venerdì 27 marzo 2009

Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, 3 dicembre 2008, n. 13

Consiglio di Stato
Adunanza Plenaria
Decisione 3 dicembre 2008, n. 13
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Adunanza Plenaria,
ha pronunciato la seguente
DECISIONE
sui ricorsi (riuniti in appello) nn. 12 e 13 del 2008, proposti:
quanto al n. 12 del 2008, dalla Soc. RANCO, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avv.ti Ercole Romano e Diego Vaiano, elettivamente domiciliato in Roma, Lungotevere Marzio n. 3, presso lo studio di quest’ultimo;
contro
il Comune di Ranco, in persona del sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avv.ti Claudio Linzola e Giuseppe Ramadori, elettivamente domiciliato presso quest’ultimo in Roma, via Marcello Prestinari n. 13;
nonché contro
la Regione Lombardia, in persona del Presidente pro tempore, rappresentato e difeso dagli avv.ti Marco Cederle e Giuliano M. Pompa, elettivamente domiciliata presso quest’ultimo in Roma, via Boncompagni n. 71/c;
per la parziale riforma
della sentenza n. 182 del 2007 del TAR Lombardia- Milano, Sezione I, e per l’integrale l’accoglimento del ricorso di primo grado;
nonché
quanto al ricorso n. 13 del 2008, dalla Soc. RANCO, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avv.ti Ercole Romano e Diego Vaiano, elettivamente domiciliato in Roma, Lungotevere Marzio n. 3, presso lo studio di quest’ultimo;
contro
il Comune di Ranco, in persona del sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avv.ti Claudio Linzola e Giuseppe Ramadori, elettivamente domiciliato presso quest’ultimo in Roma, via Marcello Prestinari n. 13;
nonché contro
la Regione Lombardia, in persona del Presidente pro tempore, rappresentata e difesa dagli avv.ti Piera Pujatti e Giuliano M. Pompa, elettivamente domiciliato presso quest’ultimo in Roma, via Boncompagni n. 71/c;
per l’annullamento
della sentenza n. 217 del 2007 del TAR Lombardia- Milano, Sezione I, resa in sede di giudizio per l’ottemperanza al giudicato;
Visti i ricorsi con i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio delle Amministrazioni intimate;
Vista l’ordinanza Sezione Quarta di questo Consiglio n.3615 in data 18 luglio 2008, con cui le cause, previa riunione, sono state rimesse all’esame dell’adunanza plenaria del Consiglio di Stato;
Viste le memorie prodotte dalle parti;
Visti gli atti tutti delle cause;
Relatore, alla pubblica udienza del 20 ottobre 2008 il cons. Luciano Barra Caracciolo;
Uditi, altresì, l’avv. Buccellato, su delega dell’avv. Ramadori, l’avv. Pompa e l’avv. Romano.
FATTO
1. Prima di passare all’esposizione della specifica controversia in esame, quale risultante dalle posizioni rispettivamente assunte dalle parti con gli atti di appello e con le memorie delle parti resistenti, è opportuno illustrare i termini di fatto che costituiscono i precedenti ed il contesto n cui si colloca la vicenda medesima, caratterizzata da una particolare articolazione e complessità, anche in relazione al tempo trascorso dall’inizio dei numerosi contenziosi presupposti a quello qui in rilievo.
In data 9 giugno 1971, la società appellante ed il Comune di Ranco hanno concluso una convenzione di lottizzazione, avente per oggetto un’area estesa 54.500 mq. per la realizzazione di una volumetria di circa 37.000 mc., in attuazione dell’allora vigente programma di fabbricazione. Successivamente, è stato rilasciato il nulla osta, prescritto per l’incidenza sull’area di un vincolo idrogeologico.
Il Sindaco del Comune di Ranco aveva negato, con un primo provvedimento dell’8 agosto 1975, n.1312, la licenza di costruzione richiesta dalla società appellante, e tale diniego era stato annullato con sentenza del Tar Lombardia 28 ottobre 1979, n.800, sul rilievo che “la sola presenza del vincolo idrogeologico ex art. 40 della l.r. n.51 del 1975, non comportasse una assoluta preclusione dell’attività edificativa”, subordinandola al previo rilascio dell’autorizzazione di competenza regionale, mancando inoltre la specificazione del fondamento del diniego in riferimento alla lettera a) o b) dello stesso art.40, comma 2.
E’ stato, poi, dapprima adottato (nel 1977) e poi approvato, con la citata delibera regionale n. 3\5970 del 31 marzo 1981 il piano regolatore generale; questo, in sede di adozione comunale, aveva qualificato la zona come inedificabile, perché soggetta a vincolo idrogeologico, mentre la Regione, in sede di approvazione, aveva modificato le norme tecniche, restituendo alle aree “una certa edificabilità”(cfr; pag 12, decisione IV, n.3\1988 citata).
Ritenendo di eseguire la sentenza n. 800 del 1979, il Sindaco di Ranco in data 11 febbraio 1980 ha emesso un ulteriore diniego, rilevando che quello precedente andava inteso nel senso che l’inedificabilità discendeva dalla presenza di alberi di alto fusto, rappresentanti una zona boschiva ai sensi dell’art. 40 della stessa legge regionale n. 51 del 1975.
In accoglimento di un ulteriore ricorso della società, il TAR – con la sentenza n. 385 del 1985 – ha annullato anche il secondo diniego, per la ravvisata incompetenza del Sindaco, poiché la gestione del vincolo idrogeologico rientrava tra le funzioni delegate dalla Regione alla Comunità montana.
La stessa sentenza n. 385 del 1985 ha accolto anche il ricorso proposto dalla società lottizzante avverso la variante al piano regolatore e ne ha disposto l’annullamento per non aver tenuto conto della preesistenza della vigente convenzione di lottizzazione.
Tale sentenza è stata, appunto, confermata da questa Sezione con la decisione n. 3 del 1988, che ha respinto le censure formulate dal Comune e dalla Regione.
La società, previa notifica di una diffida, ha proposto il ricorso per l’ottemperanza alla sentenza n. 385 del 1985.
Con la sentenza n. 187 del 1990, il TAR ha accolto il ricorso ed ha nominato un commissario ad acta (rilevando che una nota trasmessa dalla Regione aveva osservato che spettava al Comune eseguire il giudicato).
Il commissario ad acta con “deliberazione” del 31 gennaio 1991, n.1, ha quindi adottato una variante al piano regolatore, tenendo conto della sopravvenuta legge n. 431 del 1985 e delle conseguenti normative regionali di coordinamento e di attuazione. La variante ha previsto la riduzione del contenuto del precedente piano di lottizzazione, sia in termini volumetrici (10.000 mc. invece di oltre 30.000 mc.), sia per la concentrazione in quattro lotti dei volumi.
L’atto commissariale non è stato approvato dalla Regione Lombardia, che – con la delibera n. 39033 del 16 luglio1993 - ha ravvisato la sussistenza della inedificabilità temporanea dell’area, ai sensi dell’art. 1 ter della legge n. 431 del 1985.
La società ha impugnato tale delibera regionale sia con un ricorso d’ottemperanza, sia con un ricorso di legittimità, invocando i principi formulati dall’Adunanza Plenaria, con la decisione n. 1 del 1986, sui rapporti tra il giudicato di annullamento e l’esercizio dei poteri di pianificazione.
Il TAR – con la sentenza n. 1146 del 1995 – ha riunito i ricorsi e li ha respinti, affermando la legittimità dell’atto regionale in ragione dell’ambito dei poteri esercitabili dalla regione.
La sentenza n. 1146 del 1995 è stata riformata da questa Sezione con la decisione n. 2592 del 2000, per la quale:
- la Regione era tenuta a rispettare i principi derivanti dalla sentenza n. 385 del 1985 del TAR, gravante dell’obbligo di ottemperanza anche la Regione medesima, parte necessaria del giudizio di merito e di quello di ottemperanza, nonostante la diversa e contraddittoria sentenza di esecuzione appellata e la precedente sentenza dello stesso Tar, n.187 del 1990, contenente un “parziale ordine di esecuzione” indirizzato al solo Comune;
- in sede di approvazione della variante, la Regione non avrebbe potuto effettuare un sindacato sulle scelte del commissario ad acta, le cui statuizioni hanno tenuto conto di tutti gli interessi in conflitto, incombendo sulla Regione di far valere in sede di ottemperanza “l’esistenza di probabili vincoli di inedificabilità temporanea” legati alla subentrata disciplina paesaggistica, e spettando alla Regione non già un potere valutativo autonomo ma l’esercizio, quale parte del giudizio di merito e di ottemperanza, di un “dovere di esecuzione implicito, ma non attuale, perché comunque condizionato dalla preventiva attivazione del Comune o dell’organo a quello sostituito”;
- ha disposto che il medesimo commissario ad acta portasse a conclusione il procedimento, adottando l’approvazione del procedimento di variante e rilasciando, ove ad essa conformi, le chieste concessioni edilizie (e ponendo a carico della Regione il pagamento del suo ulteriore compenso).
Tale decisione n. 2592 del 2000 è passata in giudicato, perché sono stati dichiarati inammissibili – dalle Sezioni Unite e dalla Quarta Sezione - i ricorsi proposti dal Comune e dalla Regione, rispettivamente, per ragioni di giurisdizione e per revocazione.
La società, quindi, con un primo ricorso, ha chiesto al TAR la determinazione di ulteriori misure, nel medesimo giudizio di ottemperanza già “sospeso” a seguito della la riformata sentenza n. 1146 del 1995, ed ha altresì presentato l’ulteriore ricorso n. 209 del 2003, volto ad ottenere la condanna del Comune e della Regione al risarcimento dei danni.
All’udienza del 7 giugno 2007, oltre tali due ricorsi, è stato trattenuto dal TAR in decisione anche il ricorso n. 2856 del 2000, proposto contro il piano regolatore, adottato con delibera comunale n. 15 del 1997 e approvato con delibera regionale n. 16 del 2000.
Il TAR ha così deciso:
- con la sentenza n. 182 del 2007, ha respinto il ricorso n.209 del 2003 proposto per il risarcimento danni;
- con la sentenza n. 216 del 2007, ha accolto il ricorso n. 2856 del 2000, proposto avverso la variante approvata dalla Regione con la delibera n. 16 del 2000, per non aver tenuto conto della precedente sentenza n. 385 del 1985 e delle successive pronunce rese in sede di esecuzione di giudicato;
- con la sentenza n. 217 del 2007, ha rilevato che il commissario avrebbe dovuto valutare la rilevanza del piano paesistico sopravvenuto, approvato con delibera regionale n. 197 del 2001, ed ha nominato un diverso commissario ad acta (nella persona del Direttore dell’Ufficio provinciale di Varese o funzionario da lui delegato).
2. Avverso la sentenza n. 182 del 2007, che ha respinto la domanda risarcitoria, la società ha proposto l’appello n. 4356 del 2007, rubricato come n.12\2008 nel ruolo dell’A.P., deducendo le seguenti censure:
A) Travisamento dei fatti. Per la sentenza impugnata, i provvedimenti erano stati annullati dal giudice amministrativo per sostanziale difetto di motivazione e da ciò non deriverebbe la colpa in capo alla P.A., che non perderebbe il potere di rinnovazione dell’atto, da cui il rinvio dell’esame dell’elemento soggettivo all’esito del nuovo adottando provvedimento.
Deduce l’appellante che il diniego della licenza edilizia non era stato conseguente al sopravvenire della variante al PRG annullata per difetto di motivazione, ma per ragioni autonome e diverse; che si era trattato non di uno, ma di due dinieghi, il secondo conseguente all’annullamento del primo; che la sentenza n. 385 del 1985, a base del giudicato, dopo la sua conferma da parte del Consiglio di Stato, sez. IV, con decisione n. 3 del 1988, aveva riunito e unitariamente deciso due ricorsi attinenti, l’uno al diniego della licenza edilizia e l’altro alla variante al PRG che aveva obliterato la preesistente convenzione di lottizzazione.
Da ciò l’appellante fa derivare che, sotto il profilo edilizio, si era già verificato quel presupposto (reiterazione dell’esercizio del potere) che la sentenza pretende per ritenere ammissibili le domande risarcitorie.
Inoltre, l’appellante sostiene che i dinieghi di licenza edilizia, annullati dal TAR della Lombardia con le sentenze nn. 800 del 1979 e 385 del 1985, non erano stati annullati per difetto di motivazione, ma perché il Comune aveva ritenuto che la sopravveniente norma di cui all’art. 40 della legge regionale n. 51 del 1975 avesse comportato un sostanziale vincolo di inedificabilità del terreno interessato dalla presenza di alberi di alto fusto. Il TAR, con la sentenza n. 800 del 1979, aveva affermato che il vincolo idrogeologico non comportava inedificabilità, ma che era solo necessario che l’edificazione fosse assistita dal rinnovato nulla osta, rilasciato dalle competenti autorità regionali. Il Comune aveva rinnovato il diniego, nel presupposto che il primo diniego fosse stato reputato affetto da carenza di motivazione ed aveva integrato la motivazione con riferimento al numero degli alberi di alto fusto presenti sul terreno.
Da qui il nuovo annullamento del TAR con la sentenza n. 385 del 1985, confermata dalla decisione n. 3 del 1988 di questa Sezione.
Secondo l’appellante, il secondo diniego avrebbe fatto cattivo uso delle norme relative alla disciplina del vincolo idrogeologico e si sarebbe volutamente discostato dalla precedente decisione di cui alla sentenza n. 800 del 1979.
Da qui la sostenuta violazione delle regole di diligenza, perizia, prudenza, necessaria imparzialità che caratterizzano la presenza di un comportamento responsabilmente colposo, sanzionabile con la condanna risarcitoria.
B) Sotto il profilo urbanistico, considerata la variante al P.R.G. che aveva obliterato la preesistente convenzione di lottizzazione, l’appellante sostiene che la circostanza che il vizio caducatorio sia consistito in un difetto di motivazione non può far ritenere che tale vizio induca alla mancanza di colpa risarcibile da parte dell’Amministrazione, occorrendo valutare la volontarietà o meno di tale mancanza rispetto al rapporto cui la determinazione amministrativa si riferisce.
Richiama, a favore della propria tesi, la sentenza n. 157 del 2003 Cass civ., Sez. I, e quanto affermato dalla decisione n. 3 del 1988 da questa Sezione, resa inter partes.
C) L’appellante censura, poi, la sentenza impugnata per quel che attiene alla valutazione della rilevanza del pregresso giudizio di ottemperanza, errando il Tar nel ritenere esente da colpa l’esercizio del potere in materia paesistica da parte della Regione quando la stessa sentenza della IV Sezione n.2592\2000 aveva affermato che lo stesso avrebbe dovuto essere esercitato con uno strumento diverso (procedimento incidentale avanti il giudice dell’esecuzione).
Ciò in quanto l’intervento regionale medesimo che aveva negato l’approvazione della variante proposta dal commissario ad acta, alla luce della sentenza n. 2592 del 2000 di annullamento di detta delibera, fa emergere l’erroneità della sentenza impugnata, laddove sostiene che non si può configurare una colpa dell’amministrazione regionale nell’aver ritenuto di poter usare i propri poteri con il diniego di approvazione della variante, poteri del resto ritenuti legittimi anche dalla sentenza di I grado.
L’appello sostiene, in proposito, che la decisione n. 2592 del 2000 aveva ritenuto che la Regione avrebbe dovuto tenere un comportamento consono alla decisione del TAR Lombardia n. 187 del 1989 (ottemperanza), rispetto alla quale l’approvazione di nuovi strumenti urbanistici da parte della Regione si poneva necessariamente come conseguenza non già di un autonomo potere valutativo, ma come esercizio di un dovere di esecuzione implicito, condizionato dalla preventiva attivazione del Comune o dell’organo a quello sostituito, e che la Regione si sarebbe sottratta non solo al giudicato, ma anche al giudizio di ottemperanza, all’interno del quale soltanto avrebbe potuto interloquire, in quanto parte necessaria ed evocata.
La Regione si era tenuta cioè illegittimamente fuori dal giudizio di ottemperanza, ritenendo di poter esercitare una funzione propria ed autonoma, svincolata cioè dagli effetti del giudicato di annullamento e dalla sentenza che ne aveva disposto l’esecuzione, negando l’approvazione al disegno urbanistico del Commissario ad acta in pretesa applicazione della legge n. 431 del 1985, di sostanziale salvaguardia rispetto a successivi atti di pianificazione previsti dalla medesima legge.
Tale comportamento, consistente nella sottrazione all’esecuzione di una sentenza passata in giudicato, rappresenterebbe violazione dell’art. 2909 c.c., nonché scelta amministrativa di completo malgoverno del potere poi esercitato e violazione della regola sancita in materia urbanistica dall’Adunanza Plenaria, con la decisione n. 1 del 1986, che ammetteva la rilevanza dello jus superveniens in corso di giudizio, ma con il limite dell’esigenza di contemperamento dell’interesse pubblico sotteso alla nuova disciplina, nel caso paesistica, con l’interesse edificatorio in precedenza vantato dal ricorrente vittorioso. L’aver la Regione opposto alla variante urbanistica commissariale, riduttiva delle volumetrie previste dal piano di lottizzazione ed aderente ai canoni della tutela paesaggitica introdotta dalla legge n.431\1985, l’inedificabilità temporanea della zona in attesa della formazione dei piani paesaggistici regionali, configurava una negligente percezione della funzione che in concreto doveva essere esercitata.
Invero, la colpa dell’organo amministrativo ricorre tutte le volte in cui la illegittimità del provvedimento si ponga in rapporto con la volontà dello stesso organo attraverso il carattere negligente, imprudente o imperito del suo agire nel caso concreto.
D) La società appellante contesta, poi, in punto di fatto la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto sussistente una corresponsabilità ex art. 1227 c.c. della società stessa, per inerzia serbata nel richiedere il nuovo intervento del Commissario ad acta.
Invero, subito dopo la decisione n. 2592 del 2000 la società ha dovuto contestare con una nuova impugnativa una ulteriore variante del PRG (D.G.R. n.16\2000), anch’essa non rispettosa della convenzione di lottizzazione. Detto ricorso è stato chiamato alla stessa udienza di merito e unitariamente discusso con quello della presente vicenda e con l’altro dell’ottemperanza, ottenendo l’accoglimento con la sentenza n. 216 del 2007. La presenza del nuovo PRG si poneva, quindi, di ostacolo alla prosecuzione del giudizio di ottemperanza.
Inoltre, la stessa decisione n. 2592 del 2000 aveva formato oggetto di ricorso per revocazione e di ricorso per motivi di giurisdizione (quest’ultimo deciso solo con la sentenza Cass. SS. UU. n. 5730 del 2002).
E) In conclusione, la difesa della società appellante affida al Collegio la definizione del rapporto corrente fra il giudizio per l’ottemperanza al giudicato e l’azione risarcitoria, ritenendo che quest’ultima, relativamente anche al quantum e ai titoli relativi, non possa che conseguire all’esito del primo, in quanto volto al riconoscimento della possibilità edificatoria dei terreni, sia pure nei limiti ridotti dalla variante adottata dal commissario ad acta.
Ripropone, quindi, le domande formulate in primo grado, con la precisazione della corrispondente diminuzione e diversa quantificazione all’esito dell’ottemperanza, in caso di riunione dei due ricorsi o di sospensione del ricorso in esame sino alla conclusione del primo.
Quanto ai danni, sollecitando il potere del Collegio ex art. 35, comma 2, D.Lgs. n. 80/98, la società ricorrente chiede di:
1) accertare e dichiarare la responsabilità degli Enti evocati in giudizio nell’adozione dei provvedimenti impugnati ed annullati in via giurisdizionale, nonché nel complessivo giudizio tenuto all’esito dei vari giudizi;
2) accertare e dichiarare che in corrispondenza di detta responsabilità sono conseguiti danni economici a carico della società interessata, consistenti:
a) nella preclusione dell’esercizio del diritto ad edificare e, quindi, nella perdita di valore del terreno; b) nell’immobilizzo in sé del capitale investito e rappresentato dal valore del terreno edificabile, nonché dalla perdita di possibili negoziazioni; c) nella cessione al Comune di un’area di mq.500; d) nelle spese burocratiche e gestionali della convenzione di lottizzazione, nonché di ordine fiscale per il mantenimento in vita della soc. Ranco, nonché in ogni spesa per attività progettuali;
3) condannare gli Enti convenuti in via esclusiva o solidale al risarcimento dei danni secondo i titoli esposti, nell’importo che risulterà da espletanda C.T.U., nonché dai richiamati mezzi istruttori, esercitando, ove occorra, il potere di cui all’art. 35, comma 2, D.Lgs. n. 80/98;
4) in via istruttoria: 1) ammettere C.T.U. affinché in contraddittorio venga determinato il danno risarcibile secondo i quesiti che il Collegio vorrà stabilire; 2) ammettere prova per testi sui capitoli indicati in ricorso.
3. Il Comune di Ranco, costituitosi in giudizio, ha eccepito l’inammissibilità della pretesa risarcitoria in quanto - (avendo la società instaurato un giudizio di ottemperanza contestualmente alla richiesta di risarcimento danni)- il risarcimento del danno non potrebbe che essere misura residuale satisfattoria rispetto all’esecuzione in forma specifica. Pertanto, è dalla sorte dei suddetti gravami che dipenderebbe la pretesa risarcitoria della società, di cui, comunque, nel merito, si contesta la fondatezza.
Invero, il coacervo normativo verificatosi in materia, avrebbe reso da un lato inedificabili per molteplici profili l’area di cui trattasi e dall’altro avrebbe introdotto elementi di oggettiva incertezza giuridica.
Nel 1993 la Regione non aveva approvato la variante proposta dal Commissario ad acta in quanto contrastante con il regime di cui all’art.1 ter della legge n. 431 del 1985, senza che in tale comportamento potesse essere ravvisata alcuna colpa del Comune.
D’altro canto, l’odierna appellante avrebbe dovuto attivarsi in sede di esecuzione di giudicato, ove avesse ritenuto di avere titolo ad edificare.
Ha segnalato, poi, che il D.Lgs. n. 157/06, modificando gli artt. 156 e 157 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, ha fatto rivivere le cd. misure di salvaguardia di cui all’art. 1 ter D.L. n. 312/85, conv. in L. n. 431/85, nei casi in cui, alla luce delle nuove disposizioni di tutela paesaggistica, si impone la redazione di un nuovo piano paesaggistico o la modifica di quello esistente, da effettuarsi entro il 1° maggio 2008. Pertanto, allo stato attuale, sarebbe volontà del legislatore di salvaguardare dall’edificazione le aree previste dall’art. 1 ter cit, quale è quella in oggetto.
4. La Regione Lombardia, costituitasi in giudizio, ha eccepito la carenza d’interesse della società ricorrente, che non avrebbe ancora richiesto le concessioni edilizie necessarie all’esercizio dell’attività edificatoria. Essa ha rilevato che il Comune, con la deliberazione n. 7 del 2007, ha approvato una variante al proprio PRG, finalizzata all’istituzione di un’area protetta, con una delibera impugnata al TAR della Lombardia con ric. n. 2208 del 2007, ma efficace. Tale delibera ha escluso in capo alla ricorrente qualsiasi aspettativa in relazione alla cubatura oggetto del contendere, tantomeno sotto il profilo della risarcibilità per equivalente, essendo stata determinata da inerzia colpevole della ricorrente. Né varrebbe l’argomentazione da questa opposta che le concessioni non avrebbero potuto essere richieste fino al 2007 a causa dell’effetto ostativo della variante adottata con la delibera del Consiglio comunale n. 15 del 1997 e approvata con la delibera regionale n. VI/4934/00, rimosse solo con la sentenza n. 216 del 2007, in quanto già la sentenza n. 2592 del 2000 di questa Sezione dava mandato al commissario ad acta di concludere il procedimento di variante e di rilasciare, ove ad essa conformi, le chieste concessioni edilizie.
La Regione, poi, in tema di causa petendi, sostiene che non vi sarebbe stato alcun interesse risarcibile sorgente dal giudicato, in quanto, come osservato dal primo giudice nella sentenza impugnata, l’amministrazione era destinataria di un obbligo di provvedere in merito alla materia del contendere, non essendosi in presenza di una sentenza autoesecutiva (la n. 385 del 1985), tant’è che il ricorrente fu costretto a promuovere al riguardo un giudizio di ottemperanza, terminato (sentenza n. 187 del 1998) con la nomina di un commissario ad acta. In altre parole, tale nomina non fu provocata dalla inerzia delle Amministrazioni, ma dalla necessità di un riesercizio del potere amministrativo, cui la pretesa del privato di costruire restava condizionata.
La Regione contesta, poi, la natura perfetta e risarcibile del diritto sorgente dal piano di lottizzazione sottoscritto nel 1971, dovendosi valutare in concreto la risarcibilità della lesione arrecata agli interessi pretensivi (cfr. Sent. Cass.SS.UU., n. 500 del 1999), soprattutto ove, come nel caso di specie, sia necessario un ulteriore atto di natura discrezionale, finalizzato a riprovvedere sulla istanza edificatoria del privato.
La Regione esclude, poi, che, alla luce degli avvenimenti successivi, la ricorrente possa avere diritto ad un risarcimento fondato su un giudizio prognostico, del tutto slegato dalle vicende successive, oppure aver diritto al danno da ritardo in relazione alla ridotta cubatura poi effettivamente concessa.
In sintesi, fermo il principio secondo cui la tutela dell’interesse pretensivo consente il passaggio a riparazioni per equivalente solo quando l’interesse pretensivo assuma a suo oggetto la tutela di interessi sostanziali, la tutela prognostica potrebbe accordarsi solo come risarcimento per l’aspettativa del provvedimento favorevole, a questo condizionata, e comunque alternativa ad un eventuale risarcimento da ritardo, che invece presupporrebbe il riconoscimento dell’interesse, riconosciuto dal provvedimento, prima della riedizione del potere. Nel caso de quo nessuna prova sarebbe stata fornita circa la possibilità che la riedizione del potere, effettuatasi solo con la determinazione del commissario ad acta, si sarebbe risolta in senso favorevole alla ricorrente. Di conseguenza, ritiene la Regione che nessun giudizio di rimprovero potrebbe essere effettuato a carico delle Amministrazioni resistenti.
Esclude, poi, la sussistenza, oltre al danno risarcibile, degli elementi per la sussistenza della responsabilità aquiliana, specificando che, ove fossero rimproverati comportamenti omissivi, vi sarebbe difetto di giurisdizione del giudice amministrativo (dec. n. 204/04 Corte cost.). Per i censurati provvedimenti impeditivi, ne esclude la sussistenza, non potendosi ritenere che l’aver provveduto sfavorevolmente nei confronti della ricorrente con riferimento alla normativa vincolistica di zona (su cui si era espresso favorevolmente il TAR Lombardia con sentenza n. 1146 del 1995, poi riformata dalla decisione n. 2592 del 2000 di questa Sezione) possa comportare una responsabilità della amministrazione, non essendo configurabile una culpa in re ipsa, positivamente esclusa dal nostro ordinamento. In ogni caso, si ricorda come in materia extracontrattuale sia l’attore-danneggiato a dover provare la colpa del convenuto, come pure l’onere probatorio dell’elemento soggettivo (art. 2697 c.c.).
La Regione contesta, poi, l’idoneità della deliberazione di G.R. n. VI/49343/00 del 31 marzo 2000 a ledere la pretesa del ricorrente: con essa venne approvata la variante di PRG adottata dal Comune, nell’esercizio dei poteri pianificatori di competenza.
La Regione, contesta, poi, il quantum delle richieste risarcitorie contenute nel ricorso in appello, riportandosi a quanto già eccepito nelle difese di I grado. Chiede, in via istruttoria, il rigetto della istanze testimoniali e di CTU perché inammissibili e irrilevanti e, nel merito, il rigetto del ricorso perché infondato.
5. Con il secondo ricorso, n.4537\07, rubricato al n.13\2006 presso il ruolo di questa Adunanza Plenaria, la medesima società ha proposto appello avverso la sentenza n. 217 del 2007 del TAR - intervenuta nel giudizio di ottemperanza alla sentenza n. 385 del 1985 del TAR, fondato sulla sentenza n. 187/89, cui è seguita la decisione n. 2592 del 2000 della IV Sezione del Consiglio di Stato, riguardanti il diritto della ricorrente ad ottenere il rilascio delle concessioni edilizie, sia pure nei termini riduttivi previsti dal nuovo atto di pianificazione del Commissario ad acta, che aveva tenuto conto dei sopravvenienti valori paesaggistico-ambientali derivanti dalla legge n. 431 del 1985 - la Società deduce la violazione delle regole del giudicato e sul giudizio per la sua ottemperanza, nonché lo sviamento.
L’affermazione contenuta in sentenza secondo cui il giudicato si sarebbe formato solo sull’oggetto della materia urbanistico-edilizia (sent. n. 385/85) e per questo dispone che il commissario ad acta deve tener conto del piano paesaggistico sopravvenuto nel 2001, non terrebbe conto del giudicato di cui alla decisione di questa Sezione n. 2592 del 2000, che aveva riconosciuto la legittimità dell’operato del Commissario ad acta, nel quale dovevano ritenersi ricomprese le valutazioni di ordine paesaggistico.
La sentenza, quindi, sarebbe errata perché i problemi paesaggistici erano sì estranei alla materia dedotta nella sentenza n.385 del 1985, ma da essi non aveva potuto prescindere il Commissario ad acta, come attestato dalla sua relazione alla variante da esso adottatae come rende conto la sentenza della IV Sezione n.2592 del 2000.
Il Tar non avrebbe quindi tenuto conto delle sentenze via via succedutesi, attestanti l’esatto e definitivo contenuto del diritto della ricorrente ancorandolo anche alla tutela di valori paesaggistici conseguenti alla sopravvenuta normativa di settore; perciò non avrebbe dovuto affermare che il nuovo commissario ad acta era tenuto a procedere in base al nuovo piano paesistico regionale, essendosi detta fase valutativa già esaurita in precedenza, nel corso del procedimento conclusosi con la decisione n. 2592 del 2000 del Consiglio di Stato ed essendo tale profilo rientrante nella formazione c.d. progressiva del giudicato, nell’ambito temporale del giudizio di ottemperanza, al punto da non potersi rimettere continuamente in discussione la pretesa del privato fondata sul giudicato, al sopravvenire di nuove disposizioni amministrative a carattere generali, obliterando decisioni giurisdizionali inoppugnabili. Nella sent. n. 182 del 2007 dello stesso TAR (impugnata con il primo dei ricorsi oggi all’esame del Collegio), nel respingere la richiesta di risarcimento danni, si afferma che proprio dalla sentenza n. 2592 del 2000 cit. era derivata in capo alla società ricorrente la spettanza del bene della vita oggetto dell’attività amministrativa, contraddicendo quanto affermato con la coeva sentenza qui appellata. Il giudicato prevarrebbe, comunque, anche sulla normativa sopravvenuta (arg. ex AP n. 2 del 1998, per cui il giudicato è intangibile dalla legge sopravvenuta che entri in cnflitto con il contenuto tipico dell’accertamento, rispetto alle situazioni ed ai rapporti non destinati a rinnovarsi nel tempo).
Si sostiene che, nel caso di specie, rileverebbero le regole contenute nella dec. n. 1 del 1986 dell’AP, che ritiene inopponibili a chi vanta un giudicato le variazioni dello strumento urbanistico sopravvenute alla notificazione della sentenza di accoglimento del ricorso contro il diniego di edificazione, nonché la sussistenza in capo al soggetto privato di un interesse pretensivo a che l’autorità competente riveda in parte qua il P.R.G. vigente al fine di apportarvi una deroga variante che recuperi, compatibilmente con l’interesse pubblico, la previsione del piano esecutivo abrogato.
A tutto concedere, secondo l’appellante, la sentenza impugnata non considera che la normativa che ha orientato dapprima la determinazione del Commissario ad acta e, poi, la predisposizione del piano paesistico del 2001 da parte della Regione è la medesima e cioè la legge n. 431 del 1985.
6. Eccepisce il Comune di Ranco, costituitosi in giudizio, l’inammissibilità dell’appello, il cui vero scopo, ancorché diretto contro decisione resa in sede di ottemperanza, sarebbe quello di contestare l’operato del commissario ad acta (avverso le cui determinazioni è stato proposto autonomo ricorso). Eccepisce, altresì, l’infondatezza delle censure nel merito.
Segnala, poi, sulla perdurante inedificabilità dell’area, che il D.Lgs. n. 157 del 2006, modificando gli artt. 156 e 157 del cd. Codice n. 42 del 2004, fa rivivere le cd. misure di salvaguardia di cui all’art. 1 ter D.L. n. 312/85, conv. in L. n. 431/85, nei casi in cui, alla luce delle nuove disposizioni di tutela paesaggistica, si impone la redazione di un nuovo piano paesaggistico o la modifica di quello esistente, da effettuarsi entro il 1° maggio 2008. Pertanto, allo stato attuale, sarebbe volontà del legislatore di salvaguardare dall’edificazione le aree previste dall’art. 1 ter cit, quale è quella in oggetto.
7. Anche la Regione Lombardia eccepisce in via preliminare l’inammissibilità dell’appello, mancando gli elementi, allo stato, per un intervento ulteriore del giudice. Solo a seguito della verifica dell’operato del commissario ad acta si potrà, in seguito, reintervenire in sede di esame della correttezza del suo operato, il che, peraltro, sarebbe già avvenuto, avendo la società depositato presso il TAR Lombardia in data 4 gennaio 2008 un ricorso per l’esecuzione di giudicato avverso la deliberazione commissariale assunta il 30 ottobre 2007. Nel merito, l’appello sarebbe infondato, in quanto la sentenza n. 2592 del 2000 di questa Sezione è antecedente al piano paesistico e la sentenza di cui si chiede l’esecuzione (n. 385 del 1985) nulla dispone in tema di tutela paesistica dei luoghi, prendendo in considerazione solo il vincolo idrogeologico.
7. Attesi gli evidenti motivi di connessione i due ricorsi in appello indicati in epigrafe sono stati riuniti ai fini di un’unica rimessione al’A.P..
All’attenzione di questo Consesso, al fine di poter dirimere la complessiva controversia sopra illustrata, l’ordinanza prospetta le seguenti questioni:
a) l’individuazione del momento in cui può essere valutata la domanda di risarcimento dei danni per lesione di interessi legittimi nel caso di annullamento di un provvedimento discrezionale, e precisamente se tale valutazione possa essere effettuata soltanto all’esito del nuovo esercizio del potere, sicchè non potrebbe essere concesso risarcimento ove permanessero in capo all’Amministrazione spazi di discrezionalità amministrativa, ovvero a prescindere dal riesercizio del potere;
b) l’individuazione dei caratteri della colpa dell’apparato pubblico, necessaria per accordare il risarcimento dei danni derivanti da lesione di interessi legittimi;
c) la determinazione del rapporto tra giudicato e residui poteri della p.a. in materia edilizio-urbanistica ed in particolare se la p.a. possa o meno tener conto delle modificazioni dei piani urbanistici sopravvenute nel corso del giudizio;
d) la determinazione del rapporto tra giudizio di ottemperanza e azione risarcitoria, chiarendo se ques’ultima, anche relativamente al quantum ed ai titoli relativi, debba o meno conseguire all’esito del primo;
e) la sussistenza o meno della giurisdizione amministrativa in ordine alla responsabilità da comportamenti omissivi della p.a., potendosi sostenere che le inadempienze dell’Amministrazione integrerebbero “comportamenti” omissivi, lesivi di diritti soggettivi conoscibili dal giudice ordinario dopo la sentenza n.204 del 2004 della Corte costituzionale.
Sulle memorie delle parti in precedenza citate, che hanno investito le questioni complessivamente trattate in entrambi gli appelli sopra specificati, la causa è stata trattenuta in decisione, previa discussione, alla pubblica udienza del 20 ottobre 2008.
DIRITTO
1. La riunione dei due appelli in epigrafe, già disposta con l’ordinanza di rimessione, può essere mantenuta attesa la connessione soggettiva ed oggettiva tra le due cause.
2. Preliminarmente ad ogni altra questione, occorre individuare con esattezza le posizioni soggettive che muovono l’appellante nell’esercizio del suo diritto di azione, sia ai fini risarcitori che esecutivi di giudicato.
Avuto riguardo alla complessa vicenda contenziosa sopra illustrata e, anzitutto, al contenuto delle sentenze n.385\1985 della I Sezione del Tar Lombardia e n.3\1988 della Quarta Sezione di questo Consiglio, risulta che il giudicato che da esse scaturisce, e la cui proiezione in chiave di attuazione dà luogo sia alla pretesa risarcitoria che alla richiesta di ulteriore ottemperanza rispettivamente contenute negli appelli in esame, riguarda due distinte posizioni soggettive di interesse pretensivo, collegabili a ciascuno dei due provvedimenti oggetto del giudicato di annullamento in questione.
Esse sono, cioè, collegabili, rispettivamente, la prima, al diniego di licenza\concessione edilizia relativo ad istanze avanzate in base alle previsioni edificatorie di una convenzione di lottizzazione, e, la seconda, alla successiva adozione di una variante al P.R.G. comunale che aveva inciso in senso abrogativo sulla convenzione. Ci si trova di fronte, dunque, a due successive serie procedimentali che configurano, in ragione dei distinti poteri pubblicistici esercitati, nel primo caso edilizio in senso stretto, nel secondo pianificatorio urbanistico, e delle distinte normative che regolano le rispettive fattispecie, due interessi pretensivi formalmente diversi, e insorgenti uno di seguito all’altro.
2.1. Tali interessi pretensivi, peraltro, risultano, da un lato, con evidenza, connessi procedimentalmente e temporalmente, per le indubbie ripercussioni che la preesistenza della convenzione riflette sull’esercizio del successivo potere pianificatorio, dall’altro, poi, hanno alla base l’aspirazione allo stesso bene della vita, vale a dire alla concretizzazione dello jus aedificandi relativamente alla stessa area, prima oggetto della convenzione e poi dello strumento urbanistico.
Ciò che conta ai fini risarcitori, come si vedrà, è che i due interessi pretensivi in questione, formalmente distinti in relazione alla segnalata diversità dei poteri che impingono sulla posizione del privato, una volta proiettati sul piano degli interessi sostanziali, e quindi correlati ai presupposti della tutela risarcitoria, convergono verso un unico bene della vita e, di riflesso, verso una configurazione del danno (lesione al bene della vita) unificabile e non duplicabile.
3. In relazione all’esame dell’appello n.12 del 2008, va anzitutto esaminata la questione della risarcibilità del primo interesse pretensivo, che lo stesso appellante definisce attinente al “profilo edilizio”, nascente dalla convenzione di lottizzazione conclusa con il Comune resistente il 9 giugno 1971, e che attiene alla realizzazione degli interventi edilizi da essa previsti, condizionata, com’è connaturato alla disciplina in materia, dal successivo rilascio della concessione edilizia.
Tale interesse pretensivo è stato alla base di una duplice richiesta di provvedimenti permissivi edificatori da parte della società che sono stati riscontrati negativamente dal Comune con due atti, del 1975 e del 1980, entrambi oggetto di annullamento.
3.1. In particolare, esaminando in primo luogo la questione dell’ammissibilità di una tutela risarcitoria concernente tale pretesa, va osservato che ci si trova di fronte ad una situazione di questo tipo:
a) l’amministrazione comunale aveva negato le concessioni edilizie sotto il profilo della ritenuta inedificabilità delle aree, determinazione esclusivamente connessa all’insistenza di un vincolo idrogeologico, diversamente rilevante, rispetto al quadro esistente al momento della stipula della convenzione, a seguito del sopravvenire di una disciplina legislativa regionale in materia;
b) ciò il Comune aveva sostenuto con i due dinieghi (del 1975 e del 1980) annullati dal Tar nel 1979 e nel 1985, la cui illegittimità era stata rispettivamente ritenuta: prima perché non si riteneva sufficiente il richiamo alla disciplina regionale in tema di vincolo idrogeologico insistente sull’area in questione, senza specificarne le diverse ipotesi ivi contemplate, per ritenerne la inedificabilità, potendo, inoltre, l’istante munirsi di un (nuovo) nulla osta idrogeologico rilasciato dall’autorità competente (diversa dal Comune); poi perché, (secondo annullamento), comunque, la gestione del vincolo idrogeologico spettava agli organi delegati dalla regione, in base alla stessa disciplina, e non al Sindaco, cui competeva di operare solo la valutazione urbanistico-edilizia.
3.2. A fronte di tale situazione, rilevano poi due circostanze concomitanti e di pregnante importanza.
a) La prima è che il Comune aveva avuto occasione di indicare per ben due volte le ragioni ostative al rilascio delle concessioni e mai aveva individuato motivi afferenti all’interesse pubblico edilizio, o igienico-sanitario, la cui tutela ad esso spettava in quella sede, sicchè è da ritenersi che, sulla base di tali ragioni pubblicistiche, rientranti nelle tipiche attribuzioni comunali in materia di rilascio delle concessioni (anche dipendente da previgente convenzione di lottizzazione), non vi fossero diversi motivi ostativi al rilascio delle concessioni.
b) La seconda è che, nel 1981, in sede di approvazione della variante di piano adottato dal Comune nel 1977, la Regione, con delibera che era stata annullata solo per difetto di motivazione, nelle sentenze da cui sorge il giudicato per cui è ottemperanza, aveva riconosciuto, in sede di modificazione delle norme tecniche di attuazione della variante medesima, un certo livello di edificabilità delle aree in questione, compatibile, quindi, con la nuova portata del vincolo idrogeologico stabilita dalla sopravvenuta disciplina regionale.
3.3. Ai fini che qui ci occupano, la premessa ora svolta consente allora di ritenere spettante il bene della vita in relazione al primo interesse pretensivo qui delibato, in accoglimento del primo motivo dell’appello n.12\2008.
Ciò non tanto sotto il profilo di un travisamento in cui sarebbe incorso il primo giudice, atteso che, in relazione alla mancata considerazione del primo annullamento, non può dirsi “verificato quel presupposto (reiterazione dell’esercizio del potere, nuovamente annullato) che la sentenza pretende per ritenere ammissibile la domanda risarcitoria”.
Il Tar, in effetti, ha soltanto affermato, richiamando una condivisibile decisione del Consiglio di Stato (VI, 4 settembre 2002, n.4435), che allorchè un provvedimento di diniego viene annullato per vizi che comunque, come nel caso, consentono il riesercizio del potere, se l’atto negativo viene reiterato, per ragioni diverse dal precedente, il sopravvenuto provvedimento negativo esclude, allo stato, la sussistenza di un danno risarcibile derivante dal primo provvedimento, salva la verifica degli estremi del danno in caso di annullamento giurisdizionale anche del secondo provvedimento (il che è sostanzialmente il caso qui presente, pur con sfumature attinenti al fatto che il Comune ha precisato, con due successive statuizioni, diversi aspetti ostativi del vincolo idrogeologico).
Piuttosto, il Tar ha errato nell’identificare la ricorrenza, rispetto al secondo annullamento, proprio degli estremi del danno risarcibile, in relazione al complessivo contesto costituito dagli annullamenti e dalle affermazioni contenute nel giudicato derivante dalla decisione della Quarta Sezione n.3\1988, secondo quanto qui in precedenza ritenuto.
3.4. Nel caso che ci occupa, infatti, la positiva risultanza della attribuibilità del bene della vita e la natura sostanziale e risarcibile dell’interesse pretensivo di tipo “edilizio” qui esaminata, risultano, autonomamente, rispetto ad un semplice automatismo derivante dall’esistenza di un primo annullamento e dall’intervenuto nuovo esercizio del potere amministrativo, proprio in relazione al confluire delle circostanze, giudizialmente accertate, sopra segnalate; e cioè l’evidenza che al rilascio delle concessioni non si opponesse altro che la sopravvenuta disciplina in tema di vincolo idrogeologico e la, invece, sicura compatibilità di quest’ultimo con una “certa edificabilità”, risultante dall’atto di approvazione della variante urbanistica del 1981, quale evidenziata dalla stessa decisione della Quarta Sezione n.3 del 1988 (cfr; pag.12).
E’ del pari scaturente da tali risultanze che, stante la pacifica incidenza, ormai irretrattabilmente verificatasi, della medesima disciplina regionale in materia idrogeologica, e già in relazione al momento in cui l’istanza di rilascio delle licenze edilizie fu avanzata, la spettanza di tale bene della vita non poteva dirsi incondizionata ed esattamente corrispondente alla misura della facoltà edificatoria prevista dalla convenzione di lottizzazione, perché su tale originaria previsione pattizia incombevano diverse ragioni limitative perfettamente legittime, in quanto corrispondenti alla stessa disciplina ed agli stessi interessi pubblici che governavano la materia.
In particolare, il vincolo idrogeologico, pur spettandone la gestione alla competenza di organi diversi dal Sindaco ed individuati dalla legge regionale, aveva un’incidenza ormai attuale, quale jus superveniens, sul regime edificatorio previsto dalla convenzione, come attesta, il richiamato passaggio della sentenza d’appello, (IV, n.3\1988) che, confermando l’annullamento del secondo diniego di concessione edilizia, precisa che il Sindaco non dovesse “sic et simpliciter ignorare il vincolo” idrogeologico, ma, più esattamente, “tener conto della possibilità che l’autorità competente in materia forestale adottasse provvedimenti tali da rendere compatibile col vincolo una limitata edificazione del terreno…”
La stessa sentenza, poi, precisa che “con determinazione non contestata dal Comune”, la Regione aveva “introdotto una modifica d’ufficio della variante al P.R.G adottato dal Comune, in forza della quale, la Giunta regionale, riassumente in sé tutti gli interessi pubblici affidati alla regione stessa”, aveva ritenuto che l’art.40 della l.r. n.51 del 1975, non fosse d’ostacolo ad una “certa edificabilità” del terreno, smentendo l’assunto del Comune, relativo all’assolutezza ed inderogabilità del vincolo ex art.40.
3.5. Dunque, proprio nel complesso delle statuizioni d’annullamento del secondo diniego è dato di ricavare non solo la preclusione ad un terzo diniego “totale” di edificabilità, fondato sul vincolo idrogeologico, non solo la spettanza del bene della vita, ma pure, in quelle circostanze, la misura di tale spettanza, coincidente con la (minor) cubatura edificabile riconosciuta nella variante in sede di approvazione regionale, in ragione della prevalenza, sull’assetto urbanistico dedotto in convenzione di lottizzazione, degli interessi pubblici realizzandi mediante la sopravvenuta disciplina regionale in tema di vincolo idrogeologico.
Tale aspetto prescinde dalla circostanza che la stessa sentenza n.3\1988, e prima ancora la n.385\1985 di primo grado, avessero annullato anche lo stesso atto di approvazione della variante; ciò in quanto tale annullamento non toccava il punto della riconoscibilità di un certo livello di edificazione compatibile con il vincolo, anzi ne rafforzava per altra via la configurabilità, assumendo che, comunque, in sede di variante, sia il Comune che la Regione dovevano “consapevolmente ed intenzionalmente” tentare di recuperare, in tutto o in parte, le previsioni del piano di lottizzazione.
3.6. Occorre a questo punto precisare che, a fronte del riconoscimento sostanziale della spettanza, in tale minore misura, del bene della vita, (elemento che costituisce, in tema di interessi pretensivi, uno dei presupposti per l’utile esperimento dell’azione risarcitoria giusta A.P. n.7\2005), al momento del passaggio in giudicato di tale accertamento favorevole, non era però esperibile un giudizio di ottemperanza teso all’esecuzione “in forma specifica” di tale parte del dictum giudiziale.
Ciò in quanto, anzitutto, la convenzione di lottizzazione, era ormai abrogata dal sopravvenire di una disciplina urbanistica pianificatoria comunale. Per quanto contestualmente annullata, infatti, la caducazione di quest’ultima non poteva comportare la reviviscenza della stessa convenzione, poiché il momento del passaggio in giudicato della sentenza d’appello n.3\1988 era ben successivo allo spirare del termine di efficacia della convenzione stessa.
Questa, infatti, stipulata il 9 giugno 1971, era in quel momento (e, invero, anche al momento della pronuncia di annullamento di primo grado, nel 1985) già inoperante per lo spirare del suo termine decennale di efficacia. Va in proposito richiamata la consolidata giurisprudenza di questo Consesso per cui le lottizzazioni convenzionate non possono avere l’efficacia di condizionare a tempo indeterminato la pianificazione urbanistica futura, dovendosi ritenere vigente un termine di loro durata massima pari a 10 anni, mutuando il termine di cui all’art.16, comma 5, della legge urbanistica n.1150 del 1942, applicabile al tempo dei fatti, concernente l’analoga figura dei piani particolareggiati (cfr. IV Sezione, 16 marzo 1999, n.286).
3.7. Dunque, l’annullamento della variante di P.R.G. non poteva più determinare alcun effetto utile sul piano dell’attualità di una pretesa al rilascio di concessioni edificatorie fondata sulla convenzione edilizia, stemperandosi quest’ultima, nell’ambito del giudicato, nella limitata rilevanza di una previgente disciplina di favore di cui, in base agli atti di adozione e di approvazione della variante, doveva comunque tenersi conto, ma, perciò, atta a fondare una diversa pretesa della ricorrente, quella cioè ad un’adeguata considerazione della propria precedente posizione in sede di esercizio del potere di programmazione urbanistica (mancando la quale, in effetti, si era pervenuti all’annullamento giurisdizionale da cui scaturisce il giudicato per cui si è agito in sede di ottemperanza).
3.8. In disparte, per il momento, quest’ultimo aspetto, risulta allora che il giudicato in questione, nella parte in cui concerneva la “questione edilizia” e quindi l’interesse pretensivo direttamente nascente dalla convenzione di lottizzazione, non poteva più trovare un’attuazione in sede di ottemperanza, essendo venuto meno il presupposto stesso dello strumento convenzionale posto a base delle istanze originarie di rilascio dei titoli edilizi.
Convertendo tale situazione in termini di rimedi di tutela esperibili dalla ricorrente, ciò significa che era in radice precluso, rispetto alla configurabile spettanza del bene finale, lo strumento della reintegrazione in forma specifica, da realizzarsi all’interno del giudizio di ottemperanza, e ciò è tanto vero che nessuna istanza fondata sulla detta convenzione e, tantomeno, sulle stesse ragioni di annullamento dei due dinieghi sindacali annullati, è stata mai in concreto proposta davanti al giudice dell’esecuzione, essendosi la richiesta di tutela in quella sede da subito appuntata esclusivamente sull’aspirazione ad un contenuto favorevole della strumentazione urbanistica da emanare, segnatamente in sede di riesercizio, sotto la guida del giudice dell’esecuzione, del relativo potere urbanistico (già cassato con il giudicato qui in rilievo).
3.9. In tale situazione, e tralasciando problemi di astratta configurazione della prescrizione, non posti dalle parti in causa, alla ricorrente non residuava che il rimedio risarcitorio.
Al riguardo non sussiste, in parte qua, per una domanda cioè che, nell’interpretazione qui prospettata assume una sua autonomia, l’inammissibilità eccepita dalle parti resistenti, posto che tale interesse pretensivo non è stato coinvolto nel giudizio di ottemperanza e quindi non si pone alcun problema di eventuale pregiudizialità della pronuncia che, in tale giudizio, concludendo l’attività sostitutiva demandata al commissario ad acta, pervenga ad attualizzare la spettanza del bene della vita ed a configurare un’interferenza tra azione risarcitoria e giudizio di ottemperanza.
Sussiste invece la concreta risarcibilità di un interesse pretensivo il cui sacrificio definitivo è dovuto al meccanismo causale determinato dal duplice diniego illegittimamente opposto dall’Amministrazione comunale, ed al conseguente ritardo nel provvedere positivamente, cui è subentrata, (oltre che la l.r. n.51\1975, in tema di vincolo idrogeologico), la disciplina paesaggistica di cui alla legge 8 agosto 1985, n.431, in corso di giudizio, con la connessa esigenza di adeguamento della disciplina urbanistica e, quindi, con la inattuabilità dell’originaria convenzione di lottizzazione, che, in ogni modo, nelle stesse more del giudizio, era divenuta inefficace.
3.10. La sopravvenuta cessazione di efficacia della convenzione ed anche la disciplina paesaggistica sopravvenuta, infatti, non possono essere considerate assorbenti della lesività concretamente assunta dai dinieghi in parola, posto che la tutela di annullamento accordata dalle sentenze favorevoli alla ricorrente, sullo specifico punto, implicava un retroazione degli effetti ampliativi della sua sfera sopra segnalati e quindi una valenza concreta ed effettiva del riconoscimento del bene della vita oggetto dell’interesse pretensivo azionato in quella sede.
Le segnalate circostanze risultano imputabili eziologicamente al complessivo comportamento provvedimentale dell’amministrazione comunale, che non aveva consentito una pronta e legittima definizione della posizione di pretesa dell’appellante, anteriore al subentrare dei segnalati fatti impeditivi della riedizione dello specifico potere di rilascio della concessione, e quindi della tutela in fase esecutiva, ma non preclusivi della spettanza, a quel momento, del bene della vita, e, quindi, dell’esperibilità della tutela risarcitoria
3.11. Appurato il nesso eziologico tra provvedimenti annullati di diniego e lesione dell’interesse pretensivo ormai assurto a natura sostanziale, nel senso della sottrazione del bene della vita accertato come spettante, giusta quanto richiesto dalla ordinanza di rimessione, rimane da accertare l’elemento soggettivo della colpevolezza, negato dal Tar, con la sentenza impugnata, ma a ben vedere, con argomentazioni non riferibili al capo di domanda e quindi alla parziale fattispecie qui presi in esame.
Dette argomentazioni sono tutte riferite alla delibera regionale del 1993 che aveva negato l’approvazione della variante di P.R.G. adottata in sede di ottemperanza dal Commissario ad acta. Non occorre risolvere, per il momento, la questione della configurazione in astratto dell’elemento della colpa in capo all’amministrazione nell’ambito dell’illecito aquiliano determinato da provvedimento illegittimo, atteso che la sentenza del Tar non ha trattato tale punto avendo preliminarmente escluso la risarcibilità dell’interesse pretensivo qui considerato sul piano del mancato riconoscimento di un danno risarcibile.
3.12. Neppure rileva stabilire se, a fronte di una precedente convenzione di lottizzazione, la responsabilità dell’amministrazione per mancato rilascio della concessione sia da ascrivere piuttosto alla responsabilità extraquiliana, di tipo “contrattuale”. Su tale questione basti dire che la sentenza richiamata dall’appellante (Cass Civ, Sez. I, 10 gennaio 2003, n.157) costituisce un precedente isolato, dovendo piuttosto ribadirsi che questo giudice amministrativo non ha motivo di discostarsi dalla configurazione in termini di mero interesse legittimo della pretesa al rilascio dei titoli edilizi scaturente da una convenzione di lottizzazione.
3.13. Quanto all’elemento della colpa, non può negarsene il ricorrere laddove emerga, come nel caso, la duplice ed insistita erroneità della posizione assunta nei dinieghi annullati dal Comune, che ben avrebbe potuto essere evitata ove avesse diligentemente verificato la propria competenza a disporre in materia di vincolo idrogeologico, nonché l’effettiva portata di quest’ultimo circa la compatibilità con una residua edificabilità, solo limitata da una disciplina regionale che conseguiva, comunque, ad una di livello statale, che mai avevano coinvolto, fino ad allora, il Comune nelle relative attribuzioni.
Emerge pure come non si pongano particolari problemi nel configurare la colpa dell’amministrazione nella fattispecie in esame, alla luce delle ulteriori allegazioni operate dall’appellante in relazione al “dictum” della sentenza impugnata, e come non vengano in rilievo comportamenti “omissivi” senza ulteriori qualificazioni, con connessi problemi di giurisdizione, attesa la natura provvedimentale degli atti lesivi posti in essere dalla stessa p.a.
4. Per il punto ora deciso, e salvo quanto verrà in seguito precisato, la causa va dunque rimessa alla Sezione Quarta, affinchè provveda a decidere in ordine al quantum risarcitorio, esaminando la spettanza e la fondatezza, sul piano probatorio, delle singole voci di danno addotte dall’appellante; ciò, fermo restando che la misura del bene della vita (jus aedificandi) spettante alla stessa appellante, va identificata, sul piano delle emergenze processuali derivabili dalle statuizioni del giudicato, nella misura riconosciuta dalla (annullata) delibera di approvazione della variante al P.R.G. n.3\3970 del 31 marzo 1981 e che il danno qui considerato è quello relativo alla lesione totalmente soppressiva di tale bene della vita, senza coinvolgere questioni di danno “da ritardo”.
5. Quanto all’ulteriore interesse pretensivo “urbanistico”, avente titolo solo indiretto nella convenzione di lottizzazione, cioè all’interesse pretensivo affermato nel giudicato qui in rilievo,- per cui, una volta intrapresa dall’amministrazione la determinazione di provvedere alla tutela dell’interesse pubblico urbanistico mediante una nuova strumentazione in variante del P.R.G., l’esercizio del relativo potere doveva svolgersi in modo tale da tenere conto della precedente posizione che, in relazione a quella stessa area, era stata riconosciuta alla ricorrente-, va preliminarmente ribadito che tale posizione pretensiva aveva una consistenza più attenuata e titolo normativo diverso da quello in precedenza preso in esame.
La convenzione, infatti, in sede di esercizio del potere pianificatorio successivo, degrada da atto, fonte della disciplina edificatoria, a fatto, sia pure giuridicamente rilevante in sede di contemperamento degli interessi pubblici e privati incombente sulle amministrazioni, comunale e regionale, coinvolte nella titolarità del potere medesimo.
5.1. Va poi considerato un altro aspetto fondamentale che si ricollega a quanto premesso nella presente trattazione.
Rilevando fin da ora, e salvo quanto di seguito verrà precisato, che il giudice di prime cure ha fissato, nell’ambito di una statuizione non gravata da appello incidentale, e quindi non più contestabile nella presente sede di appello, la spettanza del bene della vita a seguito della decisione di ottemperanza n.2592 del 2000 assunta dalla Quarta Sezione, (negando l’addebitabilità del relativo danno per carenza dell’elemento soggettivo della colpa), il connesso interesse legittimo pretensivo, all’adeguata considerazione della propria posizione nell’ambito del potere di pianificazione, pur differenziato rispetto all’originario interesse pretensivo prima esaminato, (connesso alla vigenza della convenzione di lottizzazione), ha, come s’è detto, ad oggetto lo stesso bene della vita sotteso da quest’ultimo, cioè, sul piano degli interessi sostanziali, il riconoscimento di una certa misura di edificabilità riguardante la medesima area.
Quest’ultima è, infatti, l’aspirazione finale che tutto il susseguente procedimento di ottemperanza ha teso a realizzare e tale è senza dubbio la fonte dell’interesse a ricorrere costantemente fatto valere in quella sede.
Ma se così è, quanto all’astratta proponibilità dell’azione risarcitoria riferita al secondo interesse pretensivo, il riconoscimento della fondatezza della prima pretesa risarcitoria, nella misura precisata in precedenza, con riferimento appunto al preesistente interesse pretensivo derivante dalla convenzione, implica che, attingendo tale riconoscimento all’identico bene della vita, esso riduca corrispondentemente la base sostanziale di riferimento della stessa risarcibilità del secondo interesse pretensivo.
5.2. In altri termini, poiché la tutela degli interessi pretensivi procede solo dal positivo accertamento della spettanza bene della vita, e quest’ultimo è stato già in una certa misura compiuto e fatto oggetto di tutela risarcitoria, ne discende che, ai fini risarcitori ulteriori qui in rilievo, l’eventuale accertamento della spettanza del bene finale deve tenere, appunto, conto di quanto riconosciuto, con riguardo allo stesso bene, in riferimento al preesistente interesse pretensivo suddetto, altrimenti arrivandosi ad una illogica ed inconfigurabile duplicazione dei rimedi risarcitori sul piano dei beni sostanziali al cui perseguimento mirano, in ultima analisi, gli interessi pretensivi qui considerati.
In concreto, dunque, nella situazione di interconnessione degli interessi pretensivi qui segnalata, l’azione risarcitoria relativa al secondo di essi potrebbe in astratto accogliersi soltanto per quella parte del bene (jus aedificandi, cioè cubatura ammessa sull’area), che, in ipotesi, a seguito del giudizio di ottemperanza, dovesse spettare all’appellante in eccedenza alla misura sopra stabilita con riguardo alla predetta posizione di interesse pretensivo derivante dalla convenzione.
5.3. Con riguardo all’interesse pretensivo ora in rilievo, il giudice di prime cure, ha, dapprima, affermato che per esso non fosse, in linea di principio, proponibile azione di risarcimento del danno, in relazione al giudicato del 1985 e del 1988, poiché questo era fondato sul sostanziale difetto di motivazione dell’attività pianificatoria, anche con riferimento all’approvazione regionale, che non aveva tenuto conto, come s’è già detto, della precedente convenzione di lottizzazione e della posizione di vantaggio da essa derivante per l’appellante.
Ciò in quanto il tipo di annullamento così prospettato nulla dice circa la spettanza del bene della vita connesso all’interesse pretensivo fatto valere e l’effetto ordinatorio del relativo giudicato si compendiava nel mero riesercizio del potere, ovviamente emendato del vizio di mancata considerazione del fatto rilevante costituito dalla precedente convenzione di lottizzazione.
Tale iniziale affermazione del Tar è riferita peraltro al periodo anteriore a quello cui ha avuto riguardo la decisione di appello in sede di ottemperanza n.2592 del 2000 (quindi al 1993), la cui pronuncia ha portato una cesura, sostanziale e temporale, nella questione della risarcibilità dell’interesse qui in rilievo.
Su tale prima parte delle affermazioni del Tar si deve concordare, non senza rilevare che la pendenza del processo di ottemperanza in contemporanea alla presente impugnazione, (quantomeno con riguardo all’altro appello qui riunito), non rende direttamente inammissibile l’azione risarcitoria qui in esame, che non si incentra direttamente sull’ottenibilità di provvedimenti permissivi dell’attività edificatoria, quand’anche esclusa, in ipotesi, anche da atti pianificatori estranei all’oggetto iniziale del presente giudizio (perché subentrati dopo la sua introduzione, o successivi alla sua definizione in primo grado), ovvero dall’intervenire delle misure di salvaguardia ex artt. 24 e 25 del D.lgs.n.157 del 2006,(che impedirebbero il rilascio di nuove concessioni fino all’approvazione dei nuovi o variati piani paesaggistici da parte delle Regioni); l’ulteriore pretesa risarcitoria qui in rilievo si connette piuttosto alla risarcibilità dei danni “da ritardo” conseguente all’illegittimo esercizio dell’attività pianificatoria.
5.4. In proposito va infatti rilevato che l’appellata sentenza n.182 del 2007, dopo l’iniziale affermazione di principio sopra riportata, riferita al periodo intercorrente tra il giudicato del 1985-1988 ed il 1993, oggetto dell’appello ora in esame, ha statuito, (sia pure con una certa contraddizione con la sentenza n.217 del 2007, contraddizione invocata a proprio favore dall’appellante), che, la decisione della Quarta n.2592 del 2000, -laddove aveva ritenuto l’illegittimità del rifiuto regionale, assunto nel 1993, di approvazione della delibera del commissario ad acta del 1991, basato sull’applicazione della misura soprassessoria di cui all’art.1 ter della legge 8 agosto 1985, n.431-, avesse determinato la consistenza sostanziale della posizione della società ricorrente.
Va inoltre precisato che l’interesse pretensivo connesso alla corretta considerazione della propria posizione nell’ambito del potere di pianificazione (e del suo riesercizio), potrebbe in ipotesi trovare ancora un parziale ristoro in via di reintegrazione in forma specifica, realizzabile, in mancanza di spontaneo adeguamento dell’amministrazione soccombente, nell’ambito del giudizio di ottemperanza tutt’ora pendente, in relazione ad altra vicenda contenziosa relativa a fatti successivi a quelli qui complessivamente considerati.
In ogni modo, ai fini risarcitori che qui ci occupano, la pretesa di ordine “urbanistico” ora in esame, a seguito della riferita ed inoppugnata statuizione del giudice di primo grado basata sulla rilevanza della decisione n.2592 del 2000, quindi, da un lato, si connette al riconoscimento della spettanza del bene della vita, in una certa qual misura, dall’altro, una volta accertato tale presupposto, si correla, in ipotesi, in relazione al quantum, al danno da ritardo, poiché l’eventuale anche se possibile reintegrazione in forma specifica farebbe sopravvivere solo un residuo ”vulnus”, connesso al mancato ottenimento, nei tempi di ordinaria definizione del procedimento (qui ancorabili, come ha ritenuto il primo giudice, al 1993), di quel bene della vita.
5.5. Dunque, la stessa configurabilità di un danno da ritardo non può che essere commisurata, nei suoi necessari termini di rilevanza temporale, al primo presupposto della accertata spettanza del bene della vita, sicchè a maggior ragione la statuizione del primo giudice che ha fissato al 1993 il momento di attribuzione del bene stesso, e di attualizzazione del danno da ritardo, rende ininfluenti le eccezioni di inammissibilità della domanda risarcitoria, e dell’appello, connesse alla pendenza del giudizio di ottemperanza ed alle vicende in esso intervenute anche successivamente all’introduzione del presente giudizio.
La concreta fattispecie processuale, quindi, offre una deroga, derivante dagli accertamenti giurisdizionali inoppugnati di cui in questa sede si deve tenere conto, al principio per cui il danno “ da ritardo”, nel caso di interessi pretensivi, possa essere apprezzato e risarcito solo in esito al riconoscimento della spettanza del bene della vita che sia stato sancito dal positivo rilascio, in sede di giudizio di ottemperanza, del provvedimento positivo.
5.6. Tuttavia, anche accedendo all’affermazione della sentenza impugnata, relativa alla spettanza del bene della vita a partire dal 1993 (ed ai soli fini del danno da ritardo), la sentenza di primo grado va comunque confermata quanto all’affermazione dell’assenza di colpa dell’amministrazione regionale riferibile alla sua mancata approvazione della variante commissariale.
Nella sequenza di atti causativi, in ipotesi, del danno da ritardo, è evidente che l’atto su cui occorre focalizzarsi è quello regionale in questione (D.G.R. 16 luglio 1993, n.39033), avendo questo, nelle circostanze emerse nel giudizio di primo grado, costituito l’unico ed essenziale ostacolo all’attualizzazione della pretesa sostanziale e, quindi, da un lato, alla reintegrazione in forma specifica, dall’altro, alla tempestiva satisfattività di questa in riferimento al momento di esplicazione della fase provvedimentale comunque spettante alla Regione.
5.7. Ma tale determinazione negativa, in effetti, non può considerarsi colpevolmente posta in essere, avuto riguardo ad un concetto di colpa che, riferito all’amministrazione come apparato, e non al singolo soggetto agente per conto di essa, si atteggia in un modo del tutto peculiare nell’ambito della responsabilità aquiliana derivante dall’emanazione di atti illegittimi.
In tema di colpa della p.a. quale elemento costitutivo della sua responsabilità aquiliana, con riferimento alle affermazioni più recenti, che incorporano l’esperienza giurisprudenziale pregressa nella materia, va segnalato un primo “filone giurisprudenziale” per cui, al privato danneggiato da un provvedimento amministrativo illegittimo non viene richiesto un particolare impegno probatorio per dimostrare la colpa della p.a., essendo a tal fine sufficiente invocare l’illegittimità del provvedimento quale indice presuntivo della colpa, o allegare circostanze ulteriori, idonee a dimostrare che si è trattato di un errore non scusabile; mentre spetta all’amministrazione dimostrare che si sia trattato di un errore scusabile.
A tale orientamento si giustappone un enunciato di principio che, riassuntivamente rispetto alle posizioni via via elaborate, è di maggior rilievo e frequenza, secondo il quale l’imputazione della responsabilità nei confronti della p.a. non può avvenire sulla base del mero dato obiettivo della illegittimità dell’azione amministrativa, giacchè ciò si risolverebbe in un’inammissibile presunzione di colpa, ma comporta, invece, l’accertamento in concreto della colpa dell’amministrazione, che è configurabile quando l’esecuzione dell’atto illegittimo sia avvenuta in violazione delle regole proprie dell’azione amministrativa, desumibili sia dai principi costituzionali in punto di imparzialità e buon andamento, sia dalle norme di legge ordinaria in punto di celerità, efficienza, efficacia e trasparenza, sia dai principi generali dell’ordinamento, in punto di ragionevolezza, proporzionalità ed adeguatezza. (V, 8 settembre 2008, n.4242).
5.8. Ora, la sentenza impugnata, con gli enunciati di principio da essa premessi alla risoluzione della questione, ha in definitiva aderito alla seconda delle concezioni della colpa qui riferite, sicchè non appare necessario in questa sede risolvere la questione del concetto di colpa astrattamente riferibile alla p.a., tenuto conto del fatto che le stesse allegazioni compiute dall’atto di appello per contestare l’accertamento sfavorevole compiuto in primo grado si muovono sempre sul solco della seconda concezione di colpa dianzi riassunta e, quindi, sul piano delle deduzioni probatorie incombenti su chi agisce in via risarcitoria.
5.9. Tali allegazioni, peraltro, non sono sufficienti a superare quanto condivisibilmente affermato dal Tar circa il difetto, in concreto, dell’elemento della colpa.
La regione, infatti, ha fatto applicazione del principio dell’inedificabilità temporanea delle zone previamente individuate ai sensi della legge n.431 el 1985, quale previsto dall’art.1 ter s.l., fino all’approvazione dei piani paesaggistici, influente quindi sull’approvabilità di strumenti urbanistici che tale edificazione avessero previsto per tali zone (nelle quali pacificamente rientrava l’aera per cui è causa).
L’illegittimità\inopponibilità di tale diniego “soprassessorio” in relazione all’obbligo di ottemperanza al giudicato è stata ritenuta dalla decisione del 2000 della Quarta Sezione in base al rilievo che la Regione quale parte necessaria del giudizio di merito e, di conseguenza, del giudizio in fase esecutiva, era anch’essa soggetta agli obblighi derivanti dal giudicato ed alla vincolatività di quanto in aderenza ad esso avesse stabilito il commissario ad acta, avendo semmai l’obbligo di promuovere un incidente, per far valere le sue ragioni inerenti all’applicazione della prevalente disciplina paesaggistica, nell’ambito dello stesso giudizio di esecuzione.
5.9. Senonchè, nel caso in esame, la Regione è stata attratta nell’obbligo di esecuzione, in senso difforme dalla posizione che essa aveva ritenuto di assumere, in base a tale sofisticata elaborazione interpretativa della situazione conseguente al giudizio di ottemperanza, sia in termini processuali che sostanziali, operata dalla decisione del n.2592 del 2000.
La decisione in questione ha infatti ritenuto che fosse escluso che la Regione disponesse di un residuo potere autonomo di sindacato sulle scelte di fondo del Commissario ad acta, andando di contrario avviso a quanto ritenuto dallo stesso Tar con la sentenza di primo grado n.1146 del 1995, che si era attenuta a quanto statuito con precedente sentenza di esecuzione n.187\1990, non impugnata, che aveva posto l’esecuzione solo a carico del Comune; la stessa decisione del 2000, nell’evidenziare tale statuizione del giudice di primo grado, ha rilevato che l’originaria sentenza del 1990, n.187, la prima in sede di ottemperanza, non contenesse “che un parziale ordine di esecuzione”.
Il superamento di tale aspetto è frutto di un’attività interpretativa giuridica e dei fatti processuali pregressi, che il giudice di appello ha condotto sul filo di principi estremamente complessi, tesi a superare le stesse difficoltà poste dalle precedenti pronunce di ottemperanza di primo grado, rispetto alle quali la Regione non aveva motivo di dubitare della correttezza della posizione assunta.
5.10. Sul piano sostanziale, poi, la regione aveva statuito in un senso che, stante il carattere ordinatorio del termine di adozione dei piani paesaggistici e la conseguente ultrattività oltre tale termine dei poteri soprassessori delle Regioni, corrispondeva ad una diffusa prassi che veniva paritariamente seguita dalle regioni, uniformemente investite di analoghi problemi, essendo notoria non solo la giurisprudenza circa il carattere ordinatorio del termine in questione (e di ciò dà atto la stessa decisione del 2000), ma anche la diffusione di tale applicazione degli artt. 1 bis ed 1 ter della legge n.431 del 1985 da parte di numerose Regioni.
La soggezione regionale ad un “ordine di esecuzione implicito”, la superabilità (ritenuta dalla decisione n.2592 del 2000) del carattere ordinatorio del termine di adozione dei piani paesaggistici ai fini soprassessori, in funzione della rilevanza del notevole trascorrere del termine in relazione ad una “situazione che abbia ricevuto la conformazione definitiva del giudicato”, la esigenza (esclusa dalle sentenze di ottemperanza di primo grado) che la Regione stessa dovesse necessariamente interloquire in via incidentale nel giudizio di ottemperanza, per far valere le proprie obiezioni alle previsioni di edificabilità previste dal commissario in funzione della disciplina paesaggistica, la stessa sopravvenienza di questa ad un giudicato espressamente riconosciuto come estraneo a questioni di natura paesaggistica, sono tutte circostanze che escludono che l’illegittimità della determinazione negativa del 1993 fosse imputabile ad una colpevole attività interpretativa posta in essere dalla Regione medesima.
Quest’ultima, infatti, anche facendo applicazione delle regole di buon governo dell’azione amministrativa desumibili dai principi sopra illustrati, non avrebbe potuto normalmente prevedere le illegittimità rilevate dal giudice d’appello dell’esecuzione, avendo richiamato la disciplina paesaggistica secondo un’interpretazione “normale” e diffusa, i cui limiti di legittimità, rispetto alla materia dedotta nel giudizio di ottemperanza, non potevano, dunque, essere rilevati in via autonoma nell’ambito dello sforzo di diligenza normalmente richiesto all’apparato amministrativo nell’esercizio delle sue funzioni pubblicistiche.
La concreta fattispecie ora esaminata, quindi, evidenzia che l’atto astrattamente lesivo, posto in essere dalla Regione nel 1993, era affetto da una illegittimità obiettivamente attribuibile ad errore scusabile, e ciò risulta anche dall’ampio assolvimento dell’onere di allegazione compiuta dalla difesa della Regione con le memorie prodotte nel presente giudizio.
5.11. Escluso l’elemento colpevole ora trattato, ne risulta un assorbente accertamento che consente di respingere la domanda risarcitoria in parte qua, e quindi di pronunciare anche la parziale corrispondente reiezione dell’appello, indipendentemente dalla questione della effettiva spettanza del bene della vita, confermandosi, sul punto, la sentenza di primo grado.
6. Va quindi di seguito esaminato l’appello relativo alla sentenza n.217 del 2007.
Con essa il giudice di primo grado ha ritenuto che l’intervenuta approvazione del piano paesistico regionale, con delibera G.R n.VII\197 del 6 marzo 2001, imponesse di rivedere le determinazioni stesse del Commissario ad acta su cui si incentravano il riconoscimento della spettanza del bene della vita (una certa aliquota di edificabilità attribuita da tale variante) e l’assunzione del carattere sostanziale da parte dell’interesse pretensivo qui in esame.
Ciò in quanto, per il Tar, lo jus aedificandi riconosciuto dal giudicato qui in rilievo, (in particolare dalla delibera del commissario da acta adottata il 31 gennaio 1991), incentrato solo sulla considerazione di norme urbanistico-edilizie, non poteva che recedere di fronte alla sopravvenienza giuridica del piano paesistico regionale di cui alla delibera n.VII\197 del 6 marzo 2001, con la conseguenza che si dovesse provvedere alla nomina di un nuovo commissario ad acta affinchè procedesse, in base a quanto già elaborato, all’approvazione della variante al P.R.G. rispetto alla zona già oggetto del piano di lottizzazione, tenuto conto del piano paesistico sopravvenuto.
6.1. L’appello ora in esame peraltro si incentra su una premessa solo in astratto condivisibile e cioè che il giudicato di ottemperanza derivante dalla più volta citata decisione della IV Sezione n.2592 del 2000, -resa in riforma di sentenza del Tar n.1146 del 1995, che aveva ritenuto, in sede di ottemperanza, la legittimità del diniego di approvazione regionale del 1993 della variante “adottata” dal Commissario ad acta nominato dallo stesso Tar-, integrasse l’originario giudicato del 1985-1988, configurando un’ipotesi di giudicato, appunto, “a formazione progressiva”, idoneo a condizionare e ridurre progressivamente l’ambito di discrezionalità dell’amministrazione in sede di riedizione del potere pianificatorio.
In quella sede, la IV Sezione aveva infatti precisato che la delibera commissariale del 1991 aveva tenuto conto dei principi fondamentali della tutela paesaggistica in base alla legge n.431 del 1985 e che tale valutazione producesse un effetto vincolante, sia per il Comune che per la Regione, parti necessarie del giudizio di merito e di quello esecutivo, entrambi sostituiti nei rispettivi ambiti di attribuzioni, anche quanto ai riflessi, sulla fattispecie di esecuzione, della sopravvenuta disciplina della citata legge del 1985, (costituente jus superveniens impingente sull’esecuzione in quanto anteriore alla notifica della sentenza della IV Sezione del 1988 che aveva comportato il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado del 1985).
6.2. Rispetto a tale statuizione, per l’appellante, deve ritenersi che, nell’ambito temporale di pendenza del giudizio di ottemperanza, non potesse essere rimessa continuamente in contestazione la pretesa del privato, fondata sul giudicato, anche configurato dalla progressiva integrazione derivante da statuizioni cognitorie del giudice dell’ottemperanza, in ragione del sopravvenire di nuove disposizioni amministrative a carattere generale. Ciò oltre a vanificare la certezza della posizione del beneficiario del giudicato favorevole, non consentiva mai di individuare esattamente il contenuto dell’obbligo di adempimento.
Il giudicato doveva considerarsi così intangibile, con riguardo all’accertamento del diritto all’edificazione, in omaggio al principio per cui la legge sopravvenuta è irrilevante sulle situazioni giuridiche istantanee definite dal giudicato (A.P. n.2 dell’11 maggio 1998).
6.3. Nella specie non è necessario affrontare la complessa tematica della rilevanza dello jus superveniens con riferimento alla valenza dei successivi strumenti paesaggistici, atteso che il primo de quo è stato approvato prima che la sentenza che ha riconosciuto il titolo alla edificazione fosse passata in giudicato. Detta disciplina paesaggistica era certamente opponibile all’originaria ricorrente, nell’ambito del giudizio di ottemperanza successivamente riattivato, atteso che la decisione n.2592 del 2000 ha assunto valore di giudicato, divenendo cioè “definitiva” e “resistente” allo jus superveniens, solo a seguito della sentenza delle SS.UU. della Cassazione 19 aprile 2002, n.5730, che ha respinto il ricorso per difetto di giurisdizione proposto avverso la decisione stessa della Quarta.
Ne discende che correttamente il Tar ha tenuto conto del sopravvenuto piano paesaggistico, ai fini ordinatori dell’attività di esecuzione posta a carico del Commissario ad acta nuovamente nominato, onde l’appello ora esaminato deve considerarsi infondato.
7. In conclusione va parzialmente accolto l’appello n.12\1998, con rinvio alla remittente Quarta Sezione per le statuizioni attinenti al quantum risarcitorio, nei termini di spettanza del bene della vita qui accertati, e va respinto l’appello n.13\1998, secondo quanto appena precisato.
L’estrema complessità delle questioni di fatto e di diritto portate all’attenzione del Collegio, certamente indicative dell’incertezza della materia del contendere, e la reciproca parziale soccombenza delle parti costituite, comporta l’integrale compensazione delle spese di giudizio tra le medesime, anche per il primo grado in relazione all’accoglimento parziale dell’appello n.12\2008 (e della conseguente parziale riforma della sentenza di primo grado con esso impugnata), fatta salva la determinazione in ordine alle ulteriori spese giudiziali spettante alla Quarta Sezione per la fase di prosecuzione del giudizio dinnanzi ad essa.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Adunanza Plenaria, previa riunione dei ricorsi nn. 12 e 13 del 2008:
- accoglie in parte l’appello n.12\2008, rinviando alla Quarta Sezione per l’ulteriore prosecuzione del giudizio;
- respinge l’appello n. 13/2008.
Compensa le spese tra le parti costituite nei termini di cui in motivazione.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio del 20 ottobre 2008, con l'intervento dei Signori:
Paolo Salvatore - Presidente del Consiglio di Stato
Giovanni Ruoppolo - presidente di sezione
Gaetano Trotta - presidente di sezione
Luigi Maruotti - consigliere
Pierluigi Lodi - consigliere
Giuseppe Romeo - consigliere
Paolo Buonvino - consigliere
Luciano Barra Caracciolo - consigliere estensore
Cesare Lamberti - consigliere
Aldo Fera - consigliere
Claudio Marchitiello - consigliere
Marco Lipari - consigliere
Domenico Cafini - consigliere
Presidente
Consigliere Segretario
DEPOSITATA IN SEGRETERIA IL 03/12/2008.

mercoledì 18 marzo 2009

T.A.R. Lombardia, Milano, III, 19 novembre 2008, n. 5442

N. 5442/08 Reg. Sent.
N. 1955/2000 Reg. Ric.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE PER LA LOMBARDIA
(Sezione III)
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso R.G. n. 1955/2000, proposto dalla P.M.C. S.r.l., in persona del legale rappresentante, dott. Alessandro Porta, rappresentata e difesa dall’avv. Tiziano Ugoccioni e con domicilio eletto presso lo studio dello stesso, in Milano, via Boccaccio 19
contro
il Comune di Cantù, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avv.ti Massimo Bottinelli ed Armando Cimolino e con domicilio eletto presso lo studio del secondo, in Milano, via Monte Nero 78
nonché contro
Corporate Trade Service S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, sig. Elio Nicolosi, rappresentata e difesa dagli avv.ti Stefano Zamponi, Maria Antonia Poggi e Filippo Carimati e con domicilio eletto presso lo studio degli stessi, in Milano, via Beccaria 5
per l’annullamento, previa sospensione,
-della determinazione, a firma della Dirigente dell’Area Servizi alla Persona del Comune di Cantù, n. 37 del 6 marzo 2000, avente ad oggetto l’aggiudicazione di gara a trattativa privata per l’acquisto del software applicativo per il Settore Servizi Sociali e per la gestione di attività legate al Progetto "Pegaso", finanziato con fondi regionali ex l. n. 285/1997;
- di tutti gli atti di gara inerenti l’aggiudicazione della predetta fornitura, ed in particolare dei verbali posti in essere dalla relativa Commissione il 21 dicembre 1999 ed il 16 febbraio 2000, nonché della relazione tecnica del Responsabile del C.E.D. del Comune di Cantù datata 9 marzo 2000;
- della determinazione dirigenziale n. 2702 del 17 febbraio 1999, con cui è stata indetta la predetta trattativa privata previa gara ufficiosa, nonché della successiva recante la lex specialis della gara medesima;
- dell’eventuale norma regolamentare interna al Comune di Cantù che riconosce al medesimo Dirigente di Settore, ovvero ad un medesimo funzionario, di indire le procedure concorsuali per l’affidamento delle forniture/servizi, di partecipare, quale Presidente e/o membro di Commissione, allo svolgimento delle stesse, di disporre l’approvazione delle procedure concorsuali in questione, valutandone la legittimità e l’osservanza delle regole stabilite dalla lex specialis;
-di ogni altro atto connesso, presupposto o conseguente
e per la condanna
dell’Amministrazione al risarcimento del danno, ex art. 35 del d.lgs. n. 80/1998
VISTO il ricorso con i relativi allegati;
VISTA la domanda di sospensione dei provvedimenti impugnati, presentata in via incidentale dalla società ricorrente;
VISTI gli atti di costituzione in giudizio del Comune di Cantù e della Corporate Trade Service S.r.l.;
VISTA l’ordinanza n. 1732/2000 del 26 maggio 2000, con cui è stata respinta la domanda incidentale di sospensione;
VISTE le memorie ed i documenti prodotti dalle parti;
VISTI tutti gli atti di causa;
NOMINATO relatore, alla pubblica udienza del 22 maggio 2008, il Referendario dr. Pietro De Berardinis ed udito lo stesso;
UDITO, altresì, i procuratori presenti delle parti costituite, come da verbale;
RITENUTO in fatto e considerato in diritto quanto segue
FATTO
La società ricorrente, P.M.C. S.r.l., espone di essere titolare di un software, denominato "SW SERVIZI SOCIALI 2000", concernente la gestione integrata, in ambiente windows, del sistema informativo comunale per il Settore dei Servizi socio-assistenziali.
Detto software, creato ed elaborato nel 1989, soggetto a brevetto ed alla tutela di cui alla l. n. 633/1941, sarebbe un programma unico nel suo genere, premiato nel 1994 dalla Federservizi Associazione Italiana Informatica Medica.
Nel corso del 1999 il Comune di Cantù ha:
- dapprima chiesto informazioni sul sistema ora menzionato;
- poi, partecipato, con la Dirigente dell’Area Servizi Sociali, alla dimostrazione del suddetto software tenutasi in occasione della SMAU 1999 (manifestazione fieristica del settore), acquisendo in tale occasione un’offerta di vendita del citato software per complessive £. 16.000.000 esclusa I.V.A.;
- quindi, dopo altri contatti e dopo che l’offerta era stata riconfermata ed erano state rese ulteriori dimostrazioni del software, inviato una lettera all’esponente di invito a partecipare alla trattativa privata "per l’acquisto di software applicativo per il settore servizi sociali". A siffatta lettera di invito era allegato un capitolato speciale di appalto, ma, a detta della società ricorrente, il Comune non avrebbe mai specificato che la gara riguardava, oltre che la fornitura del citato software applicativo, anche l’affidamento della gestione delle attività legate al "Progetto Pegaso", finanziato con fondi regionali ex l. n. 285/1997.
L’esponente lamenta che il capitolato d’appalto risultava formulato con palese riferimento al contenuto del software di cui più volte l’esponente stessa aveva fornito dimostrazione al Comune, come dimostrerebbe anche l’importo posto a base d’asta (pari proprio a £. 16.000.000 esclusa I.V.A.). L’indizione della gara sarebbe stata già di per sé, quindi, illegittima, per violazione della par condicio e della segretezza delle offerte, essendo, per quanto detto, la stazione appaltante a conoscenza da tempo del contenuto dell’offerta economica e della qualità della progettazione dell’odierna ricorrente.
Nondimeno, la P.M.C. S.r.l formulava un’offerta, diffidando l’Amministrazione dall’esaminare le offerte di altri prodotti redatti in violazione del brevetto di essa offerente e della l. n. 633/1941. Ciò, in quanto vi era il sospetto che circolasse un prodotto frutto di plagio operato sul software della P.M.C. stessa.
Con nota pervenuta alla società esponente il 31 marzo 2000 (anticipata via fax il giorno prima), il Comune di Cantù trasmetteva gli atti della Commissione di gara (verbali del 21 dicembre 1999 e del 16 febbraio 2000), la relazione, redatta dal membro della Commissione responsabile del C.E.D. del Comune, concernente la valutazione della parte tecnica delle offerte, e la determinazione dirigenziale n. 37 del 6 marzo 2000, recante l’aggiudicazione della fornitura alla ditta Corporate Trade Service S.r.l. di Milano.
Da tale documentazione sono emersi svariati profili che, a detta dell’esponente, dimostrerebbero un’illegittima lesione dei suoi interessi riconducibile all’operato dell’Amministrazione.
Tra i vari aspetti, l’esponente sottolinea in particolare che il 16 febbraio 2000 la Commissione ha proceduto alla valutazione della parte tecnica delle offerte, a tal fine rinviando alla relazione redatta dal responsabile del C.E.D.: questa, tuttavia, risulta datata e sottoscritta in data 9 marzo 2000, e sarebbe, pertanto, posteriore allo stesso provvedimento di aggiudicazione. La Commissione avrebbe, dunque, espresso il punteggio sulla parte tecnica riferendosi ad un parere a quel momento inesistente
Avverso gli atti di gara, nonché il conseguente provvedimento di aggiudicazione, è quindi insorta la P.M.C. S.r.l., impugnandoli con il ricorso indicato in epigrafe e chiedendone l’annullamento, previa sospensione dell’esecuzione.
A supporto del gravame ha dedotto le censure di:
- violazione del corretto procedimento di gara, nonché del principio generale di segretezza delle offerte e della par condicio tra i concorrenti ed eccesso di potere per travisamento dei presupposti di fatto e diritto e sviamento, in quanto la P.A. dapprima si sarebbe attivata per conoscere tutti gli aspetti tecnico/applicativi del software proposto dalla ricorrente, nonché il suo prezzo, e poi l’avrebbe invitata a presentare un’offerta nell’ambito di una gara, come se all’Ente locale non fosse già noto il contenuto di detta offerta;
- violazione della l. n. 142/1990 e delle norme generali che regolano i contratti della P.A., nonché violazione del corretto procedimento di approvazione degli atti di gara e dei principi generali di controllo e trasparenza delle determinazioni inerenti i contratti della P.A., giacché una medesima dipendente del Comune (la Dirigente di Area) ha indetto la gara, ha partecipato al suo svolgimento in veste di Presidente della Commissione ed ha approvato l’intero procedimento di gara, disponendo poi la formale aggiudicazione dell’appalto;
- violazione, travisamento, falsa applicazione dell’art. 56 della l. n. 142/1990 nel testo di cui all’art. 14 della l. n. 265/1999 ed eccesso di potere per incompetenza, perché competente all’adozione del provvedimento di aggiudicazione sarebbe la Giunta Comunale e non già la Dirigente, essendo riservato all’Autorità politica il controllo del rispetto delle regole procedurali che governano la gara;
- violazione, travisamento ed omessa applicazione dell’art. 41 del R.D. n. 827 del 1924, nonché del d.P.R. n. 573/1994 e dell’art. 9 del D.lgs. n. 358/1992 ed eccesso di potere per violazione del corretto procedimento, per travisamento dei presupposti di fatto e di diritto, per carenza assoluta di istruttoria e per violazione dei diritti di privativa e tutela esistenti sul software della ricorrente, in quanto, ai sensi della vigente normativa nazionale e comunitaria, poiché il software chiesto dal Comune sarebbe stato protetto da un diritto di esclusiva, il predetto Comune avrebbe dovuto procedere ad acquistarlo direttamente dalla ricorrente a trattativa privata;
- violazione del corretto procedimento di gara, eccesso di potere per aver la P.A. affidato alla controinteressata anche la gestione delle attività legate al "Progetto Pegaso" finanziato con fondi regionali ex l. n. 285/1997, senza avere però svolto al riguardo alcuna gara ufficiosa, e per avere dato atto, nella determinazione di aggiudicazione, che tale gara è stata invece svolta; eccesso di potere per avere la Commissione proceduto alla valutazione della "parte tecnica" dell’offerta della ricorrente in assenza di una relazione tecnica; eccesso, sviamento ed abuso di potere per avere la Commissione proceduto alla valutazione della "parte tecnica" dell’offerta presentata dalla ricorrente sulla base di una relazione redatta in un momento successivo sia all’attribuzione del punteggio, sia alla determinazione di aggiudicazione; eccesso di potere per carenza assoluta di motivazione in ordine all’attribuzione del punteggio per il parametro della qualità della progettazione; violazione del principio di collegialità decisionale della Commissione.
La società ricorrente ha presentato, inoltre, domanda di risarcimento del danno conseguente all’eventuale mancata esecuzione della fornitura oggetto della gara, individuato in via minimale nel mancato utile della fornitura ineseguita.
Sul punto, nella memoria finale ha provveduto a quantificare il danno risarcibile, sotto il profilo del lucro cessante patito per la mancata esecuzione dell’appalto, nella misura del 10% del valore aggiudicato e pertanto in € 1.500,00, oltre alla rivalutazione monetaria – da calcolarsi fino al deposito della sentenza – ed agli interessi fino al saldo, ovvero sotto il profilo della perdita di chances patita da essa ricorrente, nella misura del 10% dell’offerta aggiudicata, ridotto della metà in ragione del numero dei partecipanti alla gara (due).
Si è costituito in giudizio il Comune di Cantù, depositando una memoria con cui ha chiesto la reiezione del ricorso, inclusa la domanda di risarcimento del danno, previa reiezione, altresì, dell’istanza cautelare, per carenza di fumus boni juris e di periculum in mora.
Si è costituita in giudizio, inoltre, la Corporate Trade Service S.r.l., depositando memoria nella quale, dopo aver contestato le asserzioni della ricorrente, in specie il fatto che il software di quest’ultima fosse coperto da brevetto, ha concluso per il rigetto del ricorso e dell’unita istanza cautelare.
Nella Camera di Consiglio del 26 maggio 2000 il Collegio, considerata ad un primo esame l’insussistenza degli asseriti vizi della procedura di aggiudicazione e demandato al merito l’esame delle doglianze circa l’errata valutazione tecnica dei programmi, con ordinanza n. 1732/2000 ha respinto la domanda incidentale di sospensione.
In prossimità dell’udienza di merito la ricorrente ed il Comune hanno presentato memorie e documenti.
All’udienza pubblica del 22 maggio 2008 la causa è stata trattenuta in decisione.
DIRITTO
La società ricorrente impugna gli esiti della gara ufficiosa tramite cui il Comune di Cantù ha aggiudicato alla controinteressata Corporate Trade Service S.r.l. la fornitura del software applicativo per il Settore Servizi Sociali e la gestione delle attività legate al "Progetto Pegaso" finanziato con fondi regionali, ai sensi della l. n. 285/1997.
Con il primo motivo di ricorso lamenta la violazione del principio di segretezza delle offerte e della par condicio tra i concorrenti, in quanto il Comune di Cantù, che a seguito di trattative intercorse aveva già avuto modo di conoscere – in una epoca precedente all’indizione della gara – contenuto e caratteristiche tecniche ed economiche del software e, pertanto, dell’offerta della ricorrente, avrebbe poi strutturato la lex specialis facendo chiaro riferimento al contenuto di tale offerta (tanto che anche il prezzo a base d’asta coincide con l’importo indicato in sede di trattative dalla società).
In tal modo la procedura concorsuale indetta dalla P.A. non avrebbe rispettato il requisito della segretezza, giacché tanto il Comune, quanto gli altri concorrenti, sarebbero stati pienamente (ed anticipatamente) a conoscenza del contenuto della offerta che la ricorrente avrebbe (ri)proposto. Sarebbe stata così violata, altresì, la par condicio con gli altri eventuali concorrenti, poiché questi ultimi sarebbero stati posti in grado – dal contenuto del capitolato speciale – di conoscere l’offerta avversaria, già precedentemente resa pubblica al Comune.
Nella memoria depositata in vista dell’udienza pubblica, la P.M.C. S.r.l. osserva, inoltre, che il principio della segretezza delle offerte sarebbe stato violato anche sotto un altro profilo. In particolare, sarebbe stata violata la regola per cui, negli appalti giudicati secondo il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, il prezzo offerto deve restare segreto al momento della valutazione delle offerte tecniche, onde impedire che detta valutazione possa essere calibrata in funzione del prezzo offerto dall’una o dall’altra concorrente. Nel caso in esame, invece, il prezzo offerto dalla ricorrente sarebbe stato già noto in anticipo, quantomeno al Comune.
Da ultimo – e sempre nella memoria finale – la società osserva che il Comune di Cantù avrebbe violato la regola, in base alla quale si deve procedere alla previa e completa valutazione delle offerte tecniche presentate dai concorrenti ben prima di valutarne le offerte economiche.
Al riguardo, vanno preliminarmente scrutinate le eccezioni di inammissibilità del motivo, formulate dalle difese del Comune resistente e della controinteressata sul rilievo dell’intervenuta acquiescenza della ricorrente: acquiescenza che sarebbe desumibile dall’avere la ricorrente stessa partecipato senza riserve alla trattativa privata (con gara ufficiosa).
Le eccezioni non possono essere condivise.
In proposito, il Collegio rammenta che, secondo il costante orientamento della giurisprudenza, risultano inammissibili, per intervenuta acquiescenza, le censure proposte con il ricorso giurisdizionale da un partecipante ad una gara a trattativa privata, nel caso in cui il ricorrente, da un lato, abbia posto a base di tali censure la contestazione dell’utilizzo di un siffatto strumento di selezione del contraente, per difetto di condizioni legittimanti la scelta del tipo di gara, e, dall’altro, lo stesso partecipante dichiari di avere presentato domanda di partecipazione alla gara in questione, evidenziando, chiaramente ed univocamente, la volontà di accettare la tipologia di gara prescelta dall’Amministrazione procedente (cfr., ex multis, C.d.S., Sez. V, 9 ottobre 2003, n. 6072).
Orbene, nel caso di specie, dal tenore della doglianza risulta chiaro che la società ricorrente non contesta affatto l’utilizzo della trattativa privata come strumento di scelta del contraente, né la mancanza delle condizioni legittimanti la scelta di tale metodo di selezione. Contesta, piuttosto, il comportamento complessivo del Comune, il quale, da un lato, avrebbe insistito per acquisire informazioni sul contenuto dell’offerta della società, e dall’altro lato, una volta acquisite le stesse, anziché procedere all’immediata stipula del contratto di fornitura con la società, avrebbe bandito una gara ufficiosa, indicando, quali caratteristiche tecniche ed economiche del prodotto da fornire, proprio quelle derivanti dalle informazioni assunte presso l’odierna ricorrente.
Poiché, quindi, ciò di cui la società si duole è il fatto che la lex specialis richiami i requisiti dell’offerta già resi noti in precedenza dalla società stessa al Comune, ad avviso del Collegio si tratta di censura che investe non la contestazione delle condizioni per procedere alla scelta del contraente tramite trattativa privata (con gara ufficiosa), ma la correttezza e la legittimità dell’iter procedurale seguito in concreto. Ne deriva l’ammissibilità della censura (cfr. C.d.S., Sez. V, 18 marzo 2004, n. 1424).
Nondimeno, la censura stessa è infondata
Ed invero, sotto un primo profilo la documentazione in atti non conferma affatto la tesi della P.M.C. S.r.l., secondo cui sarebbe stato il Comune di Cantù a cercare (con insistenza) di contattare la società, per acquisire notizie sulle caratteristiche del software da questa fornito, ingenerando in essa un affidamento nella stipula di un contratto di fornitura. I documenti depositati a tal riguardo dalla ricorrente sono tutti di provenienza della stessa e mostrano, casomai, un’iniziativa costante della società (del resto coerente con i suoi fini di lucro) di interessare il Comune all’acquisto del proprio prodotto.
In particolare, non risulta da nessuno dei documenti versati in atti che sia stato il Comune di Cantù a richiedere un’offerta preventiva alla P.M.C. S.r.l. (su cui poi modellare le caratteristiche del prodotto oggetto di gara) e ad insistere perché la società effettuasse varie dimostrazioni del funzionamento del software.
In ogni caso, la società certo conosceva le regole che governano le procedure di acquisto di beni, prodotti, servizi da parte della P.A. e perciò non poteva riporre alcun affidamento sul fatto che le eventuali trattative intercorse potessero bastare ad addivenire all’immediata stipulazione del contratto, senza nessuna procedura competitiva. In questo senso, anzi, la ricorrente si sarebbe dovuta aspettare che ai contatti con il Comune – siano state vere trattative o più plausibilmente, come si dirà, mere indagini esplorative di mercato – avrebbe fatto seguito una procedura selettiva e, sulla base di tale aspettativa, avrebbe dovuto vagliare attentamente le informazioni che era opportuno fornire.
Sotto altro aspetto, poi, il tipo di attività svolto in proposito dalla P.A. non pare esorbitare da un’indagine e/o ricerca di mercato, quale operazione che la P.A. stessa compie con funzioni esplorative, al fine di conoscere la disponibilità degli operatori a fornire proposte e/o soluzioni apprezzabili in relazione alle esigenze rappresentate dalla P.A. stessa. Invero, sarebbe insensato che l’Amministrazione, dopo aver effettuato indagini informali di mercato, non tenesse in nessun conto i risultati di queste al fine dell’elaborazione degli atti di gara. Appare, quindi, del tutto ragionevole che il Comune di Cantù abbia tenuto conto di quanto appreso in occasione della partecipazione dei propri dipendenti alla SMAU (che, com’è noto, è manifestazione fieristica del settore rivolta alla generalità degli operatori dell’informatica).
Infine, da nessun elemento si ricava che la controinteressata fosse consapevole che i termini tecnici ed economici dell’offerta indicati nella lettera di invito, in realtà, sarebbero stati i termini dell’offerta formulata in precedenza al Comune di Cantù dall’odierna ricorrente.
Anche per questo verso – quello della violazione del principio di par condicio competitorum – la censura dedotta risulta, perciò, infondata.
Quanto poi alle doglianze contenute nella memoria finale, ad avviso del Collegio queste, lungi dall’essere mere esplicitazioni delle censure iniziali, si presentano come vere e proprie censure nuove e sono, perciò, inammissibili.
Si ricorda, infatti, che, secondo la costante giurisprudenza, sono inammissibili le censure dedotte in una memoria non notificata alla controparte non solo allorché risultino completamente nuove e non ricollegabili alle osservazioni contenute nell’atto introduttivo, ma anche se si richiamino giuridicamente ad un motivo già dedotto nell’atto introduttivo, e tuttavia introducano, in realtà, elementi nuovi in origine non indicati, con conseguente violazione del termine decadenziale e del principio del contraddittorio (cfr., ex multis, T.A.R. Calabria, Catanzaro, Sez. II, 9 novembre 2003, n. 3447; C.d.S., Sez. IV, 15 settembre 2006, n. 5385; id., 10 agosto 2004, n. 5513).
Passando all’esame del secondo motivo di ricorso, con esso si lamenta che una medesima dipendente del Comune di Cantù (la Dirigente dell’Area Servizi alla Persona) abbia indetto la gara, partecipato ad essa in qualità di Presidente della Commissione ed approvato gli atti dell’intero procedimento, disponendo, poi, la formale aggiudicazione dell’appalto.
In questo modo sarebbero stati violati i principi generali che governano l’attività contrattuale della P.A., i quali non consentono che coincidano in un medesimo funzionario i compiti di "controllato" e "controllore".
La doglianza è priva di fondamento.
La giurisprudenza ha, infatti, precisato più volte come l’art. 6, comma 2, della l. n. 127/1997, nel novellare l’art. 51 della l. n. 142/1990, abbia rimesso ai dirigenti "la responsabilità delle procedure d’appalto" (oltre alla presidenza delle relative Commissioni valutatrici) e la stipulazione dei contratti (nello stesso senso è ora l’art. 107, comma 3, lett. a), b) e c) del d.lgs. n. 267/2000). Orbene, se è rimessa ai dirigenti la responsabilità di tali procedure, ne segue che ai medesimi compete pure il correlativo potere di approvazione per quanto attiene alla verifica tecnica e di legittimità degli atti di gara, a questa riconnettendosi quel perfezionamento dell’iter procedimentale al quale solo può ricollegarsi la responsabilità piena del funzionario (C.d.S., Sez. V, 26 settembre 2002, n. 4938; id., 6 maggio 2002, n. 2408; id., 12 aprile 2001, n. 2293).
Ne discende che l’ordinamento non prevede alcuna incompatibilità a carico del funzionario che, in ragione dell’ufficio ricoperto, svolga le funzioni di Presidente della Commissione aggiudicatrice dell’appalto e sia successivamente competente ad approvare gli atti di gara (C.d.S., Sez. V, n. 4938/2002, cit.).
In termini del tutto analoghi va poi affrontato il terzo motivo di ricorso, con cui si deduce che l’atto di aggiudicazione sarebbe affetto da incompetenza, in quanto adottato dalla Dirigente dell’Area Servizi alla Persona, invece che dalla Giunta Comunale (alla quale la relativa competenza spetterebbe in ossequio all’esigenza di riservare al potere politico il controllo sull’osservanza delle regole procedurali che governano la gara).
Sul punto è infatti semplice obiettare che l’aggiudicazione di una gara pubblica è un atto di gestione. Come tale, secondo la ripartizione delle attribuzioni definita dal d.lgs. n. 267/2000, essa è riservata alla competenza del dirigente del settore e non degli organi elettivi o politici dell’Ente locale, ai quali ultimi viene riservata l’attività di indirizzo, che consiste nella fissazione delle linee generali da seguire, da parte della P.A., e degli scopi da perseguire con l’attività di gestione (C.d.S., Sez. V, 29 agosto 2006, n. 5047).
Se ne deduce l’infondatezza anche del terzo motivo di ricorso.
Venendo all’esame del successivo motivo di gravame, si osserva che con esso la ricorrente deduce la violazione dell’art. 41 del R.D. n. 827/1924 e del d.P.R. n. 573/1994 (che rinvia sul punto alla disciplina comunitaria, in particolare all’art. 9, comma 4, del d.lgs. n. 358/1992): disposizioni applicabili alla vicenda de qua, trattandosi di fornitura di valore inferiore alla soglia comunitaria.
In base a dette disposizioni, si procede ad affidamento diretto delle forniture che, per ragioni relative alla protezione dei diritti di esclusiva, possono essere offerte solo da un soggetto determinato.
Nel caso di specie, poiché il software richiesto dalla stazione appaltante sarebbe protetto da un diritto di esclusiva, nonché dalla legislazione sul brevetto e sulla tutela del diritto d’autore, il Comune avrebbe dovuto procedere alla stipulazione direttamente con la P.M.C. S.r.l., titolare del relativo brevetto.
La doglianza è inammissibile e, comunque, infondata.
Infatti, in primo luogo si rileva che con la censura ora in esame viene contestata la sussistenza delle condizioni legittimanti la scelta del metodo di selezione della trattativa privata tramite gara ufficiosa.
Sulla base della giurisprudenza più sopra citata, con riferimento al primo motivo di gravame, si deve, pertanto, ritenere che la partecipazione della ricorrente a tale gara ufficiosa abbia implicato la sua sostanziale acquiescenza al provvedimento di indizione della gara. Da detta acquiescenza discende, quindi, l’inammissibilità della censura avente ad oggetto la decisione di utilizzare il surriferito metodo di selezione del contraente, in luogo dell’affidamento diretto.
In ogni caso, la doglianza è infondata, sotto almeno due profili.
Ed invero, in primo luogo la ricorrente non ha fornito alcun riscontro probatorio all’affermazione dell’esistenza, a proprio favore, di un diritto di brevetto, né ha in alcun modo comprovato l’intenzione, manifestata nel ricorso, di attivare nelle opportune sedi giudiziarie la tutela del software.
Trattasi di un profilo dirimente, perché se è vero che nel processo amministrativo non si applica il principio generale, desumibile dagli artt. 2697 c.c. e 115 c.p.c., secondo cui spetta a chi agisce in giudizio di provare i fatti posti a fondamento delle pretese avanzate e vige piuttosto la regola dell’onere del principio di prova (T.A.R. Lazio, Roma, Sez. III, 18 gennaio 2006, n. 324), è però altrettanto vero che nelle ipotesi, come quella qui in esame, in cui siano nella disponibilità della parte interessata gli elementi di prova atti a sostenerne la domanda giudiziale, il principio sull’onere della prova ex art. 2697 c.c. conserva integro il suo valore (C.d.S., Sez. VI, 2 marzo 2004, n. 973; T.A.R. Lazio, n. 324/2006 cit.). In ogni caso, alla luce di quanto riportato, si deve concludere che la ricorrente non abbia fornito nemmeno un principio di prova (per es. depositando gli atti comprovanti l’azione in sede giudiziaria a tutela del diritto di brevetto, che aveva manifestato di voler proporre).
Sotto un altro aspetto, poi, si desume dagli atti di gara la diversità tra il prodotto della ricorrente e quello della controinteressata, tale da far escludere che vi siano state violazioni dell’(indimostrato) diritto di privativa. In particolare, la relazione tecnica del Responsabile del C.E.D., come si vedrà più oltre, ha messo in risalto proprio le differenze tra i due prodotti. Anche per questo verso, dunque, emerge l’infondatezza della suesposta doglianza.
Venendo, infine, all’esame del quinto ed ultimo motivo di gravame, con esso la ricorrente enuncia una nutrita serie di doglianze avverso il procedimento di gara. In particolare:
a) la determinazione di aggiudicazione avrebbe illegittimamente e falsamente dato atto dell’estensione dell’oggetto della gara alla gestione di attività legate al cd. Progetto Pegaso, laddove invece detta estensione non sarebbe ricavabile dalla lettera di invito, né dal capitolato speciale, dai verbali di gara o dalla relazione tecnica, sicché, a ben guardare, l’affidamento sarebbe per questa parte avvenuto addirittura senza gara;
b) la Commissione non avrebbe spiegato le ragioni dell’attribuzione, in relazione al parametro della qualità della progettazione, di solo 50 punti alla ricorrente medesima, a fronte dei 53 assegnati alla controinteressata;
c) la relazione tecnica, recando la data del 9 marzo 2000, sarebbe posteriore sia alla fase dell’attribuzione, ad opera della Commissione, dei punteggi per la parte tecnica dell’offerta (avvenuta in data 16 febbraio 2000), sia addirittura alla stessa determinazione di aggiudicazione, risalente al 6 marzo 2000;
d) la predetta relazione tecnica sarebbe comunque del tutto inidonea a supportare un adeguato giudizio inerente alla parte tecnica del software proposto, in quanto si tratterebbe di atto generico, assai carente e pieno di errori sul piano tecnico e terminologico (errori analiticamente individuati nel par. 6 della parte in fatto del ricorso);
e) infine, il giudizio tecnico della Commissione sarebbe incompleto, perché, pur facendone parte due membri in qualità di "esperti", detto giudizio è stato affidato ad uno solo di essi (il Responsabile del C.E.D. del Comune, autore per l’appunto della relazione tecnica contestata).
Nessuna delle suesposte doglianze, in cui è articolato il quinto motivo di ricorso, può essere condivisa.
Quanto al punto a), si sottolinea che la determinazione di aggiudicazione indica ad oggetto dell’aggiudicazione stessa l’acquisto del software applicativo per il Settore Servizi Sociali "anche per gestire le attività legate al Progetto "Pegaso" finanziato con fondi regionali ex legge (sic) n. 285/1997".
Tale formulazione conferma l’assunto della difesa comunale, per il quale nella fattispecie di cui si discute l’Amministrazione ha provveduto ad aggiudicare alla Corporate Trade Service S.r.l. la fornitura del software applicativo per il Settore Servizi Sociali, limitandosi a rimarcare che detto software consente di gestire, tra l’altro, le attività sociali del "Progetto Pegaso".
L’utilizzo, nel provvedimento di aggiudicazione, del termine "anche" consente, pertanto, di ritenere che – contrariamente all’assunto della ricorrente – oggetto della gara è stato sempre e solo la fornitura del software applicativo per il Settore Servizi Sociali: software che ha, tra le sue caratteristiche, quella di poter essere utilizzato per le attività sociali del progetto in parola.
In altri termini, le attività del Progetto Pegaso si debbono ritenere ricomprese tra quelle per le quali è utilizzabile il software oggetto della gara, atteso che, come rammenta la determinazione a contrattare n. 155/ss.ss. in data 14 dicembre 1999 (richiamata nell’elenco delle ditte ammesse alla gara: v. doc. 8 del Comune), gli Uffici del Settore Servizi Sociali avevano proprio la necessità di dotarsi "di un software applicativo specifico per il settore sociale, particolarmente adatto a gestire le attività in attuazione del Progetto Pegaso…".
Quanto al punto b), esso deve essere esaminato unitamente ai punti c) e d), attesa la stretta interdipendenza che lega le doglianze descritte in tali punti.
Al riguardo deve premettersi che il sindacato giurisdizionale esperibile in ordine agli apprezzamenti tecnico-discrezionali effettuati dalla Commissione di gara in sede di valutazione comparativa delle offerte, non può che limitarsi alla verifica della sussistenza o meno di indici sintomatici di non corretto esercizio del potere discrezionale, sub specie di difetto di motivazione, illogicità manifesta, erroneità dei presupposti di fatto, incoerenza della procedura valutativa e dei relativi esiti (C.d.S., Sez. V, 12 ottobre 2004, n. 6566).
Orbene, con riguardo alla doglianza riportata sopra sub b), e cioè il non avere la P.A. esplicitato le ragioni per cui ha assegnato, per la parte tecnica delle offerte, un punteggio alla controinteressata (53 punti) maggiore di quello attribuito alla P.M.C. S.r.l. (50 punti), si deve osservare che trattasi di doglianza palesemente infondata, visto che in realtà la Commissione, in punto di valutazione tecnica, ha rinviato alla relazione del Responsabile del C.E.D., assolvendo, quindi, all’onere di giustificare le proprie scelte, tramite motivazione per relationem.
In altre parole, nel caso di specie, la scelta della Commissione nella valutazione tecnica delle offerte appare esente da tutti quegli indici sintomatici di esercizio non corretto del potere che si sono poc’anzi riportati.
In particolare, non sussiste – contrariamente all’assunto della ricorrente – nessun difetto di motivazione, poiché la ragione dei diversi punteggi assegnati alla parte tecnica delle due offerte (quella della ricorrente e quella della controinteressata) si coglie nell’essersi la Commissione richiamata (ed adeguata) alla valutazione espressa dal Responsabile del C.E.D. nella sua relazione. Per l’effetto, vi è totale coerenza tra la procedura valutativa seguita ed i relativi esiti.
Quanto al punto c), in disparte la documentazione da ultimo prodotta dalla difesa comunale, appare chiaro che, nel caso di specie, il fatto che la relazione tecnica del Responsabile del C.E.D. porti la data del 9 marzo 2000 è il frutto di un mero errore materiale, che non inficia in alcun modo il giudizio della Commissione (la quale, ad avviso della ricorrente, avrebbe in tal maniera tenuto conto di un parere al momento inesistente e redatto solo a posteriori).
A supporto della tesi dell’errore materiale – tale da far concludere che l’effettiva data della relazione sia il 9 febbraio e non il 9 marzo 2000 – depongono, infatti, i due elementi che di seguito si espongono.
1) Anzitutto, la circostanza che la data indicata nella relazione sia il "09.03.00": ciò rende molto verosimile la sussistenza di un’errore di battitura ("09.03.00", invece di "09.02.00"); in effetti, la tesi dell’errore materiale sarebbe stata molto meno credibile qualora la data fosse stata indicata come "9 marzo 2000", anziché "9 febbraio 2000".
2) In secondo luogo, proprio il fatto che il verbale della Commissione datato 16 febbraio 2000 richiami come allegato "A" e parte integrante delle determinazioni assunte dalla Commissione in sede di assegnazione dei punteggi per gli aspetti tecnici delle offerte, la relazione del Responsabile del C.E.D., sta a dimostrare, al contrario delle asserzioni della ricorrente, che a tale data – il 16 febbraio 2000 – la relazione stessa esisteva. Anche per questa via, quindi, acquista credibilità la tesi dell’errore materiale e della considerazione del 9 febbraio 2000 quale data effettiva della predetta relazione. La contraria opinione dovendo, a questo punto, essere surrogata dall’impugnativa per falso del succitato verbale del 16 febbraio 2000: impugnativa che però non risulta proposta dalla ricorrente.
In merito al punto d) sopra riassunto – presenza nella relazione del Responsabile del C.E.D. di numerosi errori tecnici e terminologici, che ne infirmerebbero la validità e l’attendibilità – osserva il Collegio che la citata relazione si presenta chiara, esauriente e ben motivata, mettendo essa in evidenza, al di là di possibili improprietà terminologiche – non tali, però, da renderla inattendibile – le ragioni che hanno condotto a preferire l’offerta della controinteressata.
Ciò risulta particolarmente da alcuni passaggi della relazione, e precisamente da quello in cui sono sottolineati i punti deboli del software applicativo proposto dall’odierna ricorrente (ridotto utilizzo del programma, sua debolezza in termini di sicurezza, mancata attivazione di alcune funzioni richieste dal capitolato, ecc.) e dal periodo finale in cui i due prodotti vengono messi a confronto. A seguito di tale confronto, viene infatti evidenziato che il software della controinteressata – a propria volta non privo di punti deboli, puntualmente indicati dalla relazione, il che rafforza l’attendibilità di questa – è prodotto decisamente superiore all’altro dal punto di vista dell’analisi e della funzionalità, "in quanto meglio progettato e sviluppato in modalità più organica e precisa". Inoltre, esso permette di sicuro "una rappresentazione grafica più omogenea, sicura e controllata ed agevola l’utente nell’utilizzo" (profilo, quest’ultimo, di particolare rilevanza).
Nei limiti in cui può ammettersi il sindacato giurisdizionale di detta valutazione, essa risulta del tutto immune da quei profili – incoerenza, illogicità, ecc. – che si sono più sopra citati quali indici sintomatici del non corretto esercizio del potere di valutazione tecnico-discrezionale.
Né va sottovalutato quanto acutamente osserva la difesa della controinteressata, secondo cui, in materia di prodotti informatici, l’anzianità del prodotto, in specie se si tratta di un software, è un difetto e non un pregio, atteso che è di comune esperienza la crescente velocità dei processi, attraverso i quali i suddetti prodotti divengono tecnologicamente obsoleti.
Sotto questo profilo, allora, le stesse affermazioni della ricorrente, in particolare quella secondo cui il software da essa offerto sarebbe stato elaborato nel 1989 e quindi ben 11 anni prima dell’epoca a cui risalgono i fatti di causa, integrano una vera e propria dichiarazione confessoria dell’inadeguatezza ed obsolescenza del prodotto stesso: ciò che costituisce ulteriore indizio della validità ed attendibilità della relazione contestata.
Quanto, infine, al punto e), riguardante l’effettuazione della valutazione tecnica da parte di uno solo dei due membri della Commissione designati quali "esperti", appare sufficiente rilevare in contrario che, poiché l’intera Commissione di gara ha richiamato e fatto propria, nel verbale del 16 febbraio 2000, la relazione del Responsabile del C.E.D., ne deriva che detta relazione è stata condivisa, proprio nel suo contenuto tecnico, anche dall’altro "esperto" della Commissione (oltre che dai restanti componenti di questa).
Debbono, infine, essere dichiarate inammissibili, quali censure nuove, sollevate per la prima volta nella memoria finale, le doglianze concernenti:
- l’essere il Responsabile del C.E.D. del Comune un imprenditore del settore;
- il non avere il Presidente della Commissione contribuito in alcuna maniera alla valutazione delle offerte;
- il fatto che il collegio avrebbe dovuto essere costituito da un numero dispari di componenti, ciò che nella fattispecie non sarebbe avvenuto.
In definitiva, il ricorso è nel suo complesso infondato e, come tale, va respinto.
Va poi dichiarata inammissibile la domanda di risarcimento dei danni formulata dalla ricorrente, essendo l’azione risarcitoria ammissibile soltanto purché venga coltivato con successo il giudizio di annullamento del provvedimento illegittimo, impugnato tempestivamente (C.d.S., A.P., 26 marzo 2003, n. 4).
Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia, sede di Milano, III^ Sezione, così definitivamente pronunciando sul ricorso indicato in epigrafe, lo respinge.
Dichiara inammissibile la domanda di risarcimento dei danni.
Condanna la ricorrente al pagamento delle spese ed onorari di causa, che liquida, in favore delle parti resistenti, in misura forfettaria in complessivi € 5.000,00 (€ cinquemila/00), più I.V.A. e C.P.A. come per legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Milano, dal T.A.R. per la Lombardia, Sezione III^, nella Camera di Consiglio del 22 maggio 2008, con l’intervento dei signori magistrati:
Domenico Giordano Presidente
Pietro De Berardinis Ref., estensore
Raffaello Gisondi Referendario
Depositata in Segreteria in data 19 novembre 2008.