità del provvedimento, lungi dal determinare una situazione di incertezza, rappresenta al contrario l’unico strumento di adeguato e giusto contemperamento dell’interesse pubblico all’intangibilità dell’agire amministrativo con l’interesse del privato a non subire ingiusti sacrifici della propria sfera giuridica.
Ciò, del resto, risulterebbe confermato dalla prevalente giurisprudenza di legittimità, secondo cui resta avvalorata una connotazione della tutela risarcitoria invocabile al giudice a prescindere dall’annullamento - quale misura minore rispetto alla rimozione dell’atto - che è ben più impegnativa per l’amministrazione che non la tutela riparatoria, attesa la diversità di presupposti, e quindi la reciproca non interferenza, tra le vicende risarcitoria e demolitoria.
B) Ulteriore vizio della sentenza sarebbe costituito dall’errata premessa secondo cui il provvedimento amministrativo non impugnato nei termini, divenuto pertanto inoppugnabile, debba considerarsi anche legittimo a tutti gli effetti, con la conseguenza che, anche a fronte della lesione subita dal destinatario del provvedimento medesimo, sia da ritenersi preclusa l‘esperibilità dell’azione risarcitoria.
Secondo tale errata concezione, dunque, la tutela reintegratoria per danni derivanti da provvedimenti adottati dalla P.A. non può essere fatta valere se non in via consequenziale rispetto alla tutela propria del giudizio di legittimità, posto che l’illegittimo esercizio della funzione inciderebbe su una situazione di interesse legittimo e non di diritto soggettivo da far valere nel termine perentorio di sessanta giorni, decorso il quale il provvedimento tacciato di illegittimità ma non eliminato, divenuto per ciò stesso intangibile, non può che essere considerato legittimo ed inidoneo a fondare qualsivoglia pretesa risarcitoria.
Tale parallelismo tra atto amministrativo inoppugnabile ed atto legittimo secondo il ricorrente non troverebbe fondamento giuridico alcuno, poiché mentre l’inoppugnabilità rileva unicamente sul piano processuale, al contrario, il concetto di legittimità attiene al piano sostanziale. Quindi, se da un lato l’illegittimo esercizio della funzione è suscettibile di recar danno ad una situazione di interesse legittimo, determinando la titolarità di azioni ordinarie di legittimità; dall’altro lato, ben può ravvisarsi un pregiudizio a situazioni qualificabili in termini di diritto soggettivo distinte e non consequenziali all’interesse legittimo, configurandosi così una autonoma e specifica azione risarcitoria.
L’appellante aggiunge un ulteriore rilievo in ordine alla sentenza impugnata.
Condizionare il diritto al risarcimento del danno ingiusto arrecato al ricorrente dall’attività provvedimentale posta in essere dall’Amministrazione, che ha inciso sul diritto soggettivo perfetto del Napoli a non vedere compromessa e svilita la propria professionalità e la propria reputazione, al previo e non più consentito annullamento dell’atto di allontanamento, equivale a negare tutela giurisdizionale al ricorrente con conseguente violazione degli artt. 2, 24 e 111 della Costituzione.
Si è costituita la Presidenza del Consiglio dei Ministri che, con memoria, deduce l'infondatezza del gravame in fatto e diritto.
La causa è passata in decisione all’udienza pubblica del 13 gennaio 2009.
D I R I T T O
1 - Come già esposto in fatto, con la sentenza appellata il TAR Lazio ha dichiarato inammissibile la domanda di risarcimento del danno causato, a detta dell’appellante, alla propria sfera professionale, all’immagine nella vita di relazione ed alla sfera biologica, dal provvedimento del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del direttore del SISDE del 29.10.1993, di trasferimento ad altra amministrazione dello Stato per esigenze di servizio. Ciò, in quanto l’azione risarcitoria introduceva un sindacato giurisdizionale che investiva la legittimità della determinazione estintiva del rapporto di impiego alle dipendenze del medesimo Servizio Informazioni; sindacato che, in quanto comportava l’accertamento della legittimità dell’atto, era inammissibile poiché quell’ accertamento ormai precluso dopo che il TAR, prima ed il Consiglio di Stato, poi, rispettivamente con sentenze nn. 3261/1998 e 2742/2000 avevano dichiarato irricevibile il ricorso impugnatorio avverso l’atto di trasferimento ad altra amministrazione assunto in data 29.10.1993, divenuto perciò inoppugnabile.
2- L’appello è infondato nel merito.
Il punto prioritario di diritto portato all’esame del Collegio consiste nel valutare la correttezza della sentenza, laddove essa ha fatto uso dell’istituto della pregiudizialità amministrativa.
Il Collegio non ritiene infatti, di doversi discostare dal principio della sussistenza della c.d. pregiudiziale amministrativa, affermato dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (Cons. Stato, Ad. plen. n. 12/2007) e dai propri recenti precedenti specifici (Cons. Stato, VI, 3 febbraio 2009. n. 587; 19 giugno 2008 n. 3059) con i quali questo Consiglio in relazione alle contrarie pronunce della Cassazione (Cass., sez. un., 13 giugno 2006 n. 13659 e n. 13660), ha già rilevato che l’applicazione del principio della pregiudiziale non comporta una preclusione di ordine processuale all’esame nel merito della domanda risarcitoria, ma determina un esito negativo nel merito dell’azione di risarcimento.
Ne consegue che la domanda di risarcimento del danno derivante da provvedimento non impugnato (o tardivamente impugnato, come nel caso di specie) è ammissibile, ma è infondata nel merito in quanto la mancata impugnazione dell’atto fonte del danno consente a tale atto di operare in modo precettivo dettando la regola del caso concreto, autorizzando la produzione dei relativi effetti ed imponendone l’osservanza ai consociati ed impedisce così che il danno possa essere considerato ingiusto o illecita la condotta tenuta dall’Amministrazione in esecuzione dell’atto inoppugnato.
Il principio della pregiudiziale non si fonda, quindi, sull’impossibilità per il giudice amministrativo di esercitare il potere di disapplicazione, ma sull’impossibilità per qualunque giudice di accertare in via incidentale e senza efficacia di giudicato l’illegittimità dell’atto, quale elemento costitutivo della fattispecie della responsabilità aquiliana ex art. 2043 cod. civ.; in sostanza, ove l’accertamento in via principale sia precluso nel giudizio risarcitorio in quanto l’interessato non sperimenta, o non può sperimentare (a seguito di giudicato, decadenza, ecc.), i rimedi specifici previsti dalla legge per contestare la conformità a legge della situazione medesima, la domanda risarcitoria deve essere respinta nel merito perché il fatto produttivo del danno non è suscettibile di essere qualificato illecito (cfr., Cass. civ., II, 27 marzo 2003 n. 4538).
La pregiudiziale amministrativa è, quindi, strettamente connessa al principio della certezza della situazioni giuridiche di diritto pubblico, al cui presidio è posto il breve termine decadenziale di impugnazione dei provvedimenti amministrativi.
Non appare condivisibile la tesi contraria, secondo cui il termine decadenziale non rileva ai fini del risarcimento del danno, trattandosi di un termine previsto per garantire in breve tempo la certezza dell’intangibilità alla fattispecie provvedimentale, mentre la regolazione degli interessi in gioco non verrebbe posta in discussione da un’azione solo risarcitoria, nella quale la verifica della legittimità dell’atto è operata incidentalmente.
Infatti, del complessivo assetto degli interessi regolato da un atto non impugnato fa parte anche la componente economica, su cui influisce il risarcimento del danno ed, inoltre, in presenza di una decisione del giudice di accertamento dell’illegittimità di un provvedimento ai soli fini dell’esame di una domanda risarcitoria, l’obbligo di conformazione al giudicato dovrebbe implicare l’annullamento dell’atto ritenuto illegittimo, con conseguente elusione del termine decadenziale.
Rispetto alle esigenze di certezza delle situazioni giuridiche di diritto pubblico, cui il termine breve di impugnazione è funzionale, risulta di difficile compatibilità una fattispecie in cui il privato dopo essere rimasto silente (nel senso di non avere impugnato l’atto) dopo l’emanazione di un provvedimento amministrativo a lui sfavorevole agisca in via giurisdizionale nel più ampio termine prescrizionale di cinque anni, chiedendo il risarcimento del danno.
All’obiezione che si tratta della stessa situazione prevista dall’art. 2043 c.c. nei rapporti interprivatistici, si può replicare, evidenziando che anche in relazione all’esercizio del potere nei rapporti di diritto privato e all’impugnazione davanti al G.O. di atti amministrativi, in molti casi viene privilegiata tale esigenza di certezza con la previsione di termini decadenziali entro cui contestare la conformità a diritto di determinate situazioni giuridiche, la cui scadenza preclude anche l’azione risarcitoria: non è consentito domandare il risarcimento del danno per essere stati assoggettati illegittimamente a sanzione amministrativa mediante ordinanza-ingiunzione non impugnata ai sensi della l. 689/81; il lavoratore licenziato non può scegliere di optare per il risarcimento del danno, senza impugnare il recesso secondo le prescrizioni della l. 604/66; non può essere chiesto il risarcimento del danno in assenza di impugnativa di delibere condominiali o societarie, che hanno costituito la fonte del danno (per le seconde v. l’art. 2377, comma 6, c.c.).
Del resto, l’art. 7, terzo comma, della L. Tar prevede che "Il tribunale amministrativo regionale, nell'ambito della sua giurisdizione, conosce anche di tutte le questioni relative all'eventuale risarcimento del danno, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, e agli altri diritti patrimoniali consequenziali.
Il comma 5 dell’art. 35 del D. Lgs. n. 80/98 stabilisce che "Sono abrogati l'articolo 13 della legge 19 febbraio 1992, n. 142, e ogni altra disposizione che prevede la devoluzione al giudice ordinario delle controversie sul risarcimento del danno conseguente all'annullamento di atti amministrativi".
In entrambe le disposizioni il legislatore, pur non affrontando direttamente la questione, ha qualificato le questioni risarcitorie collegate ad un provvedimento illegittimo, come questioni "consequenziali" rispetto all'annullamento di quest'ultimo, riconoscendo implicitamente che il risarcimento presuppone non un semplice accertamento incidentale dell’atto, ma il suo annullamento.
La disposizione implica, cioè, che, come si è rilevato, l’elemento oggettivo della fattispecie dell’illecito non sia l’atto amministrativo illegittimo, ma l’atto amministrativo annullato.
Va, infine, rilevato che l’applicazione del principio della c.d. pregiudiziale amministrativa non comporta alcuna restrizione della tutela giurisdizionale.
Dalle pronunce della Corte Costituzionale emerge che il risarcimento del danno è uno strumento di tutela ulteriore, rispetto a quello classico demolitorio (e/o conformativo), da utilizzare per rendere giustizia al cittadino nei confronti della pubblica amministrazione (Corte Cost. n. 204/2004; n. 191/2006).
Il provvedimento amministrativo lesivo di un interesse sostanziale può essere aggredito in via impugnatoria, per la sua demolizione, e "conseguenzialmente" in via risarcitoria, per i suoi effetti lesivi, ponendosi, nell’ uno e nell’altro caso, la questione della sua legittimità; nelle citate sentenze del giudice costituzionale, non vi è traccia di alcun sospetto di illegittimità costituzionale di siffatto disegno ed, anzi, sembra agevole inferirne il contrario (v. Cons. Stato, Ad. plen., n. 12/2007). Peraltro, in quei casi richiamati in precedenza in cui la contestazione dell’esercizio di poteri privatistici è assoggettata a termini decadenziali, il giudice ordinario mai si è posto il problema della costituzionalità della preclusione anche dell’azione risarcitoria in ipotesi di assenza di contestazioni nei termini di decadenza.
In conformità con l’orientamento dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, deve, quindi, ritenersi che la mancata tempestiva impugnazione di un provvedimento amministrativo impedisca di considerare illecita la condotta della p.a. e di conseguire il risarcimento del danno derivante da quel medesimo atto.
Facendo applicazione di tale principio al caso di specie, deve quindi essere respinta (nel merito) la domanda risarcitoria proposta dalla ricorrente di primo grado.
3- A non diverse conclusioni si perviene anche ove si voglia prescindere dalla pregiudiziale amministrativa, posto che l’ azione risarcitoria appare in concreto infondata.
Ed, invero, è da escludere che situazione giuridica scaturita dal provvedimento amministrativo contestato possa qualificarsi non conforme a legge e fondare il diritto al risarcimento del danno ai sensi dell’articolo 2043.
L’indagine sulla sussistenza del primo in ordine logico-giuridico degli elementi costitutivi della fattispecie di cui all’articolo 2043 cod.civ., vale a dire la valutazione della legittimità dell’atto amministrativo, conduce a risultato palesemente negativo.
Al riguardo, in disparte il rilievo che l’attuale appellante non ha riproposto in questa sede le specifiche censure formulate in primo grado contro tale provvedimento, per cui di esse sarebbe precluso ogni esame, è decisiva la considerazione che il contestato trasferimento si sottrae alle doglianze dedotte dall’odierno appellante ed originario ricorrente.
Com’è noto, la disciplina dell'attività degli apparati preposti alla sicurezza dello Stato deve conformarsi innanzitutto al principio fondamentale ed irrinunciabile della riservatezza, desumibile dall'intero impianto della normativa contenuta nella legge n. 801 del 1977 e che è alla base della stessa costituzione del Comitato parlamentare di controllo, al quale soltanto il Presidente del Consiglio dei ministri e il Comitato interministeriale per le informazioni la sicurezza sono tenuti, ai sensi dell'articolo 11 della legge citata, a fornire informazioni, per altro limitatamente alle linee essenziali delle strutture e dell'attività svolta. Ora, proprio ai fini di consentire una piena assunzione di responsabilità per l'attività svolta dagli apparati preposti alla sicurezza dello Stato da parte del livello dirigenziale e del livello politico (Presidenza del Consiglio dei ministri, Comitato interministeriale, Comitato parlamentare di controllo), indispensabile contrappeso del principio di riservatezza proprio ai fini della salvaguardia dei principi costituzionali di buon andamento e imparzialità dell'Amministrazione e in conformità di apposita direttiva emanata dal Presidente del Consiglio dei ministri in data 30 luglio 1985, in attuazione dell'articolo 1 della citata legge n. 801 del 1977, la normativa regolamentare che disciplina il rapporto di lavoro del personale degli organismi informativi deve essere interpretata ed applicata in coerenza con la natura essenzialmente fiduciaria e precaria dello stesso rapporto, suscettibile di essere interrotto unilateralmente da ciascuna delle parti, rispettivamente a domanda o ad iniziativa d'ufficio, anche al fine di agevolare gli opportuni avvicendamenti. In questa ottica si giustifica il comma 2 dell'articolo 6 del regolamento adottato con D.P.C.M. n. 7 del 1980, applicabile anche ai trasferimenti del personale assunto direttamente in forza del richiamo operato dal successivo articolo 9, secondo cui il rientro nelle Amministrazioni di provenienza e il trasferimento ad altra Amministrazione dello Stato del personale degli organismi informativi possono essere disposti d'ufficio per esigenze di servizio con provvedimento ampiamente discrezionale, specificando soltanto che il provvedimento stesso è stato adottato a questo titolo.
4- In conclusione, l’appello va respinto. Le spese del grado possono essere compensate sussistendo giusti motivi
P. Q. M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sul ricorso in appello indicato in epigrafe, lo respinge.
Spese del grado compensate.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’Autorità amministrativa.
Così deciso in Roma, il 13 gennaio 2009, dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sez. IV), riunito in Camera di Consiglio, con l’intervento dei magistrati:
Costantino SALVATORE - Presidente f.f.
Luigi MARUOTTI - Consigliere
Armando POZZI - Consigliere, est.
Anna LEONI - Consigliere
Bruno MOLLICA - Consigliere
L’ESTENSORE IL PRESIDENTE F.F.
Armando Pozzi Costantino Salvatore
Depositata in Segreteria il 31/3/2009.

venerdì 3 aprile 2009

T.A.R. Lombardia, II, 29 dicembre 2008, n. 6188

sentenza
29 dicembre 2008
n. 6188

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia
Sezione 2^
ha pronunciato la seguente

SENTENZA
sui ricorsi nn. 111 e 918 del 2008 proposti
[ricorso n. 111/08]
da
Guidi Franco e Nespor Stefano
rappresentati e difesi dagli avv.ti Ada Lucia De Cesaris e Claudia Galdenzi, elettivamente domiciliati presso la prima in Milano, via Fogazzaro 1
contro
Comune di Milano
in persona del Sindaco pro tempore Letizia Brichetto Arnaboldi Moratti, rappresentato e difeso dagli avv.ti Maria Rita Surano, Armando Tempesta, Antonello Mandarano, Anna Maria Moramarco, Alessandra Montagnani Amendolea, con domicilio eletto presso i medesimi in Milano, via della Guastalla 8, negli uffici dell’Avvocatura comunale
nei confronti di
Nuovi Progetti Immobiliari s.r.l.
con sede in Milano, in persona dell’A.U. signor Virgilio Braga, rappresentata e difesa dall’avv. Giovanni Mangialardi, presso il cui studio è elettivamente domiciliata in Milano, via dei Bossi 4
per l’annullamento
a) del titolo abilitativo formatosi col decorso del termine di legge sulla d.i.a. presentata il 12.10.2006 (pratica n. 8371/2006) per la realizzazione di un intervento edilizio in via privata Lecce n. 6;
b) del parere espresso il 4 (recte, 24) settembre 2007 dallo Sportello Unico per l’edilizia del Comune, che ha reso efficace la d.i.a. indicata sub a);
[ricorso n. 918/08]
da
Nespor Stefano
rappresentato e difeso dagli avv.ti Ada Lucia De Cesaris ed Ercole Romano, elettivamente domiciliato presso la prima in Milano, via Fogazzaro 1
contro
Comune di Milano
rappresentato e difeso dagli avv.ti Maria Rita Surano, Armando Tempesta e Antonello Mandarano, elettivamente domiciliato come sopra
nei confronti di
Nuovi Progetti Immobiliari s.r.l.
non costituita in giudizio
per l'annullamento
a) della comunicazione dirigenziale 8 gennaio 2008 (p.g. 131266/2008; pratica n. 8371/2006), ricevuta il 19.2.08, proveniente dallo Sportello unico per l’edilizia, Servizio interventi edilizi maggiori, Ufficio trattazioni gruppo 3);
b) del titolo abilitativo formatosi col decorso del termine di legge sulla d.i.a. presentata il 12.10.2006 (pratica n. 8371/2006) per la realizzazione di un intervento edilizio in via privata Lecce n. 6;
c) del parere espresso il 4 (recte, 24) settembre 2007 dallo Sportello Unico per l’edilizia del Comune, che ha reso efficace la d.i.a. indicata sub a);
d) del Regolamento edilizio del Comune di Milano e delle norme tecniche di attuazione del PRG vigente.
Visto il ricorso n. 111/08, notificato il 18 dicembre 2007 e l’8 gennaio 2008, depositato il 15 gennaio 2008;
Visto il ricorso n. 918/08, notificato il 18/21 e depositato il 24 aprile 2008;
Visti gli atti di costituzione in giudizio del Comune di Milano e la memoria di costituzione della Società controinteressata sul ricorso n. 111/08;
Viste le memorie delle parti;
Visti atti e documenti di causa;
Uditi, alla pubblica udienza del 18 dicembre 2008, relatore il dott. Carmine Spadavecchia, l’avv. De Cesaris, l’avv. Anna Maria Moramarco (per delega dell’avv. Mandarano) e l’avv. Mangialardi;
Considerato quanto segue in
FATTO e DIRITTO
1. I ricorrenti sono, l’uno (signor Franco Guidi) comproprietario dell’immobile ubicato in via Lecce 4, l’altro (signor Stefano Nespor) proprietario di una unità immobiliare sita al quarto ed ultimo piano del condominio di via Lecce 5.
La via Lecce è una via privata a fondo cieco, che per ciascuna mezzeria è di comune proprietà dei frontisti per tutta la lunghezza delle rispettive fronti.
Di fronte allo stabile di via Lecce 5, e a fianco dell’immobile di via Lecce 4, vi è un’area di mq 204,62, appartenente alla Società controinteressata, sulla quale sorgeva un magazzino/laboratorio artigianale avente altezza di ml. 4,50 circa.
Detta area - sita in zona a destinazione B1, funzione R/I, con indice di fabbricazione (If) di 3mc/mq (ex art. 19, 2.2 n.t.a.) - è oggetto dell’intervento edilizio in contestazione.
Secondo la denuncia di inizio attività (d.i.a.) presentata il 12.1.2006, l’intervento consiste in una ristrutturazione edilizia unitamente ad una nuova costruzione; esso è volto a trasformare la struttura presesistente (ex magazzino/laboratorio, alto ml. 4,50) in sette box, con ampi spazi chiusi sovrastanti i volumi destinati a parcheggio, e a realizzare al di sopra di tale struttura due nuovi piani, ciascuno avente altezza di ml. 4,85, dotato di ampi spazi con soppalchi attrezzati e finestrati, e un sottotetto senza permanenza di persone con altezza media interna di ml. 2,35.
In sede di istruttoria tecnica lo Sportello unico per l’edilizia ha rilasciato il 24 settembre 2007 un parere favorevole che: qualifica l’intervento come di ristrutturazione e ampliamento; precisa che il progetto, inerente un edificio artigianale, prevede la traslazione e il cambio di destinazione d’uso (da artigianale a residenziale) della Slp esistente al piano terreno (mq 195,20) con un modesto ampliamento di Slp (mq 1,73), per una Slp complessiva di mq 196,93; ritiene “non pertinente” la verifica della necessità di una pianificazione attuativa; classifica l’accessibilità dell’area come “sufficiente”; conclude che “l’intervento rientra nella volumetria ammissibile con uno sfruttamento dell’area pari a 2,887 mc/mq calcolato su una superficie fondiaria di mq 204,62”.
2. Con il primo dei ricorsi in epigrafe (n. 111/08) i ricorrenti hanno impugnato il titolo abilitativo formatosi sulla d.i.a. ed il parere tecnico 24 settembre 2007 dello Sportello unico edilizia.
Con atto in data 27.9.07 il signor Nespor ha diffidato il Comune a verificare la conformità del progetto alle prescrizioni di legge e di regolamento. Con nota 20.11.2007 ha segnalato illegittimità dell’intervento edilizio, invitando il Comune a interdire l’avvio o la prosecuzione dei lavori. Con nota 8 gennaio 2008 il dirigente del Servizio lo ha informato che l’esame della pratica edilizia era stato favorevolmente concluso sulla scorta di quanto rappresentato sugli elaborati grafici asseverati dal progettista.
Col secondo dei ricorsi in epigrafe (ricorso n. 918/08) il sig. Nespor ha impugnato, unitamente agli atti investiti dal primo ricorso, la menzionata nota dirigenziale 8 gennaio 2008, il Regolamento edilizio e le n.t.a. del PRG.
3. Il Comune e la Società controinteressata, costituiti in giudizio, hanno controdedotto.
La domanda cautelare presentata col primo ricorso, motivatamente accolta dalla Sezione (ord.za 30.11.08 n. 167), è stata respinta dal giudice di appello (Cons. Stato IV, 15.4.08 n. 2065), che, valutati i contrapposti interessi, ha considerato “prevalente quello della società appellante”.
4. I ricorrenti premettono che il calcolo della volumetria è stato effettuato in base all’art. 11 del Regolamento edilizio, il quale fa riferimento alla volumetria virtuale risultante dal prodotto della superficie per un’altezza virtuale dell’interpiano di ml 3,00, indipendentemente dalla sua altezza effettiva.
Essi rilevano che, tenendo conto delle altezze reali, e non virtuali, lo sfruttamento effettivo dell’area (di 204,62 mq) è di mc 2.307, il che corrisponde a 11,27 mc/mq, ben superiori all’indice (3 mc/mq) previsto dall’art. 19 n.t.a. per le zone B1.
Rilevano altresì che l’altezza dello stabile in progetto è di oltre 18 ml, mentre lo stabile di fronte è alto circa 11 metri, e lo stabile adiacente (proprietà Guidi) è altro circa 8,5 metri.
Su tali premesse formulano i seguenti motivi di impugnazione, comuni ai due ricorsi:
- violazione del Regolamento edilizio (art. 11) e delle n.t.a. del p.r.g. (art. 19, par. 2.2, e art. 17, par. 1.2): il criterio virtuale previsto dall’art. 11 R.E., finalizzato a valutare la capacità insediativa dell’intervento edilizio, non può essere utilizzato per calcolare l’indice di fabbricabilità indicato dalle norme tecniche di attuazione del piano regolatore (nella specie, 3 mc/mq), che identifica il reale volume costruibile sulla c.d. area di pertinenza, in base ad una valutazione non del peso insediativo, ma del sostenibile assetto ed uso del territorio sotto il profilo urbanistico e morfologico; detto indice (3 mc/mq) corrisponde del resto a quello previsto da una norma primaria tuttora vigente (art. 41-quinquies, sesto comma, legge n. 1150 del 1942), che - assumono i ricorrenti - fa riferimento ai volumi reali realizzabili su aree di pertinenza, ed è superabile solo con apposito piano particolareggiato o lottizzazione convenzionata estesi all’intera zona; l’art. 17, par. 1.2 n.t.a., peraltro, esclude per le zone B1 particolari modificazioni dell’attuale stato di fatto [primo motivo (ric. 111/08) e quarto motivo (ric. 918/08)];
- violazione del decreto ministeriale n. 1444/1968 (art. 8) e delle n.t.a. del p.r.g. (art. 17, par. 1.2, e art. 19, par. 2.2): l’altezza dell’edificio (oltre 18 mt) contrasta con l’art. 8 d.m. 1444/1968 (reso inderogabile dall’art. 41-quinquies, commi ottavo e nono, legge n. 1150/1942), il quale dispone che nelle zone B l’altezza massima dei nuovi edifici non può superare l’altezza degli edifici preesistenti e circostanti, nonché con l’art. 17 n.t.a., che per le zone B1 intende salvaguardare l’attuale stato di fatto, escludendo modificazioni sostanziali [secondo motivo (ric. 111/08) e sesto motivo (ric. 918/08)];
- sviamento e carenza di istruttoria: la Società controinteressata non ha dimostrato di avere acquisito anche la quota indivisa di proprietà della mezzeria della strada privata, il che pone, in ordine all’accessibilità dell’edificio e dei box, problemi che il Comune avrebbe dovuto, nell’istruttoria della pratica edilizia, approfondire [terzo motivo (ric. 111/08) e secondo motivo (ric. 918/08)];
- in subordine, violazione dell’art. 41-quinquies, comma sesto, della legge n. 1150/1942: calcolando l’indice di fabbricabilità ex art. 19 n.t.a. in modo virtuale, il Comune ha violato la norma primaria (art. 41-quinquies cit.) che consente il superamento dell’indice di 3 mc/mq solo previa approvazione di piano attuativo (ovvero, secondo la giurisprudenza, in caso di area già urbanizzata): infatti, in mancanza di piano particolareggiato, ed essendo la volumetria in progetto vicina a 12 mc/mq, il Comune avrebbe dovuto verificare in concreto l’urbanizzazione esistente e la sua idoneità a sopportare il nuovo intervento; sarebbe errata, inoltre, la valutazione di accessibilità dell’area, posto che la strada privata esistente, a fondo cieco e transitabile da un solo veicolo per volta, è insufficiente a fronte del traffico indotto dal nuovo insediamento; lo stesso art. 19 n.t.a., ove ammettesse il calcolo virtuale della volumetria, sarebbe illegittimo perché, consentendo di edificare con concessione edilizia semplice, senza piano particolareggiato e senza preesistente urbanizzazione, finirebbe per aggirare i limiti reali posti dalla norma primaria, superando altresì il limite massimo di densità fondiaria (7 mc/mq) posto dal decreto ministeriale n. 1444 del 1968 [quarto motivo (ric. 111/08), settimo e ottavo motivo (ric. 918/08)].
5. Il ricorso n. 918/08 investe anche la nota dirigenziale 8 gennaio 2008 (che risponde alla diffida dell’interessato), imputando al Comune difetto di istruttoria e di motivazione: a) per avere valutato la d.i.a. sulla base di un riscontro meramente cartolare, senza sopralluogo, senza verifica delle dichiarazioni inerenti allo stato dei luoghi, senza un accertamento concreto sullo stato di urbanizzazione della zona (primo motivo); b) per avere omesso di valutare osservazioni formulate dall’interessato con la propria diffida (terzo motivo).
Il ricorso denuncia anche l’illegittimità dell’art. 11 del Regolamento edilizio a fronte dell’art. 41-quinquies, comma sesto, legge n. 1150/1942, chiedendone la disapplicazione (quarto motivo). Contesta comunque l’applicabilità del calcolo virtuale nel caso in esame, in cui ogni piano risulta composto da due volumi ben distinti (volume del piano e volume sovrastante i soppalchi, ciascuno con autonoma finestrazione), sicché verrebbe meno il presupposto (l’unitarietà del volume interno ai singoli piani) di siffatta modalità di calcolo (quinto motivo).
6. Il Comune, costituito in entrambi i giudizi, ha controdedotto.
La controinteressata - costituita solo sul primo ricorso - ha controdedotto anch’essa nel merito, eccependo in via preliminare l’inammissibilità del ricorso sul rilievo che, risolvendosi la denuncia di inizio attività (d.i.a.) in un atto privato, che non varrebbe né come provvedimento amministrativo, né come atto abilitativo, l’unico rimedio esperibile da parte del soggetto che si ritenga leso da una d.i.a. nei cui riguardi l’Amministrazione non abbia esercitato alcuna potestà repressiva consisterebbe nel rivolgere formale istanza all’Amministrazione stessa e nell’impugnare l’eventuale silenzio-rifiuto formatosi su detta istanza.
7. Ciò premesso, il Collegio osserva quanto segue.
I ricorsi, avendo lo stesso oggetto, possono essere riuniti e decisi con un’unica sentenza.
Per quanto concerne l’eccezione pregiudiziale sollevata dalla controinteressata, il Collegio non ritiene di soffermarsi sugli indirizzi giurisprudenziali concernenti i mezzi di tutela del terzo leso dalla denuncia di inizio attività (d.i.a.) - indirizzi tra i quali sembra in via di consolidamento quello favorevole alla diretta impugnabilità della d.i.a. (Cons. Stato VI 5.4.07 n. 1550, IV 29.7.08 n. 3742) - dal momento che nel caso in esame i ricorsi investono anche due atti emanati dallo Sportello unico edilizia: il parere tecnico 4 settembre 2007 (con cui il Comune ha verificato la legittimità della d.i.a.) e la nota 8 gennaio 2008 (con cui ha ribadito la legittimità della d.i.a. in risposta alla diffida formulata da uno dei ricorrenti).
Ciò rende ammissibili i ricorsi, dal momento che, quali che siano lo stato del dibattito sulla questione relativa all’impugnabilità della d.i.a. e gli orientamenti giurisprudenziali sul tema, l’impugnazione di atti amministrativi emessi nell’esercizio del potere di controllo dell’attività edilizia consente comunque un sindacato ad ampio spettro sulla legittimità dell’intervento edilizio avviato con la denuncia di inizio attività, che il Comune non ha ritenuto di interdire, né di reprimere.
8. Nel merito, il ricorso è fondato.
La volumetria edificabile è un dato che ha a che fare non solo col peso insediativo (cioè con il carico urbanistico indotto da un nuovo insediamento), ma anche con la morfologia del territorio, e con l’ingombro fisico ritenuto compatibile con la fisionomia e l’assetto di una determinata zona.
Se è vero che il calcolo della volumetria può essere orientato da criteri regolamentari volti a stabilire quali spazi non siano computabili (spazi accessori non abitabili, volumi tecnici, vani di servizio, ecc.), il volume virtuale non può essere sganciato da quello fisico fino al punto da alterare sensibilmente il dato reale.
Ove le singole Amministrazioni fossero libere di fissare per il computo del volume criteri del tutto avulsi da una base reale, la norma primaria (art. 41-quinquies, sesto comma, legge n. 1150 del 1942), e il decreto ministeriale applicativo (art. 7 d.m. 2 aprile 1968 n. 1444), che pongono limiti di densità edilizia valevoli su tutto il territorio nazionale senza stabilire criteri uniformi per il calcolo della volumetria, verrebbero diversamente applicati e sostanzialmente vanificati.
Ora, l’art. 41-quinquies della legge 17 agosto 1942 n. 1150 (aggiunto dall’art. 17 legge 6 agosto 1967 n. 765) dispone che nei comuni dotati di piano regolatore generale o di programma di fabbricazione, nelle zone in cui siano consentite costruzioni per volumi superiori a tre metri cubi per metro quadrato di area edificabile, ovvero altezze superiori a metri 25, non possono essere realizzati edifici con volumi ed altezze superiori a detti limiti, se non previa approvazione di apposito piano particolareggiato o lottizzazione convenzionata estesi alla intera zona e contenenti la disposizione planivolumetrica degli edifici previsti nella zona stessa.
L’art. 19 n.t.a., laddove prevede, nelle zone B1, l’edificabilità a concessione edilizia semplice secondo un indice massimo pari a 3 mc/mq., è in linea con la norma primaria.
Senonchè, l’art. 11 del Regolamento edilizio del 1999, riducendo ulteriormente l’altezza “virtuale” già fissata in m. 3,30 dall’art. 6.10 delle n.t.a., stabilisce che “il volume delle costruzioni è da ricavarsi convenzionalmente moltiplicando la superficie lorda complessiva di pavimento (S.l.p.) dei singoli piani per l’altezza virtuale dell’interpiano di m. 3,00 indipendentemente dalla sua altezza effettiva”.
9. Ora, qualunque sia la ratio della norma (computare a tre metri anche altezze inferiori; utilizzare un criterio uniforme di calcolo indipendentemente dalle differenze di altezza dei singoli piani interni allo stesso edificio; ecc.), essa non può essere intesa nel senso di autorizzare la progettazione e la realizzazione di edifici pluripiano come se le altezze interpiano, qualunque sia la loro estensione, fossero pari a tre metri.
L’applicazione indiscriminata del criterio virtuale finirebbe per alterare la regola posta dalla norma primaria fino al punto di ammettere volumetrie del tutto avulse dalla realtà: come avviene nel caso di specie, in cui l’altezza effettiva interpiano (m. 4,85), di gran lunga superiore a quella virtuale (m. 3,00), tende a sfruttare attraverso l’uso di soppalchi spazi interni artificiosamente dilatati in altezza.
Intesa altrimenti, la norma finirebbe per aggirare lo stesso limite volumetrico (conforme alla norma primaria) dettato in sede di pianificazione, autorizzando la realizzazione con concessione semplice di volumetrie che richiederebbero (in base alla medesima norma primaria) la redazione di un piano attuativo e - verosimilmente - il potenziamento delle opere di urbanizzazione, la cui verifica è invece da escludersi laddove l’edificazione, mantenendosi nel limite di 3 mc/mq, sia consentita con semplice concessione (ora permesso di costruire).
Così interpretata, ed escluso che essa possa “interpolare” l’art. 19. n.t.a. al fine di rendere assentibili interventi come quello in contestazione, la norma regolamentare - peraltro suscettibile di disapplicazione in caso di contrasto con fonti normative superiori: cfr. Cons. Stato V 4.2.04 n. 367, 10.1.03 n. 35 - si sottrae a censure di illegittimità.
Lo stesso dicasi dell’art. 19 n.t.a., che rettamente inteso non si espone né a disapplicazione (peraltro consentita dalla sua natura normativa: cfr. TAR Brescia 4.11.03 n. 1344), né ad annullamento (chiesto in ricorso, ancorché in via subordinata).
10. I motivi che denunciano la violazione dell’art. 8 d.m. 2 aprile 1968 n. 1444 e dell’art. 17 delle n.t.a. non sono invece fondati.
L’art. 8 del decreto ministeriale (che stabilisce limiti inderogabili di altezza in forza dell’art. 41-quinquies della legge urbanistica) dispone che l'altezza massima dei nuovi edifici non può superare l'altezza degli edifici preesistenti e circostanti, con l’eccezione di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche, sempre che rispettino i limiti di densità fondiaria di cui all'art. 7.
In base al rilievo prodotto dalla controinteressata (allegato al doc. 9), e non contestato, l’edificio in progetto ha un’altezza di 18,06 metri. Sebbene tutti gli edifici che affacciano sulla via Lecce siano di altezza inferiore (compresa tra 8,33 mt e 16,32), esistono nelle immediate vicinanze, e dunque nel contesto degli edifici “circostanti”, fabbricati di altezza superiore (24,18 e 22,42 metri).
Non può indurre a diversa conclusione la circostanza che le zone B1 vengano definite (art. 17, punto 1.2 n.t.a.) come “parti del territorio per le quali il Piano non prevede particolari modificazioni dell’attuale stato di fatto”, trattandosi di definizione generica, che attiene alla fisionomia generale della zona, e che non può essere intesa come volta a precludere ogni immutazione dell’esistente, se non a costo di vanificare le stesse previsioni di edificabilità poste dall’art. 19.
11. Da ultimo, i ricorrenti dubitano dell’accessibilità dell’edificio in progetto e dei relativi box, addebitando al Comune carenze istruttorie per non avere verificato se la Società controinteressata abbia acquisito, assieme all’immobile oggetto di trasformazione edilizia, anche la quota indivisa di proprietà della mezzeria della strada privata.
Il motivo è infondato. Nessuna approfondimento ulteriore il Comune era tenuto a fare ove si consideri che: l’atto di compravendita dell’immobile di via Lecce 6 (cfr. scrittura privata autenticata il 13.1.2006, registrata il 25.5.06) precisa che la proprietà viene acquistata con ogni accessione e pertinenza, oneri e servitù attive e passive, e che la proprietà della via privata Lecce è normata da due atti notarili del 1923 e del 1930; l’atto del 1930 ha ad oggetto il terreno (all’epoca area nuda) comprensivo di una porzione, tinteggiata in giallo, destinata a strada privata e confinante con l’altra metà della strada privata; l’atto di compravendita 25.6.1926 prodotto dai ricorrenti precisa che la via privata Lecce “è di comune proprietà dei singoli fronteggianti per tutta la lunghezza delle rispettive fronti e da considerarsi strada in comune fra i frontisti”.
12 Per le considerazioni esposte, che assorbono ogni altro motivo di censura, i ricorsi vanno accolti, nei limiti sopra precisati, con conseguente annullamento del titolo abilitativo formatosi sulla d.i.a. 12.10.2006 (pratica n. 8371/2006) e degli atti emessi dallo Sportello unico edilizia. Si ravvisano tuttavia ragioni sufficienti per disporre la compensazione integrale tra le parti delle spese di causa.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia, riuniti i ricorsi in epigrafe, li accoglie, e per l’effetto annulla il titolo abilitativo formatosi sulla d.i.a., il parere 4 settembre 2007 e la nota 8 gennaio 2008 dello Sportello unico per l’edilizia.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'Autorità amministrativa.
Così deciso in Milano, nella camera di consiglio del 18 dicembre 2008, con l'intervento dei magistrati:
Mario Arosio presidente
Carmine Spadavecchia consigliere, estensore
Fabrizio D’Alessandri referendario
L’estensore Il presidente