martedì 16 novembre 2010

Corte di Giustizia, sez. III, 30 settembre 2010, proc. C-314/09

SENTENZA DELLA CORTE (Terza Sezione) 30 settembre 2010 (*)
«Direttiva 89/665/CEE – Appalti pubblici – Procedure di ricorso – Ricorso per risarcimento danni – Aggiudicazione illegittima – Norma nazionale sulla responsabilità fondata su una presunzione di colpevolezza dell’amministrazione aggiudicatrice»
Nel procedimento C-314/09,
avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte, ai sensi dell’art. 234 CE, dall’Oberster Gerichtshof (Austria), con decisione 2 luglio 2009, pervenuta in cancelleria il 7 agosto 2009, nella causa Stadt Graz
contro

Strabag AG,
Teerag-Asdag AG,
Bauunternehmung Granit GesmbH,
con l’intervento di:
Land Steiermark,

LA CORTE (Terza Sezione),
composta dal sig. K. Lenaerts (relatore), presidente di sezione, e dai sigg. E. Juhász, G. Arestis, T. von Danwitz e D. Šváby, giudici,
avvocato generale: sig.ra V. Trstenjak
cancelliere: sig. K. Malacek, amministratore
vista la fase scritta del procedimento e in seguito all’udienza del 24 giugno 2010,
considerate le osservazioni presentate:
  • per la Stadt Graz, dall’avv. K. Kocher, Rechtsanwalt;
  • per la Strabag AG, la Teerag-Asdag AG e la Bauunternehmung Granit GesmbH, dall’avv. W. Mecenovic, Rechtsanwalt;
  • per il Land Steiermark, dall’avv. A.R. Lerchbaumer, Rechtsanwalt;
  • per il governo austriaco, dal sig. M. Fruhmann, in qualità di agente;
  • per la Commissione europea, dai sigg. B. Schima e C. Zadra, in qualità di agenti,


    vista la decisione, adottata dopo aver sentito l’avvocato generale, di giudicare la causa senza conclusioni
    ha pronunciato la seguente

Sentenza

1 La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione degli artt. 1, n. 1, e 2, nn. 1, lett. c), e 7, della direttiva del Consiglio 21 dicembre 1989, 89/665/CEE, che coordina le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all’applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori (GU L 395, pag. 33), come modificata dalla direttiva del Consiglio 18 giugno 1992, 92/50/CEE (GU L 209, pag. 1; in prosieguo: la «direttiva 89/665»).

2 Tale domanda è stata proposta nell’ambito di una controversia insorta tra la Stadt Graz [Comune di Graz (Austria)], da un lato, e la Strabag AG, la Teerag-Asdag AG e la Bauunternehmung Granit GesmbH (in prosieguo, congiuntamente: le «società Strabag e a.»), dall’altro, a seguito dell’affidamento illegittimo di un appalto pubblico da parte del comune suddetto.

Contesto normativo
Il diritto dell’Unione

3 I ‘considerando’ terzo e sesto della direttiva 89/665 enunciano quanto segue:
«(...) l’apertura degli appalti pubblici alla concorrenza comunitaria rende necessario un aumento notevole delle garanzie di trasparenza e di non discriminazione e (...) occorre, affinché essa sia seguita da effetti concreti, che esistano mezzi di ricorso efficaci e rapidi in caso di violazione del diritto comunitario in materia di appalti pubblici o delle norme nazionali che recepiscono tale diritto;
(...)

(...) considerando la necessità di garantire in tutti gli Stati membri procedure adeguate che permettano l’annullamento delle decisioni illegittime e l’indennizzo delle persone lese da una violazione».

4 La direttiva suddetta dispone, all’art. 1, n. 1, quanto segue:

«Gli Stati membri prendono i provvedimenti necessari per garantire che, per quanto riguarda le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici disciplinati dalle direttive 71/305/CEE, 77/62/CEE e 92/50/CEE, le decisioni prese dalle amministrazioni aggiudicatrici possano essere oggetto di ricorsi efficaci e, in particolare, quanto più rapidi possibile, secondo le condizioni previste negli articoli seguenti, in particolare nell’articolo 2, paragrafo 7, qualora violino il diritto comunitario in materia di appalti pubblici o le norme nazionali che lo recepiscono».

5 L’art. 2, nn. 1 e 5-7, della direttiva 89/665 così dispone:

«1. Gli Stati membri fanno sì che i provvedimenti presi ai fini dei ricorsi di cui all’articolo 1 prevedano i poteri che permettano di:

a) prendere con la massima sollecitudine e con procedura d’urgenza provvedimenti provvisori intesi a riparare la violazione o impedire che altri danni siano causati agli interessi coinvolti, compresi i provvedimenti intesi a sospendere o a far sospendere la procedura di aggiudicazione pubblica di un appalto o l’esecuzione di qualsiasi decisione presa dalle autorità aggiudicatrici;

b) annullare o far annullare le decisioni illegittime, compresa la soppressione delle specificazioni tecniche, economiche o finanziarie discriminatorie figuranti nei documenti di gara, nei capitolati d’oneri o in ogni altro documento connesso con la procedura di aggiudicazione dell’appalto in questione;

c) accordare un risarcimento danni alle persone lese dalla violazione.

(...)

5. Gli Stati membri possono prevedere che, se un risarcimento danni viene domandato a causa di una decisione presa illegalmente, per prima cosa [la decisione contestata debba essere annullata da un organo avente la competenza necessaria a tal fine].

6. Gli effetti dell’esercizio dei poteri di cui al paragrafo 1 sul contratto stipulato in seguito all’aggiudicazione dell’appalto sono determinati dal diritto nazionale.

Inoltre, salvo nel caso in cui una decisione debba essere annullata prima della concessione di un risarcimento danni, uno Stato membro può prevedere che, dopo la stipulazione di un contratto in seguito all’aggiudicazione dell’appalto, i poteri dell’organo responsabile delle procedure di ricorso si limitino alla concessione di un risarcimento danni a qualsiasi persona lesa da una violazione.

7. Gli Stati membri fanno sì che le decisioni prese dagli organi responsabili delle procedure di ricorso possano essere attuate in maniera efficace».


Il diritto nazionale

6 Il diritto dell’Unione in materia di appalti pubblici è stato trasposto, nel Land Stiria, dalla legge del 1998 disciplinante l’affidamento degli appalti pubblici (Steiermärkisches Vergabegesetz 1998; in prosieguo: il «StVergG»).

7 L’art. 115, n. 1, del StVergG dispone quanto segue:

«In caso di violazione colpevole della presente legge o dei regolamenti per la sua applicazione, perpetrata da organi del soggetto preposto alla procedura di affidamento, il candidato od offerente pretermesso ha, nei confronti dell’amministrazione appaltante cui è imputabile il comportamento di tali organi, un diritto al risarcimento delle spese connesse alla presentazione dell’offerta e di quelle derivanti dalla partecipazione alla procedura di aggiudicazione. Le domande di risarcimento, incluse quelle relative all’eventuale mancato guadagno, devono essere proposte mediante ricorso dinanzi ai giudici ordinari».

8 L’art. 1298 del codice civile austriaco (Allgemeines Bürgerliches Gesetzbuch; in prosieguo: l’«ABGB») così dispone:

«Colui che asserisce di essersi trovato, senza colpa, nell’impossibilità di adempiere all’obbligazione impostagli da un contratto o dalla legge, è tenuto a fornirne la prova. Qualora egli, in virtù di un accordo contrattuale, sia tenuto a rispondere soltanto in caso di colpa grave, è tenuto altresì a dimostrare l’insussistenza di tale presupposto».

9 L’art. 1299 dell’ABGB stabilisce quanto segue:

«Colui che esercita pubblicamente un ufficio, un’arte, una professione o un mestiere, o che volontariamente e senza necessità si incarica della gestione di un affare la cui realizzazione richieda conoscenze specifiche o una diligenza non comune, fa mostra di reputarsi in possesso della diligenza necessaria e delle conoscenze non comuni richieste; pertanto, è tenuto a rispondere dell’eventuale mancanza delle stesse. Tuttavia, se la sua mancanza di esperienza era nota a colui che gli ha affidato l’incarico o costui avrebbe potuto venirne a conoscenza usando la normale attenzione, anche quest’ultimo incorre in una colpa che può essergli imputata».

I fatti all’origine della causa principale e le questioni pregiudiziali

10 Nel 1998 la Stadt Graz ha indetto una gara d’appalto con procedura aperta a livello dell’Unione europea per la produzione e la fornitura di conglomerato bituminoso a caldo, in conformità delle disposizioni del StVergG. Il bando di gara, pubblicato nella Gazzetta ufficiale delle Comunità europee e nella Grazer Zeitung, indicava come luogo di esecuzione della prestazione «Graz, Austria» e prevedeva, in una rubrica intitolata «Descrizione sommaria (natura delle prestazioni, caratteristiche generali, scopo dell’opera o della prestazione edilizia)», la fornitura di conglomerato bituminoso a caldo nel corso dell’anno 1999. Il bando precisava inoltre, nella rubrica «Termini per l’esecuzione della prestazione», le seguenti date: «Inizio: 1° marzo 1999; fine: 20 dicembre 1999».

11 Sono state depositate quattordici offerte. La migliore è risultata quella presentata dall’impresa di costruzioni Held & Franck Bau GmbH (in prosieguo: la «HFB»). Secondo le indicazioni contenute nella domanda di pronuncia pregiudiziale, se tale impresa fosse stata esclusa, avrebbe dovuto essere accolta l’offerta congiunta delle società Strabag e a.

12 La HFB aveva accluso alla propria offerta una lettera in cui comunicava, «a titolo integrativo», che il suo nuovo impianto per la miscelazione dell’asfalto, che doveva essere costruito nelle settimane successive nel territorio del Comune di Großwilfersdorf, sarebbe divenuto operativo a partire dal 17 maggio 1999. Le società Strabag e a. ignoravano l’esistenza di tale lettera.

13 In data 5 maggio 1999 le società Strabag e a. hanno proposto dinanzi al Vergabekontrollsenat des Landes Steiermark (Commissione di controllo sugli appalti pubblici del Land Stiria) un ricorso nel quale hanno fatto valere che la HFB non disponeva, nel Land Stiria, di impianti per la fabbricazione di conglomerato bituminoso a caldo, ciò che metteva l’impresa suddetta nell’impossibilità tecnica di eseguire l’appalto in questione. Pertanto, a loro avviso, l’offerta di tale impresa doveva essere esclusa.

14 Le società Strabag e a. hanno parallelamente proposto una domanda di provvedimenti provvisori, la quale è stata accolta dal Vergabekontrollsenat des Landes Steiermark con ordinanza 10 maggio 1999, che ha vietato alla Stadt Graz di procedere all’aggiudicazione dell’appalto in attesa della decisione nel merito.

15 Con decisione in data 10 giugno 1999, il Vergabekontrollsenat des Landes Steiermark ha integralmente respinto il ricorso delle società Strabag e a. e, in particolare, le domande intese ad ottenere l’apertura di un procedimento di riesame e l’esclusione della HFB dalla gara. Esso ha ritenuto che tale impresa fosse titolare di un’autorizzazione all’esercizio dell’attività di asfaltatore e che la pretesa secondo cui l’impianto di miscelazione di conglomerato a caldo avrebbe dovuto essere già esistente al momento dell’apertura delle offerte fosse sproporzionata rispetto all’oggetto dell’appalto e contraria agli usi correnti del commercio.

16 Il 14 giugno 1999 la Stadt Graz ha aggiudicato l’appalto alla HFB.

17 Con decisione in data 9 ottobre 2002 il Verwaltungsgerichtshof, a seguito di un ricorso proposto dalle società Strabag e a., ha annullato la decisione del Vergabekontrollsenat des Landes Steiermark a motivo della difformità dell’offerta della HFB rispetto al bando di gara, in quanto, sebbene il periodo fissato per la fornitura della prestazione si estendesse dal 1° marzo al 20 dicembre 1999, l’impresa suddetta aveva potuto disporre del suo nuovo impianto di miscelazione dell’asfalto soltanto a partire dal 17 maggio 1999.

18 L’Unabhängiger Verwaltungssenat für die Steiermark (Consiglio amministrativo indipendente per il Land Stiria), il quale nel 2002 è subentrato nelle competenze prima esercitate dal Vergabekontrollsenat des Landes Steiermark, ha statuito, con decisione in data 23 aprile 2003, che, a causa di una violazione del StVergG, l’appalto non era stato legittimamente attribuito dalla Stadt Graz.

19 Le società Strabag e a. hanno proposto dinanzi ai giudici ordinari un’azione diretta ad ottenere la condanna della Stadt Graz al pagamento a loro favore della somma di EUR 300 000 a titolo di risarcimento danni. A sostegno della loro azione, esse hanno fatto valere che l’offerta della HFB avrebbe dovuto essere esclusa a motivo di un vizio insanabile e che di conseguenza avrebbe dovuto essere accolta la loro offerta. La Stadt Graz avrebbe agito colpevolmente astenendosi dal constatare l’incompatibilità dell’offerta della HFB con le clausole del bando di gara. La decisione del Vergabekontrollsenat des Landes Steiermark non sarebbe idonea ad esonerare da responsabilità la Stadt Graz, la quale avrebbe agito a proprio rischio.

20 La Stadt Graz ha fatto valere, per parte sua, che essa era vincolata dalla decisione del Vergabekontrollsenat des Landes Steiermark e che l’eventuale illegittimità di tale decisione era imputabile al Land Steiermark, cui andava ricondotto l’operato del Vergabekontrollsenat des Landes Steiermark. Per contro, gli organi del comune suddetto non avrebbero commesso alcuna azione colpevole.

21 Il giudice di prima istanza ha, con una sentenza interlocutoria, dichiarato fondata la domanda di risarcimento delle società Strabag e a., ritenendo che la Stadt Graz avesse agito colpevolmente, omettendo di verificare le offerte e aggiudicando l’appalto alla HFB, malgrado il vizio palesemente inficiante l’offerta di quest’ultima, in pendenza del termine consentito per l’impugnazione contro la decisione del Vergabekontrollsenat des Landes Steiermark.

22 Tale decisione è stata confermata in appello. Il giudice del gravame ha tuttavia dichiarato che la propria sentenza era impugnabile mediante ricorso per cassazione [«Revision»] ordinario, tenuto conto della mancanza di giurisprudenza dell’Oberster Gerichtshof in merito alla responsabilità dell’amministrazione aggiudicatrice per una condotta colpevole in una situazione caratterizzata, come nel caso di specie, dall’esistenza, alla data dell’aggiudicazione dell’appalto al miglior offerente, di una decisione del Vergabekontrollsenat des Landes Steiermark di convalida del comportamento tenuto dall’amministrazione stessa.

23 Il giudice d’appello ha ritenuto che, sebbene i giudici ordinari fossero vincolati dalla constatazione di illegittimità contenuta nella decisione 23 aprile 2003 dell’Unabhängiger Verwaltungssenat für die Steiermark e fosse stata accertata l’esistenza di un nesso di causalità tra il comportamento illegittimo della Stadt Graz e il danno subito dalle società Strabag e a., occorreva nondimeno esaminare la questione dell’esistenza di una colpevolezza in capo alla Stadt Graz, derivante dalla sua decisione di attribuire l’appalto alla HFB già in data 14 giugno 1999, senza tener conto del fatto, non preso in esame nella decisione 10 giugno 1999 del Vergabekontrollsenat des Landes Steiermark, che la lettera di accompagnamento all’offerta di tale impresa indicava che quest’ultima non era in grado di rispettare i termini per l’esecuzione dell’appalto in questione.

24 La Stadt Graz ha proposto, dinanzi all’Oberster Gerichtshof, un ricorso per cassazione avverso la sentenza pronunciata in grado di appello.

25 In primo luogo, il giudice del rinvio nutre dubbi quanto alla conformità dell’art. 115, n. 1, del StVergG alla direttiva 89/665. Riferendosi alle sentenze 14 ottobre 2004, causa C-275/03, Commissione/Portogallo, e 10 gennaio 2008, causa C-70/06, Commissione/Portogallo (Racc. pag. I-1), esso si chiede se debba ritenersi contrastante con tale direttiva qualsiasi normativa nazionale che, in un modo o nell’altro, subordini il diritto dell’offerente al risarcimento del danno all’esistenza di una colpevolezza in capo all’amministrazione aggiudicatrice, o se invece il contrasto sussista soltanto nel caso di una normativa nazionale che addossi sull’offerente suddetto l’onere della prova di tale colpevolezza.

26 Il giudice nazionale sottolinea, a questo proposito, che l’art. 1298 dell’ABGB opera un’inversione di tale onere della prova, in forza della quale la responsabilità dell’amministrazione aggiudicatrice per l’operato dei propri organi si presume. Inoltre, l’amministrazione non potrebbe eccepire la mancanza di proprie capacità individuali, dato che la sua responsabilità corrisponderebbe a quella di un soggetto esperto, ai sensi dell’art. 1299 dell’ABGB. Tuttavia, la Stadt Graz potrebbe validamente assolvere l’onere della prova che le incombe qualora essa fosse stata vincolata, in modo effettivo e pieno, all’osservanza della decisione formalmente definitiva emessa dal Vergabekontrollsenat des Landes Steiermark.

27 In secondo luogo, supponendo che la direttiva 89/665 non osti ad una normativa nazionale quale quella in questione nella causa principale, il giudice del rinvio – che, al pari del Verwaltungsgerichtshof e del giudice d’appello intervenuti nella presente controversia, nega che l’amministrazione aggiudicatrice sia vincolata da una decisione quale quella emessa il 10 giugno 1999 dal Vergabekontrollsenat des Landes Steiermark – si chiede se la tesi secondo cui l’amministrazione suddetta non sarebbe stata vincolata da una simile decisione e avrebbe potuto o addirittura dovuto attribuire l’appalto ad un altro offerente non si ponga in contrasto con l’obiettivo, proclamato all’art. 2, n. 7, della citata direttiva, dell’efficace esecuzione delle decisioni adottate dagli organi responsabili delle procedure di ricorso.

28 In terzo luogo, supponendo che tale secondo interrogativo meriti risposta affermativa, il giudice del rinvio rileva come le società Strabag e a. nonché il giudice di appello censurino la Stadt Graz in quanto questa avrebbe attribuito l’appalto alla HFB senza tener conto del fatto – non preso in esame dal Vergabekontrollsenat des Landes Steiermark nella sua decisione del 10 giugno 1999 – che tale impresa non era in grado, secondo le sue stesse indicazioni, di eseguire l’appalto in questione entro il termine stabilito dal bando di gara. Sulla scorta di tali premesse, il giudice del rinvio si chiede, alla luce dell’art. 2, n. 7, della direttiva 89/665, se l’amministrazione aggiudicatrice, quand’anche fosse stata vincolata dalla decisione adottata da un organo quale il Vergabekontrollsenat des Landes Steiermark, avrebbe potuto o addirittura dovuto verificare comunque l’esattezza di tale decisione e/o il carattere esaustivo della valutazione sulla quale questa si fondava.

29 Sulla scorta di tali circostanze, l’Oberster Gerichtshof ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:

«1) Se gli artt. 1, n. 1, e 2, n. 1, lett. c), della direttiva (...) 89/665 (...), ovvero altre disposizioni di tale direttiva, ostino ad una disciplina nazionale in forza della quale il diritto al risarcimento del danno per violazioni della normativa comunitaria sugli appalti pubblici commesse dall’ente appaltante sia subordinato all’esistenza di un comportamento colpevole, anche nel caso in cui tale disciplina venga applicata nel senso di ritenere sussistente in linea di principio una presunzione di colpevolezza dell’ente appaltante per l’operato dei propri organi e di escludere la possibilità per l’ente suddetto di invocare la mancanza di proprie capacità individuali e dunque un difetto di imputabilità soggettiva.

2) In caso di soluzione negativa della prima questione, se l’art. 2, n. 7, della direttiva (...) 89/665 (...) debba essere interpretato nel senso che, in virtù dell’obbligo imposto da tale disposizione di garantire l’efficace attuazione delle decisioni adottate nelle procedure di ricorso, alla decisione di un’autorità di vigilanza sugli appalti pubblici va riconosciuta efficacia vincolante nei confronti di tutti i soggetti partecipanti al procedimento e, dunque, anche dell’ente appaltante.

3) In caso di soluzione affermativa della seconda questione, se, ai sensi dell’art. 2, n. 7, della direttiva (...) 89/665 (...), l’ente appaltante abbia la facoltà, o addirittura l’obbligo, di disattendere una decisione definitiva di un’autorità di vigilanza sugli appalti pubblici e, in caso affermativo, quali siano i relativi presupposti».

Sulle questioni pregiudiziali

Sulla prima questione

30 Con la sua prima questione, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se la direttiva 89/665 debba essere interpretata nel senso che essa osta ad una normativa nazionale, la quale subordini il diritto ad ottenere un risarcimento a motivo di una violazione della disciplina sugli appalti pubblici da parte di un’amministrazione aggiudicatrice al carattere colpevole di tale violazione, qualora l’applicazione della normativa in questione sia incentrata su una presunzione di colpevolezza in capo all’amministrazione suddetta, nonché sull’impossibilità per quest’ultima di far valere la mancanza di proprie capacità individuali e, dunque, un difetto di imputabilità soggettiva della violazione lamentata.

31 A questo proposito, occorre anzitutto rilevare che l’art. 1, n. 1, della direttiva 89/665 impone agli Stati membri di adottare le misure necessarie per garantire l’esistenza di procedure di ricorso efficaci e, in particolare, quanto più rapide possibile contro le decisioni delle amministrazioni aggiudicatrici che abbiano «violato» il diritto dell’Unione in materia di appalti pubblici o le norme nazionali di trasposizione di quest’ultimo. Il terzo
considerando’ della citata direttiva sottolinea, per parte sua, la necessità che esistano mezzi di ricorso efficaci e rapidi in caso di «violazione» del diritto o delle norme suddetti.

32 Per quanto riguarda, in particolare, il mezzo di ricorso inteso ad ottenere il risarcimento dei danni, l’art. 2, n. 1, lett. c), della direttiva 89/665 stabilisce che gli Stati membri fanno sì che i provvedimenti presi ai fini dei ricorsi di cui all’art. 1 della medesima direttiva prevedano i poteri che permettano di accordare tale risarcimento ai soggetti lesi da una violazione.

33 Tuttavia, la direttiva 89/665 stabilisce solamente i requisiti minimi che le procedure di ricorso istituite negli ordinamenti giuridici nazionali devono rispettare al fine di garantire l’osservanza delle prescrizioni del diritto dell’Unione in materia di appalti pubblici (v., in particolare, sentenze 27 febbraio 2003, causa C-327/00, Santex, Racc. pag. I-1877, punto 47, e 19 giugno 2003, causa C-315/01, GAT, Racc. pag. I-6351, punto 45). In mancanza di una disposizione specifica in merito, spetta quindi all’ordinamento giuridico interno di ogni Stato membro determinare le misure necessarie per garantire che le procedure di ricorso consentano effettivamente di accordare un risarcimento ai soggetti lesi da una violazione della normativa sugli appalti pubblici (v., per analogia, sentenza GAT, cit., punto 46).

34 Pertanto, se indubbiamente l’attuazione dell’art. 2, n. 1, lett. c), della direttiva 89/665 rientra, in linea di principio, nell’autonomia procedurale degli Stati membri, delimitata dai principi di equivalenza e di effettività, occorre nondimeno verificare se la norma suddetta, interpretata alla luce del contesto e dell’obiettivo generali nei quali si inscrive il mezzo di ricorso inteso al riconoscimento di un risarcimento, osti a che una disposizione nazionale quale quella in questione nella causa principale subordini, alle condizioni indicate al punto 30 della presente sentenza, la concessione di tale risarcimento al carattere colpevole della violazione della normativa sugli appalti pubblici commessa dall’amministrazione aggiudicatrice.

35 A questo proposito, è importante rilevare, anzitutto, che il tenore letterale degli artt. 1, n. 1, e 2, nn. 1, 5 e 6, nonché del sesto ‘considerando’ della direttiva 89/665 non indica in alcun modo che la violazione delle norme sugli appalti pubblici atta a far sorgere un diritto al risarcimento a favore del soggetto leso debba presentare caratteristiche particolari, quale quella di essere connessa ad una colpa, comprovata o presunta, dell’amministrazione aggiudicatrice, oppure quella di non ricadere sotto alcuna causa di esonero di responsabilità.

36 Tale analisi risulta corroborata dal contesto e dall’obiettivo generali del mezzo di ricorso inteso al riconoscimento di un risarcimento, previsto dalla direttiva 89/665.

37 Infatti, secondo una costante giurisprudenza, gli Stati membri, pur essendo tenuti a prevedere mezzi di ricorso che consentano di ottenere l’annullamento di una decisione dell’amministrazione aggiudicatrice contraria alla normativa sugli appalti pubblici, sono legittimati, in vista dell’obiettivo di celerità perseguito dalla direttiva 89/665, a prevedere per questo tipo di ricorsi termini ragionevoli da osservarsi a pena di decadenza, e ciò per evitare che i candidati e gli offerenti possano in qualsiasi momento allegare violazioni della normativa suddetta, obbligando così l’amministrazione aggiudicatrice a riprendere l’intera procedura al fine di rimediare a tali violazioni [v. in tal senso, in particolare, sentenze 12 dicembre 2002, causa C-470/99, Universale-Bau e a., Racc. pag. I-11617, punti 74-78; Santex, cit., punti 51 e 52; 11 ottobre 2007, causa C-241/06, Lämmerzahl, Racc. pag. I-8415, punti 50 e 51, nonché 28 gennaio 2010, causa C-406/08, Uniplex (UK), non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 38].

38 Inoltre, l’art. 2, n. 6, secondo comma, della direttiva 89/665 riconosce agli Stati membri la facoltà di prevedere che, dopo la conclusione del contratto successiva all’aggiudicazione dell’appalto, i poteri dell’organo responsabile delle procedure di ricorso siano limitati alla concessione di un risarcimento.

39 In tale contesto, il rimedio risarcitorio previsto dall’art. 2, n. 1, lett. c), della direttiva 89/665 può costituire, se del caso, un’alternativa procedurale compatibile con il principio di effettività, sotteso all’obiettivo di efficacia dei ricorsi perseguito dalla citata direttiva [v. in tal senso, in particolare, sentenza Uniplex (UK), cit., punto 40], soltanto a condizione che la possibilità di riconoscere un risarcimento in caso di violazione delle norme sugli appalti pubblici non sia subordinata – così come non lo sono gli altri mezzi di ricorso previsti dal citato art. 2, n. 1 – alla constatazione dell’esistenza di un comportamento colpevole tenuto dall’amministrazione aggiudicatrice.

40 Come rilevato dalla Commissione europea, poco importa al riguardo che, a differenza della normativa nazionale esaminata nella citata sentenza 14 ottobre 2004, Commissione/Portogallo, la disciplina in questione nel presente procedimento non faccia gravare sul soggetto leso l’onere della prova dell’esistenza di una colpa dell’amministrazione aggiudicatrice, bensì imponga a quest’ultima di vincere la presunzione di colpevolezza su di essa gravante, limitando i motivi invocabili a tal fine.

41 Infatti, quest’ultima normativa genera anch’essa il rischio che l’offerente pregiudicato da una decisione illegittima di un’amministrazione aggiudicatrice venga comunque privato del diritto di ottenere un risarcimento per il danno causato da tale decisione, nel caso in cui l’amministrazione suddetta riesca a vincere la presunzione di colpevolezza su di essa gravante. Orbene, secondo quanto risulta dalla presente domanda di pronuncia pregiudiziale, e così come confermato dalle discussioni svoltesi all’udienza, una simile eventualità non risulta esclusa nel caso di specie, tenuto conto della possibilità per la Stadt Graz di invocare il carattere scusabile dell’errore di diritto da essa asseritamente commesso, a motivo dell’intervento della decisione 10 giugno 1999 del Vergabekontrollsenat des Landes Steiermark, che ha rigettato il ricorso delle società Strabag e a.

42 Quanto meno, l’offerente suddetto corre il rischio, in virtù di questa stessa normativa, di ottenere un risarcimento soltanto tardivamente, considerata la lunghezza dei tempi che possono rendersi necessari per un procedimento civile inteso all’accertamento del carattere colpevole della violazione lamentata.

43 Orbene, nell’uno e nell’altro caso, la situazione sarebbe contraria all’obiettivo della direttiva 89/665, enunciato all’art. 1, n. 1, ed al terzo ‘considerando’ di quest’ultima, consistente nel garantire l’esistenza di mezzi di ricorso efficaci e quanto più rapidi possibile contro le decisioni prese dalle amministrazioni aggiudicatrici in violazione della normativa sugli appalti pubblici.

44 Va poi sottolineato che, anche supponendo che, nel presente caso, la Stadt Graz possa aver ritenuto, nel giugno 1999, di essere obbligata, in considerazione dell’obiettivo di efficacia inerente allo svolgimento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici, a dare immediatamente esecuzione alla decisione 10 giugno 1999 del Vergabekontrollsenat des Landes Steiermark, senza attendere la scadenza del termine previsto per l’impugnazione di tale decisione, resta il fatto che, come evidenziato dalla Commissione all’udienza, l’accertamento della fondatezza di una domanda di risarcimento proposta dall’offerente pretermesso a seguito dell’annullamento di tale decisione da parte di un giudice amministrativo non può, per parte sua, essere subordinato – in contrasto con il tenore, l’economia sistematica e la finalità delle disposizioni della direttiva 89/665 contemplanti il diritto ad ottenere tale risarcimento – ad una valutazione del carattere colpevole del comportamento dell’amministrazione aggiudicatrice chiamata in causa.

45 Tenuto conto delle considerazioni che precedono, occorre risolvere la prima questione dichiarando che la direttiva 89/665 deve essere interpretata nel senso che essa osta ad una normativa nazionale, la quale subordini il diritto ad ottenere un risarcimento a motivo di una violazione della disciplina sugli appalti pubblici da parte di un’amministrazione aggiudicatrice al carattere colpevole di tale violazione, anche nel caso in cui l’applicazione della normativa in questione sia incentrata su una presunzione di colpevolezza in capo all’amministrazione suddetta, nonché sull’impossibilità per quest’ultima di far valere la mancanza di proprie capacità individuali e, dunque, un difetto di imputabilità soggettiva della violazione lamentata.

Sulla seconda e sulla terza questione

46 Tenuto conto della risposta fornita alla prima questione, non è necessario risolvere le altre due questioni sollevate.

Sulle spese

47 Nei confronti delle parti nella causa principale il presente procedimento costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione.

Per questi motivi, la Corte (Terza Sezione) dichiara:

La direttiva del Consiglio 21 dicembre 1989, 89/665/CEE, che coordina le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all’applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori, come modificata dalla direttiva del Consiglio 18 giugno 1992, 92/50/CEE, deve essere interpretata nel senso che essa osta ad una normativa nazionale, la quale subordini il diritto ad ottenere un risarcimento a motivo di una violazione della disciplina sugli appalti pubblici da parte di un’amministrazione
aggiudicatrice al carattere colpevole di tale violazione, anche nel caso in cui l’applicazione della normativa in questione sia incentrata su una presunzione di colpevolezza in capo all’amministrazione suddetta, nonché sull’impossibilità per quest’ultima di far valere la mancanza di proprie capacità individuali e, dunque, un difetto di imputabilità soggettiva della violazione lamentata.

Corte Costituzionale, 8 ottobre 2010, n. 293

SENTENZA N. 293
ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici: Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’articolo 43 del decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità), promossi dal Tribunale amministrativo regionale della Campania con due ordinanze del 28 ottobre e con una ordinanza del 18 novembre 2008, rispettivamente iscritte ai nn. 114, 115 e 116 del registro ordinanze 2009 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 17, prima serie speciale, dell’anno 2009.
Visti gli atti di costituzione di N.D. ed altri, di M.R.P. ed altri e del Comune di Casapesenna ed altri nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 7 luglio 2010 il Giudice relatore Giuseppe Tesauro;
uditi gli avvocati Francesco Guerriero e Antonio Sasso per N.D. ed altri, Antonio Sasso per M.R.P. ed altri, Fabrizio Vittoria per il Comune di Casapesenna e l’avvocato dello Stato Maurizio Borgo per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto
1. – Il Tribunale amministrativo regionale per la Campania, con tre ordinanze di identico tenore, pronunciate in altrettanti giudizi, le prime due del 28 ottobre 2008 (r.o. n. 114 e n. 115 del 2009) e la terza del 18 novembre 2008 (r.o. n. 116 del 2009), ha sollevato, in riferimento agli articoli 3, 24, 42, 76, 97, 113 e 117, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 43 del decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità).
1.1.– Le prime due ordinanze (r.o. n. 114 e n. 115 del 2009), relative ad identiche fattispecie, espongono che i ricorrenti sono tutti proprietari di un fondo in Casapesenna, oggetto di procedura ablatoria, in ordine alla quale il medesimo TAR, con sentenze rispettivamente n. 73 e n. 74 del 2008, aveva annullato gli atti impugnati e condannato il Comune di Casapesenna a restituire il terreno, previo ripristino dello stato dei luoghi. Gli attori, con distinti ricorsi, poi riuniti dal TAR, hanno proposto ricorso per l’esecuzione del giudicato, chiedendo la restituzione del fondo, ed hanno impugnato la delibera del Consiglio comunale con la quale il Comune ha disposto, ex art. 43, comma 2, del citato d.P.R., l’acquisizione al patrimonio indisponibile delle aree in questione, corrispondendo una somma a titolo di risarcimento dei danni.
1.2.– I rimettenti premettono ancora, in fatto, che la vicenda era stata oggetto di una prima pronuncia dello stesso tribunale (sentenza 23 gennaio 2003, n. 387) con la quale era stato censurato l’operato dell’amministrazione in ragione del mancato compimento dell’iter previsto per la formazione della variante urbanistica, e per violazione del contraddittorio con i soggetti interessati. Nel procedimento di cui all’ordinanza r.o. n. 114 del 2009, con successive sentenze veniva poi annullata una nota del comune di diniego di restituzione del suolo occupato e disposta la restituzione dello stesso con ripristino dello stato dei luoghi (sentenza 5 giugno 2003, n. 7290), ed ancora veniva accolto il ricorso per l’esecuzione del relativo giudicato con nomina di un commissario ad acta. In seguito il Consiglio di Stato, con sentenza 3 maggio 2005, n. 2095, dichiarava che sull’amministrazione gravava l’obbligo di restituire l’area occupata.
Successivamente, con le già indicate sentenze del medesimo TAR (n. 73 e n. 74 del 2008), erano stati annullati per incompetenza gli atti inerenti alla procedura ex art. 43 del d.P.R. n. 327 del 2001, con condanna del comune alla restituzione del terreno previo ripristino dello stato dei luoghi. Infine, era intervenuto il provvedimento di acquisizione sanante ai sensi del citato art. 43.
1.3.– La terza ordinanza (r.o. n. 116 del 2009) espone, in fatto, che il ricorrente, proprietario di un fondo sito nel Comune di San Giuseppe Vesuviano (Napoli), ne aveva subito da parte di detto comune l’occupazione, senza alcun procedimento espropriativo.
Dopo alterne vicende in punto di giurisdizione, il Tribunale di Nola, ritenendo la propria giurisdizione, radicandola per la natura usurpativa dell’occupazione, aveva, infine, negato l’acquisto della proprietà in capo alla pubblica amministrazione.
In seguito, era stato adottato da parte del responsabile del Servizio lavori pubblici ed urbanistica ed Ufficio espropriazioni del Comune di San Giuseppe Vesuviano, il decreto n. prot. 2006 0020376, impugnato nel giudizio principale, con il quale veniva disposta l’acquisizione coattiva al patrimonio indisponibile comunale dell’area, prevedendo, altresì in favore del proprietario «oltre l’indennizzo, il risarcimento del danno nonchè il computo degli interessi moratori a decorrere dal giorno in cui il terreno sia stato occupato senza titolo».
In particolare, il ricorrente deduceva la violazione degli artt. 43 e 57, comma l, del d.P.R. n. 327 del 2001, lamentando l’inapplicabilità al caso di specie del procedimento ex art. 43 ed invocando l’applicazione del regime transitorio ex art. 57, comma 1, con obbligo di restituzione dell’immobile e risarcimento del danno ex art. 2043 del codice civile per l’illegittima, ulteriore occupazione.
1.4.– Ciò posto, i giudici a quibus ricordano che, in caso di annullamento giurisdizionale degli atti relativi alla procedura di espropriazione per pubblica utilità, il proprietario può chiedere – mediante il giudizio di ottemperanza – la restituzione del bene piuttosto che il risarcimento del danno per equivalente monetario, anche se l’area sia stata irreversibilmente trasformata in conseguenza dell’esecuzione dell’opera pubblica. Inoltre, l’unico rimedio per evitare la restituzione dell’area sarebbe l’emanazione di un provvedimento di acquisizione cosiddetto «sanante» ex art. 43 del d.P.R. n. 327 del 2001, in assenza del quale l’amministrazione non può addurre la intervenuta realizzazione dell’opera pubblica quale causa di impossibilità oggettiva e, quindi, come impedimento alla restituzione.
1.5. – Il TAR Campania, dopo aver ricordato la giurisprudenza di legittimità relativa alla cosiddetta occupazione «appropriativa», assume che tale ricostruzione sarebbe incompatibile con la disciplina normativa introdotta dal d.P.R. n. 327 del 2001 ed entrata in vigore il 30 giugno 2003, in quanto la disposizione oggi censurata subordina all’adozione di apposito provvedimento discrezionale il trasferimento di proprietà dei beni immobili utilizzati per scopi di interesse pubblico, a seguito di trasformazione, determinatasi in assenza del valido ed efficace provvedimento espropriativo o dichiarativo della pubblica utilità. Inoltre, non potrebbe ritenersi che l’art. 43 disponga solo per il futuro, trattandosi di disposizione, avente natura processuale riferita a tutti i casi di occupazione sine titulo, anche già sussistenti alla data di entrata in vigore del testo unico (a conforto, richiama: Cons. Stato, IV, 21 maggio 2007, n. 2582; A.P., 29 aprile 2005, n. 2; TAR. Emilia-Romagna, Bologna, I, 27 ottobre 2003, n. 2160).
1.6.– I rimettenti, quanto alla giurisdizione, ritengono di doversi conformare al consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui, in materia di procedimenti di espropriazione per pubblica utilità, sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie nelle quali si faccia questione, anche a fini risarcitori, di attività di occupazione e trasformazione di un bene conseguenti ad una dichiarazione di pubblica utilità e con essa congruenti, anche in presenza di atti poi dichiarati illegittimi.
1.7.– Ciò posto, con riferimento alla delibera di acquisizione delle aree, il Tribunale richiama la giurisprudenza secondo cui tale atto persegue una finalità di sanatoria di situazioni prive di procedure legittime di esproprio, senza che rilevi la causa della illegittimità del comportamento: sia essa conseguente all’assenza di una dichiarazione di pubblica utilità od all’annullamento di essa oppure determinata da altre cause, risultando in proposito rilevante il solo fatto che l’interesse pubblico non potrebbe essere soddisfatto se non con il mantenimento della situazione ablativa.
In punto di rilevanza i rimettenti assumono che, aderendo a tale orientamento, nella specie il ricorso in ottemperanza dovrebbe essere dichiarato improcedibile, in virtù dell’atto formale di acquisizione sanante, mentre il ricorso avverso la delibera consiliare dovrebbe essere rigettato, perché il provvedimento oggetto di impugnazione deve ritenersi conforme al modello astratto di cui al citato art. 43.
1.8.– Il Tribunale amministrativo campano dubita, tuttavia, della legittimità costituzionale di tale norma, per violazione degli artt. 3, 24, 42, 76, 97, 113 e 117, Cost..
In particolare, quanto agli artt. 3, 24, 42, 97 e 113 Cost., il Tribunale evidenzia come l’esercizio del potere autoritativo di acquisizione dell’area, attraverso l’adozione di un atto amministrativo, che consente di evitare la restituzione del bene e di sanare la pregressa illegalità, avrebbe assunto la natura di strumento «ordinario», attraverso il quale «si legalizza l’illegale», rimuovendo l’illecito aquiliano attraverso l’atto di acquisizione. In tal modo risulterebbe capovolta la garanzia costituzionale del diritto di proprietà di cui all’art. 42, Cost., nella misura in cui la norma «consente alla pubblica amministrazione, anche deliberatamente, […] di eludere gli obblighi procedimentali della instaurazione del contraddittorio, delle tre fasi progettuali e della verifica delle norme di conformità urbanistica», norme peraltro imposte non soltanto dall’autorità comunale, ma anche da quelle preposte alla tutela di ulteriori e distinti vincoli.
L’abuso di tale strumento imporrebbe, invece, una lettura restrittiva della disposizione, dal momento che ben difficilmente nella pratica sarebbe possibile immaginare ipotesi in cui l’Amministrazione non possa giustificare il proprio operato, con la necessità di perseguire uno scopo pubblico.
Per altro verso, a giudizio dei rimettenti, non si potrebbe prescindere dai principi costituzionali e dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 e del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952), (infra: anche CEDU o Convenzione europea), in base ai quali il diritto di proprietà potrebbe essere acquistato dall’Amministrazione soltanto attraverso l’emanazione di un formale provvedimento amministrativo.
Inoltre, si precisa, la questione di legittimità costituzionale viene appunto sollevata, prendendo atto che, di fatto, la sentenza che ha dichiarato l’illegittimità della procedura si pone come «una sorta di atto presupposto del procedimento che si perfeziona con l’atto di acquisizione», con conseguente «grave lesione del principio generale dell’intangibilità del giudicato amministrativo» […] sostanzialmente «vanificato da un atto amministrativo di acquisizione per utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico». Del resto, andrebbe pure considerato che l’acquisizione sanante ben potrebbe essere «reiterata all’infinito», divenendo non più uno strumento straordinario, ma ordinario, con conseguente «vanificazione dei principi di certezza giuridica e di tutela delle posizioni giuridiche».
In questo contesto, il Tribunale specifica di aver esperito inutilmente ogni tentativo di interpretazione adeguatrice, al fine attribuire alla norma un significato costituzionalmente corretto.
1.9.– Con riferimento, poi, all’art. 117, primo comma, Cost., il Tribunale, dopo aver richiamato la sentenza di questa Corte n. 349 del 2007, con riguardo al rapporto fra norma statale ed obblighi derivanti dalla CEDU, assume che la norma censurata non sarebbe conforme ai principi della Convenzione europea ed all’art. 6 (F) del Trattato di Maastricht (modificato dal Trattato di Amsterdam), in base al quale «l’Unione rispetta i diritti fondamentali quali sono garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, [...] in quanto principi generali del diritto comunitario». In questo senso deporrebbe la costante giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (20 aprile 2006; 15 novembre 2005; 17 maggio 2005), la quale avrebbe più volte affermato la non conformità all’art. 1, prot. 1, della Convenzione, della prassi sulla cosiddetta «espropriazione indiretta», secondo cui l’amministrazione diventerebbe proprietaria del bene in assenza di un atto ablatorio. 1.10.– Infine, i rimettenti censurano l’art. 43 anche con riferimento all’art. 76, Cost., in quanto l’art. 7, comma 2, lettera d) della legge-delega 8 marzo 1999, n. 50 (Delegificazione e testi unici di norme concernenti procedimenti amministrativi - Legge di semplificazione 1998) avrebbe delegato al Governo il mero «coordinamento formale del testo delle disposizioni vigenti, apportando, nei limiti di detto coordinamento, le modifiche necessarie per garantire la coerenza logica e sistematica della normativa anche al fine di adeguare e semplificare il linguaggio normativo». La norma in questione, invece, non troverebbe «riferimento o principi e criteri direttivi in norme preesistenti», non potendosi sostenere che l’acquisizione sanante fosse una modifica necessaria per garantire la coerenza logica e sistematica della normativa.
2.– Nel giudizio innanzi alla Corte si sono costituiti i ricorrenti dei giudizi principali (N.D. ed altri, quanto all’ordinanza r.o. n. 114 del 2009 e M.R.P. ed altri, quanto all’ordinanza r.o. n. 115 del 2009), con atti di identico tenore in diritto, chiedendo che la questione sia accolta.
2.1.– La difesa delle parti private, dopo aver ripercorso le motivazioni sottese all’ordinanza di rimessione, assume, in primo luogo, che l’atto acquisitivo previsto dalla disposizione impugnata, in quanto finalizzato a «sanare» un’attività posta in essere dalla pubblica amministrazione contra ius, determinando la perdita della proprietà, violerebbe gli artt. 3, 24, 42, 97 e 117, Cost., conducendo a «legalizzare» l’illegale, consentendo l’illecito aquiliano.
I ricorrenti, riportando peraltro ampi brani di sentenze della Corte di cassazione sul fenomeno dell’occupazione acquisitiva, ritengono che il censurato art. 43 si porrebbe al di fuori dei «canoni di legittimità costituzionale», dal momento che attribuisce alla pubblica amministrazione il potere di disporre l’acquisizione del bene, anche nell’ipotesi in cui non vi sia stata alcuna preventiva dichiarazione di pubblica utilità, o la medesima sia stata annullata o resa inefficace ex tunc.
In definitiva, la norma censurata determinerebbe uno squilibrato vantaggio per il soggetto pubblico, pregiudicando la certezza dei rapporti giuridici e sacrificando l’affidamento dei soggetti nella possibilità di far valere le proprie ragioni sulla base di condizioni normative «operanti nell’ordinamento vigente in un determinato periodo storico».
2.2.– Quanto alla violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., le parti assumono che la norma si porrebbe in conflitto «con i principi che sorreggono la Convenzione europea su diritti dell’uomo (CEDU), aventi diretta rilevanza nell’ordinamento interno, nonché con l’articolo 6 del Trattato di Maastricht, modificato dal Trattato di Amsterdam».
Tale contrasto sarebbe evidente, alla luce del costante orientamento della Corte Europea dei diritti dell’uomo in materia di espropriazione cosiddetta «indiretta».
In particolare, si ricordano alcune decisioni di quella Corte nelle quali è stato affermato che l’espropriazione indiretta tende a stabilizzare una situazione di fatto derivante dalle illegalità commesse dall’amministrazione e che, «sia in virtù di un principio giurisprudenziale o di un testo di legge come l’art. 43 del testo unico, l’espropriazione indiretta non dovrebbe costituire un mezzo alternativo all’«espropriazione operata in forma corretta».
I ricorrenti ricordano altresì, come «l’anomalia italiana» abbia formato oggetto anche di una risoluzione interinale, in data 14 febbraio 2007, da parte del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, con cui le Autorità nazionali sono state «incoraggiate» «... a proseguire i loro sforzi e ad adottare rapidamente tutte le misure necessarie addizionali al fine di rimediare in maniera definitiva alla pratica della “espropriazione indiretta”».
In tale contesto europeo, poi, le Autorità governative italiane avrebbero expressis verbis ammesso che la norma dettata dall’art. 43 t.u. in materia di espropriazione per pubblica utilità è ex se non coerente con i principi della Convenzione, tant’è che ne viene suggerita un’applicazione ed interpretazione «correttiva».
2.3.– Infine, le parti private, citando giurisprudenza di questa Corte, aderiscono alla censura formulata con riguardo all’art. 76, Cost., in quanto l’ipotesi dell’acquisizione, introdotta dall’art. 43 d.P.R. n. 327 del 2001, sarebbe «priva di addentellati con la vigente normativa», nel mentre il legislatore delegato non era stato autorizzato ad integrare o correggere le previsioni vigenti, ma semplicemente a riordinarle, attraverso un intervento di mero coordinamento.
3.– Nel giudizio relativo alle ordinanze r.o. n. 114 e n. 115 del 2009, si è costituito il Comune di Casapesenna, criticando le argomentazioni sottese ai provvedimenti del giudice a quo. In primo luogo, il Tribunale campano, affermando che l’istituto in questione «nelle intenzioni del legislatore doveva conservare una natura eccezionale», nel mentre avrebbe «assunto la natura di strumento ordinario», confonderebbe l’ipotetica applicazione «scorretta» della norma in questione, con la sua illegittimità costituzionale. Inoltre, non sarebbe neppure corretto affermare che l’art. 43 consentirebbe l’illecito aquiliano, in quanto, al contrario, la norma in questione avrebbe proprio escluso in radice che l’eventuale illecito aquiliano possa in sé determinare, come accadeva in passato, l’acquisto della proprietà da parte della pubblica amministrazione.
Il giudice a quo non coglierebbe nel segno neppure con riguardo alla pretesa elusione degli obblighi procedimentali, in quanto il provvedimento di acquisizione deve dare conto specificamente degli interessi in conflitto, compiendo un’esaustiva comparazione dei medesimi, attraverso una congrua motivazione della «sussistenza attuale di un interesse pubblico specifico e concreto». In questo senso, dunque, lo stringente obbligo di motivazione consente, proprio al giudice amministrativo, di valutarne la «logicità e ragionevolezza».
3.1.– Quanto, poi, al contrasto con la giurisprudenza di Strasburgo, il Comune di Casapesenna ritiene che, diversamente da quanto opinato dai rimettenti, gli arresti della CEDU non hanno avuto ad oggetto l’applicazione dell’art. 43 del d.P.R. n. 327 del 2001, ma la pratica dell’accessione invertita, della quale proprio l’art. 43 costituirebbe la soluzione legislativa.
3.2.– Infondata sarebbe pure la censura di violazione del giudicato amministrativo, in quanto la norma in esame non sarebbe in grado di mettere in discussione né l’annullamento degli atti preordinati all’esproprio, né il diritto al risarcimento del privato illegittimamente spossessato, limitandosi piuttosto a consentire alla pubblica amministrazione di optare per il risarcimento monetario, piuttosto che per quello in forma specifica. Anzi, il citato art. 43, piuttosto che ledere il precedente giudicato, ne garantirebbe una più piena esecuzione, in quanto limiterebbe a singoli casi ed alla ricorrenza di specifici presupposti la facoltà della pubblica amministrazione di optare per il risarcimento monetario, in luogo di quello in forma specifica.
3.3.– Da ultimo, con riferimento alla violazione dell’art. 76 Cost., si rileva che il t.u. sulle espropriazioni, in quanto volto al riordino normativo ed alla semplificazione delle norme procedurali ed organizzative, avrebbe natura innovativa e non meramente compilativa, potendo apportare, in sede di coordinamento delle disposizioni vigenti, «le modifiche necessarie per garantire la coerenza logica e sistematica della normativa».
4.– In tutti i giudizi promossi è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che, nei distinti atti, di contenuto sostanzialmente identico, ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile ed infondata.
4.1.– La difesa dello Stato eccepisce, in primo luogo, l’inammissibilità della questione per difetto di rilevanza, ricordando che questa Corte, nella sentenza n. 191 del 2006, ha espressamente escluso che la norma censurata abbia valore di norma processuale, sicchè i rimettenti avrebbero dovuto chiedersi se essa fosse o meno applicabile alla fattispecie concreta. Il tema dell’applicabilità dell’art. 43 del t.u. in materia di espropriazioni alle occupazioni sine titulo, perfezionatesi prima dell’entrata in vigore del d.P.R. n. 327 del 2001, rappresenterebbe, infatti, uno dei temi più dibattuti sia in dottrina che in giurisprudenza. Oltre all’orientamento richiamato dall’ordinanza di rimessione, infatti, sarebbe dato riscontrare, in senso contrario, in primo luogo quello della Corte di cassazione che, con le sentenze 22 settembre 2008, n. 23943 e 19 dicembre 2007, n. 26732, ne ha escluso l’applicabilità in considerazione del fatto che l’art. 57 del d.P.R. n. 327 del 2001, nel disciplinare l’applicabilità della nuova disciplina (e non soltanto delle norme di natura sostanziale), ha introdotto un criterio fondato esclusivamente sul dato temporale del primo atto del procedimento espropriativo, a prescindere dalle sue successive vicende e dai successivi provvedimenti che l’espropriante potesse emanare.
Inoltre, lo stesso Consiglio di Stato, con la sentenza 26 settembre 2008 n. 4660, avrebbe negato l’applicazione del citato art. 43 ad una fattispecie perfezionatasi, come quella in esame oggi, anteriormente all’entrata in vigore del t.u.
4.2.– La questione sarebbe, ancora, inammissibile perché i rimettenti non avrebbero sperimentato un’interpretazione costituzionale della norme censurata. Ciò in quanto il Tribunale muoverebbe da un’applicazione della disposizione da parte delle amministrazioni e da parte del diritto vivente, che a suo giudizio avrebbe condotto a risultati abnormi, quali quello relativo all’operatività dell’art. 43 in sede di ottemperanza, suscettibile di caducare l’accertamento del diritto alla restituzione del fondo e di travolgere la forza del giudicato.
Ad avviso dell’Avvocatura dello Stato, tuttavia, nulla avrebbe impedito ai giudici rimettenti di valutare alla stregua di un’interpretazione costituzionalmente orientata l’illegittimità dell’atto acquisitivo, nel corso del giudizio di ottemperanza, per le medesime ragioni che sono state poste a sostegno della questione di costituzionalità.
4.3. – Nel merito, la difesa dello Stato precisa in primo luogo che lo strumento della cosiddetta acquisizione sanante, lungi dall’essere uno strumento ordinario, si sostanzierebbe invece come una «legale via d’uscita» dalle situazioni di illegalità, verificatesi nel corso degli anni.
Quanto, poi, al rapporto con il giudicato relativo alla restituzione del fondo, si sottolinea che la disposizione in esame non costituisce, di per sé, uno strumento di elusione del giudicato, ma sarebbe semmai l’uso non funzionale della norma da parte dell’Amministrazione, che potrebbe determinare tale conseguenza. Sarebbe, quindi, compito del giudice amministrativo verificare con rigore quella comparazione di interessi sottesa al provvedimento, secondo i criteri della ragionevolezza e proporzionalità.
Il Presidente del Consiglio dei ministri evidenzia, poi, come nel caso di specie il giudice ben avrebbe potuto dichiarare, ai sensi dell’art. 21 septies della legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi), la nullità del provvedimento di acquisizione adottato dall’amministrazione comunale, per violazione del giudicato.
4.4.– In ordine alla questione relativa alla violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., per violazione della CEDU, l’Avvocatura dello Stato, nonostante i dubbi di legittimità costituzionale paventati da alcune decisioni della Corte di cassazione (sentenza n. 26732 del 2007, cit.), premette che la questione della compatibilità dell’art. 43 non sarebbe mai stata affrontata dalla Corte di Strasburgo. Ciò posto, il giudice rimettente avrebbe potuto, comunque praticare un’interpretazione conforme ai «canoni CEDU», prima ancora di sollevare la questione di legittimità costituzionale. Del resto la giurisprudenza amministrativa si sarebbe più volte espressa nel senso della piena compatibilità dell’art. 43 con le disposizioni CEDU, come interpretate dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.
4.5.– Infine, con riferimento al denunciato vizio di eccesso di delega, il Presidente del Consiglio dei ministri ricorda, ancora, la giurisprudenza del giudice amministrativo che avrebbe negato la sussistenza di tale vizio.
4.6.– Da ultimo l’Avvocatura dello Stato sottolinea come l’eventuale «caducazione» della norma impugnata avrebbe come inevitabile conseguenza il «ritorno in auge» degli istituti di creazione pretoria dell’occupazione «acquisitiva» ed «usurpativa», che esporrebbero lo Stato ad ulteriori e numerosissime condanne da parte della Corte di Strasburgo.
Considerato in diritto
1.– Le questioni sollevate dal Tribunale amministrativo regionale per la Campania, con tre distinte ordinanze di contenuto in larga misura coincidente (r.o. n. 114, n. 115 e n. 116 del 2009), riguardano l’articolo 43 del decreto del Presidente della Repubbica 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità), con il quale viene disciplinata la «Utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico».
1.1.– I giudizi hanno ad oggetto la stessa norma, censurata con riferimento agli stessi parametri, sotto gli stessi profili e in gran parte con le stesse argomentazioni; ponendo, pertanto, un’identica questione, vanno riuniti e decisi con un’unica pronuncia.
2.– La norma censurata ha ad oggetto la disciplina dell’utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico e consente all’autorità che abbia utilizzato a detti fini un bene immobile in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, di disporne l’acquisizione al suo patrimonio indisponibile, con l’obbligo di risarcire i danni al proprietario. La disposizione regola, inoltre, tempo e contenuto dell’atto di acquisizione, l’impugnazione del medesimo, la facoltà della pubblica amministrazione di chiedere che il giudice amministrativo «disponga la condanna al risarcimento del danno, con esclusione della restituzione del bene senza limiti di tempo», fissando i criteri per la quantificazione del risarcimento del danno.
Secondo il Tribunale rimettente, in punto di rilevanza, l’applicazione della disciplina di cui al citato art. 43 determinerebbe l’improcedibilità dei ricorsi in ottemperanza, in considerazione dell’atto formale di acquisizione sanante; nello stesso tempo, i ricorsi avverso la delibera di acquisizione dovrebbero essere rigettati, perché il provvedimento oggetto di impugnazione dovrebbe ritenersi conforme al modello astratto disegnato dall’intera disposizione, nonostante, in questo caso, fosse già intervenuta una pronuncia di restituzione (in particolare nei giudizi iscritti al r.o. n. 114 e n. 115 del 2009, a seguito dell’annullamento gli atti inerenti alla procedura ex art. 43).
La norma si porrebbe in contrasto anzitutto con gli articoli 3, 24, 42, 97 e 113 della Costituzione, in quanto essa consentirebbe, secondo l’interpretazione assunta come diritto vivente, la sanatoria di espropriazioni illegittime, a causa della mancanza della dichiarazione di pubblica utilità, dell’annullamento degli atti ovvero per altra causa. In tal modo, sarebbe prefigurato l’esercizio di un potere autoritativo di acquisizione dell’area che impedirebbe la restituzione del bene, rimuovendo l’illecito aquiliano anche a dispetto di un giudicato amministrativo, consentendo «alla pubblica amministrazione, anche deliberatamente, … di eludere gli obblighi procedimentali della instaurazione del contraddittorio, delle tre fasi progettuali e della verifica delle norme di conformità urbanistica» con «grave lesione del principio generale dell’intangibilità del giudicato amministrativo», sostanzialmente «vanificato da un atto amministrativo di acquisizione per utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico».
3.– Ad avviso del TAR, la norma impugnata si porrebbe, inoltre, in contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., in quanto non sarebbe conforme ai principi della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, come interpretati dalla Corte di Strasburgo, che ha ritenuto in contrasto con l’art. 1, prot. 1, la prassi della cosiddetta «espropriazione indiretta»; violando peraltro anche l’art. 6 (F) del Trattato di Maastricht (modificato dal Trattato di Amsterdam), in base al quale «l’Unione rispetta i diritti fondamentali quali sono garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, [...] in quanto principi generali del diritto comunitario».
4.– I rimettenti, infine, ritengono che il citato art. 43 impugnato recherebbe vulnus all’art. 76, Cost., in quanto sarebbe stato emanato in violazione dei criteri della legge-delega 8 marzo 1999, n. 50 (Delegificazione e testi unici di norme concernenti procedimenti amministrativi – Legge di semplificazione 1998).
5.– L’Avvocatura dello Stato ha eccepito l’inammissibilità delle questioni, per difetto di rilevanza nel giudizio a quo, in quanto questa Corte, la Corte di cassazione ed il Consiglio di Stato avrebbero escluso l’applicabilità del citato art. 43 alle occupazioni appropriative verificatesi prima del 30 giugno 2003, data di entrata in vigore del d.P.R. n. 327 del 2001.
5.1.– L’eccezione non è fondata. La questione dell’applicabilità della norma in esame non è stata risolta in modo univoco dalla giurisprudenza. La Corte di cassazione esclude, infatti, l’ammissibilità dell’adozione di un provvedimento di acquisizione sanante ex art. 43 con riguardo alle occupazioni appropriative verificatesi prima dell’entrata in vigore del d.P.R. n. 327 del 2001 (sentenze 22 settembre 2008, n. 23943, 28 luglio 2008 n. 20543, 19 dicembre 2007, n. 26732). Diversamente, nella giurisprudenza del Consiglio di Stato è ormai prevalente il principio secondo cui «la procedura di acquisizione in sanatoria di un’area occupata sine titulo, descritta dal citato articolo 43, trova una generale applicazione anche con riguardo alle occupazioni attuate prima dell’entrata in vigore della norma» (Cons. Stato, Sez. IV, 26 marzo 2010, n. 1762, Sez. IV, 8 giugno 2009, n. 3509, inoltre: Ad. Plen. 29 aprile 2005, n. 2; Sez. IV, 16 novembre 2007, n. 5830, esaminata senza rilievi sulla giurisdizione da Cass., SS.UU., 16 aprile 2009, n. 9001).
In presenza di tale contrasto, le ordinanze di rimessione hanno motivato in maniera non implausibile in ordine all’applicabilità della norma, richiamando la giurisprudenza assolutamente prevalente ed il «diritto vivente» del Consiglio di Stato.
6.– Nel merito, vanno esaminate in via preliminare le censure riferite all’art. 76, della Costituzione. Spetta, infatti, a questa Corte «valutare il complesso delle eccezioni e delle questioni costituenti il thema decidendum devoluto al suo esame» e «stabilire, anche per economia di giudizio, l’ordine con cui affrontarle nella sentenza e dichiarare assorbite le altre» (da ultimo, sentenze n. 181 del 2010 e n. 262 del 2009), quando si è in presenza di «questioni tra loro autonome per l’insussistenza di un nesso di pregiudizialità» (sentenza n. 262 del 2009).
Nella specie, è palese la pregiudizialità logico-giuridica delle censure riferite all’art. 76 Cost., giacchè esse investono il corretto esercizio della funzione legislativa e, quindi, la loro eventuale fondatezza eliderebbe in radice ogni questione in ordine al contenuto precettivo della norma in esame.
6.1.– I rimettenti denunciano la violazione dell’art. 76 Cost., deducendo che l’art. 43 non troverebbe «riferimento o principi e criteri direttivi in norme preesistenti», in quanto la legge-delega n. 50 del 1999 prevedeva il mero coordinamento formale del testo delle disposizioni vigenti, e consentiva, nei limiti di tale coordinamento, le sole modifiche necessarie per garantire la coerenza logica e sistematica della normativa, anche al fine di adeguare e semplificare il linguaggio.
7.– La questione è fondata.
8.– La norma impugnata disciplina l’istituto cosiddetto della «acquisizione sanante». In particolare essa dispone, fra l’altro, al comma 1, che, «valutati gli interessi in conflitto, l’autorità che utilizza un bene immobile per scopi di interesse pubblico, modificato in assenza del valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, può disporre che esso vada acquisito al suo patrimonio indisponibile e che al proprietario vadano risarciti i danni». Viene, poi, precisato, al comma 2, che l’atto di acquisizione «...a) può essere emanato anche quando sia stato annullato l’atto da cui sia sorto il vincolo preordinato all’esproprio, l’atto che abbia dichiarato la pubblica utilità di un’opera o il decreto di esproprio;».
Si tratta, dunque, della possibilità di acquisire alla mano pubblica un bene privato, in precedenza occupato e modificato per la realizzazione di un’opera di interesse pubblico, anche nel caso in cui l’efficacia della dichiarazione di pubblica utilità sia venuta meno, con effetto retroattivo, in conseguenza del suo annullamento o per altra causa, o anche in difetto assoluto di siffatta dichiarazione («assenza del valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità»).
8.1.– La norma censurata è contenuta nel testo unico, in materia di espropriazioni, redatto in attuazione della legge n. 50 del 1999, a sua volta collegata alla legge 15 marzo 1997 n. 59 (Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della Pubblica Amministrazione e per la semplificazione amministrativa), che aveva previsto un generale strumento permanente di semplificazione e di delegificazione.
In particolare, la delega riguardava il «riordino» delle norme elencate nell’allegato I alla legge n. 59 del 1997 (nel testo risultante a seguito dell’art. 1, legge 24 novembre 2000, n. 340 – Disposizioni per la delegificazione di norme e per la semplificazione di procedimenti amministrativi – Legge di semplificazione 1999), che contemplava, quale oggetto, il «procedimento di espropriazione per causa di pubblica utilità e altre procedure connesse: legge 25 giugno 1865, n. 2359; legge 22 ottobre 1971, n. 865».
8.2.– Il chiaro tenore delle norme richiamate rende palese che la delega oggetto delle medesime concerneva esplicitamente il tessuto normativo costituito dalle leggi n. 2359 del 1865 e n. 865 del 1971.
Il sistema dell’espropriazione per pubblica utilità risultante da dette leggi era articolato, in sintesi, in un procedimento che presupponeva il provvedimento dichiarativo della pubblica utilità dell’opera e la fissazione di termini, con la connessa disciplina dei casi di indifferibilità ed urgenza. In seguito, la legge n. 865 del 1971 aveva previsto la concentrazione del procedimento in un’unica fase, ricollegando la dichiarazione di pubblica utilità, unitamente alla dichiarazione di indifferibilità ed urgenza delle opere pubbliche, all’approvazione dei progetti delle opere da parte degli organi competenti.
Successivamente, ed in presenza di una nutrita serie di patologie dei procedimenti amministrativi di espropriazione, consistenti nell’accertamento dell’occupazione sine titulo da parte della pubblica amministrazione, la giurisprudenza di legittimità aveva elaborato gli istituti dell’occupazione «appropriativa» ed «usurpativa».
In sintesi, la prima era caratterizzata da una anomalia del procedimento espropriativo, a causa della sua mancata conclusione con un formale atto ablativo, mentre la seconda era collegata alla trasformazione del fondo di proprietà privata, in assenza di dichiarazione di pubblica utilità. Nel primo caso (il cui leading case si rinviene nella sentenza delle Sezioni Unite 26 febbraio 1983, n. 1464), l’acquisto della proprietà conseguiva ad un’inversione della fattispecie civilistica dell’accessione di cui agli artt. 935 ss. cod. civ., in considerazione della trasformazione irreversibile del fondo. Secondo questa ricostruzione, la destinazione irreversibile del suolo privato illegittimamente occupato comportava l’acquisto a titolo originario, da parte dell’ente pubblico, della proprietà del suolo e la contestuale estinzione del diritto di proprietà del privato. La successiva sentenza delle Sezioni Unite 10 giugno 1988, n. 3940, precisò poi la figura della «occupazione acquisitiva», limitandola al caso in cui si riscontrasse una valida dichiarazione di pubblica utilità che permetteva di far prevalere l’interesse pubblico su quello privato.
L’«occupazione usurpativa», invece, non accompagnata da dichiarazione di pubblica utilità, ab initio o per effetto dell’intervenuto annullamento del relativo atto o per scadenza dei relativi termini, in quanto tale non determinava dunque l’effetto acquisitivo a favore della pubblica amministrazione.
8.3.– E’ questo, in sostanza, il contesto normativo in cui è stato inserito il citato art. 43, comprensivo anche dei ricordati istituti di origine giurisprudenziale, i quali hanno nel tempo disciplinato la materia.
Nella redazione del testo unico il legislatore delegato era tenuto ad osservare i seguenti principi e criteri direttivi, contenuti nell’art. 7, comma 2, della citata legge n. 50: la puntuale individuazione del testo vigente delle norme (lettera b dell’art. 7 cit.); l’indicazione delle norme abrogate, anche implicitamente, da successive disposizioni (lettera c); il coordinamento «formale» del testo delle disposizioni vigenti, apportando, nei limiti di detto coordinamento, le modifiche necessarie per garantire la coerenza logica e sistematica della normativa, anche al fine di adeguare e semplificare il linguaggio normativo (lettera d).
La legge-delega imponeva, poi, l’indicazione delle disposizioni, non inserite nel testo unico, che restavano comunque in vigore (lettera e) e l’esplicita abrogazione di tutte le rimanenti disposizioni, non richiamate, che regolavano la materia oggetto di delegificazione, con espressa indicazione delle stesse in apposito allegato al testo unico (lettera f).
8.4.– Occorre verificare, pertanto, se il legislatore delegato abbia osservato i suindicati principi e criteri direttivi.
Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, il sindacato di costituzionalità sulla delega legislativa si esplica attraverso un confronto tra gli esiti di due processi ermeneutici paralleli. Il primo riguarda le norme che determinano l’oggetto, i principi e i criteri direttivi indicati dalla delega, tenendo conto del complessivo contesto di norme in cui si collocano e si individuano le ragioni e le finalità poste a fondamento della legge di delegazione. Il secondo riguarda le norme poste dal legislatore delegato, da interpretarsi nel significato compatibile con i principi ed i criteri direttivi della delega (ex plurimis, sentenze n. 230 del 2010, n. 98 del 2008, n. 54 del 2007, n. 280 del 2004, n. 199 del 2003).
Pertanto, da un lato, deve farsi riferimento alla ratio della delega; dall’altro, occorre tenere conto della possibilità, insita nello strumento della delega, di introdurre norme che siano un coerente sviluppo dei principi fissati dal legislatore delegato; dall’altro ancora, sebbene rientri nella discrezionalità del legislatore delegato emanare norme che rappresentino un coerente sviluppo e, se del caso, anche un completamento delle scelte espresse dal legislatore (sentenza n. 199 del 2003; ordinanza n. 213 del 2005), è nondimeno necessario che detta discrezionalità sia esercitata nell’ambito dei limiti stabiliti dai principi e criteri direttivi.
Inoltre, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, qualora la delega abbia ad oggetto, come nella specie, la revisione, il riordino ed il riassetto di norme preesistenti, queste finalità giustificano un adeguamento della disciplina al nuovo quadro normativo complessivo, conseguito dal sovrapporsi, nel tempo, di disposizioni emanate in vista di situazioni ed assetti diversi. L’introduzione di soluzioni sostanzialmente innovative rispetto al sistema legislativo previgente è, tuttavia, ammissibile soltanto nel caso in cui siano stabiliti principi e criteri direttivi idonei a circoscrivere la discrezionalità del legislatore delegato (sentenza n. 170 del 2007 e n. 239 del 2003).
8.5.– Alla luce di questi principi, risulta chiara la fondatezza delle censure svolte dai giudici rimettenti.
La legge-delega aveva conferito, sul punto, al legislatore delegato il potere di provvedere soltanto ad un coordinamento «formale» relativo a disposizioni «vigenti». L’istituto previsto e disciplinato dalla norma impugnata, viceversa, è connotato da numerosi aspetti di novità, rispetto sia alla disciplina espropriativa oggetto delle disposizioni espressamente contemplate dalla legge-delega, sia agli istituti di matrice prevalentemente giurisprudenziale.
In primo luogo, non è dato ravvisare nelle leggi indicate nel citato allegato I, alla legge n. 59 del 1997, alcuna norma che potesse giustificare un intervento della pubblica amministrazione, in via di sanatoria, sulle procedure ablatorie previste.
Inoltre, neppure può farsi riferimento al contesto degli orientamenti giurisprudenziali sopra richiamati, in quanto più profili della cosiddetta «acquisizione sanante», così come disciplinata dalla norma censurata, eccedono con tutta evidenza dagli istituti della occupazione appropriativa e della occupazione usurpativa, così come delineati da quegli orientamenti.
Il citato art. 43, infatti, ha anzitutto assimilato le due figure, introducendo la possibilità per l’amministrazione e per chi utilizza il bene di chiedere al giudice amministrativo, in ogni caso e senza limiti di tempo, la condanna al risarcimento in luogo della restituzione. Peraltro, esso estende tale disciplina anche alle servitù, rispetto alle quali la giurisprudenza aveva escluso l’applicabilità della cosiddetta occupazione appropriativa, trattandosi di fattispecie non applicabile all’acquisto di un diritto reale in re aliena, in quanto difetta la non emendabile trasformazione del suolo in una componente essenziale dell’opera pubblica.
Infine, la norma censurata differisce il prodursi dell’effetto traslativo al momento dell’atto di acquisizione.
Si tratta di elementi di sicuro rilievo e qualificanti, i quali dimostrano che la norma in esame non solo è marcatamente innovativa rispetto al contesto normativo positivo di cui era consentito un mero riordino, ma neppure è coerente con quegli orientamenti di giurisprudenza che, in via interpretativa, erano riusciti a porre un certo rimedio ad alcune gravi patologie emerse nel corso dei procedimenti espropriativi. Siffatto carattere della norma impugnata trova conferma significativa nella circostanza che, secondo la giurisprudenza di legittimità, in materia di occupazione di urgenza, la sopravvenienza di un provvedimento amministrativo non poteva avere un’efficacia sanante retroattiva, determinata da scelte discrezionali dell’ente pubblico o dai suoi poteri autoritativi. Nel regime risultante dalla norma impugnata, invece, si prevede un generalizzato potere di sanatoria, attribuito alla stessa amministrazione che ha commesso l'illecito, a dispetto di un giudicato che dispone il ristoro in forma specifica del diritto di proprietà violato.
Il legislatore delegato, in definitiva, non poteva innovare del tutto ed al di fuori di ogni vincolo alla propria discrezionalità esplicitamente individuato dalla legge-delega. Questa Corte ha in proposito affermato, infatti, che, per quanta ampiezza possa riconoscersi al potere di riempimento del legislatore delegato, «il libero apprezzamento» del medesimo «non può mai assurgere a principio od a criterio direttivo, in quanto agli antipodi di una legislazione vincolata, quale è, per definizione, la legislazione su delega» (sentenze n. 340 del 2007 e n. 68 del 1991).
In contrario, non giova dedurre, come sostenuto dall’Avvocatura dello Stato, che il legislatore delegato abbia inteso tenere conto delle censure mosse dalla giurisprudenza di Strasburgo alla pratica delle espropriazioni «indirette».
Indipendentemente sia da ogni considerazione relativa al fatto che ciò non era contemplato nei principi e criteri direttivi di cui al più volte citato art. 7 della legge n. 50 del 1999, sia dal legittimo dubbio quanto alla idoneità della scelta realizzata con la norma di garantire il rispetto dei principi della CEDU, che in questa sede non è possibile sciogliere, quella prefigurata costituisce soltanto una delle molteplici soluzioni possibili. Il legislatore avrebbe potuto conseguire tale obiettivo e disciplinare in modi diversi la materia, ed anche espungere del tutto la possibilità di acquisto connesso esclusivamente a fatti occupatori, garantendo la restituzione del bene al privato, in analogia con altri ordinamenti europei. E neppure è mancato qualche rilievo in questo senso della Corte di Strasburgo, la quale, infatti, sia pure incidentalmente, ha precisato che l’espropriazione indiretta si pone in violazione del principio di legalità, perché non è in grado di assicurare un sufficiente grado di certezza e permette all’amministrazione di utilizzare a proprio vantaggio una situazione di fatto derivante da «azioni illegali», e ciò sia allorchè essa costituisca conseguenza di un’interpretazione giurisprudenziale, sia allorchè derivi da una legge – con espresso riferimento all’articolo 43 del t.u. qui censurato –, in quanto tale forma di espropriazione non può comunque costituire un’alternativa ad un’espropriazione adottata secondo «buona e debita forma» (Causa Sciarrotta ed altri c. Italia – Terza Sezione – sentenza 12 gennaio 2006 – ricorso n. 14793/02).
Anche considerando la giurisprudenza di Strasburgo, pertanto, non è affatto sicuro che la mera trasposizione in legge di un istituto, in astratto suscettibile di perpetuare le stesse negative conseguenze dell’espropriazione indiretta, sia sufficiente di per sé a risolvere il grave vulnus al principio di legalità.
Alla stregua dei rilievi svolti, va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’intero art. 43 del d.P.R. n. 327 del 2001, poiché la disciplina inerente all’acquisizione del diritto di servitù, di cui al comma 6 bis, appare strettamente ed inscindibilmente connessa con gli altri commi, sia per espresso rinvio alle norme fatte oggetto di censura, sia perché ne presuppone l’applicazione e ne disciplina ulteriori sviluppi applicativi (cfr. sentenza n. 18 del 2009).
9.– La pronuncia di illegittimità costituzionale con riferimento all’art. 76 Cost., determina l’assorbimento delle questioni poste con riferimento agli artt. 3, 24, 42, 97, 113 e 117, primo comma, Cost.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 43 del decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità).
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 4 ottobre 2010.
F.to:
Francesco AMIRANTE, Presidente
Giuseppe TESAURO, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria l'8 ottobre 2010.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: DI PAOLA