martedì 22 giugno 2010

Corte di Cassazione, SS.UU., 8 febbraio 2010, n. 2715

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CARBONE Vincenzo - Primo Presidente -
Dott. ELEFANTE Antonio - Presidente di Sezione -
Dott. D'ALONZO Michele - Consigliere -
Dott. SETTIMJ Giovanni - Consigliere -
Dott. GOLDONI Umberto - Consigliere -
Dott. SALME' Giuseppe - Consigliere -
Dott. NAPPI Aniello - Consigliere -
Dott. BUCCIANTE Ettore - Consigliere -
Dott. SPAGNA MUSSO Bruno - rel. Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso 5492-2009 proposto da: CLINICA CASTELLI S.P.A. ((OMISSIS)), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZALE CLODIO 1, presso lo studio dell'avvocato RIBAUDO SEBASTIANO, che la rappresenta e difende unitamente all'avvocato NOLA LUCILLA,
giusta delega a margine del ricorso;
- ricorrente -
contro
GESTIONE LIQUIDATORIA AZIENDA USSL (OMISSIS);
- intimata -
avverso la sentenza n. 1103/2008 della CORTE D'APPELLO di BRESCIA, depositata il 18/12/2008; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 24/11/2009 dal Consigliere Dott. ANGELO SPIRITO;
udito l'Avvocato Sebastiano RIBAUDO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CENICCOLA Raffaele, che ha concluso per l'accoglimento del ricorso.

FATTO
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
L'USL n. (OMISSIS) di Bergamo propose opposizione avverso il decreto con il quale le era stato ingiunto il pagamento in favore della Clinica Castelli s.p.a. di una somma di danaro costituente il corrispettivo di prestazioni sanitarie eseguite in favore della USL stessa.
Il Tribunale di Bergamo accolse l'opposizione e revocò il decreto ingiuntivo. La sentenza fu impugnata dalla sola Clinica Castelli e la Corte d'appello di Brescia, d'ufficio, ha dichiarato il proprio difetto di giurisdizione.
Propone ricorso per cassazione la Clinica Castelli attraverso due motivi. Non si difende la controparte nel giudizio di cassazione.
DIRITTO
MOTIVI DELLA DECISIONE
Nel primo motivo la ricorrente, facendo riferimento alla giurisprudenza formatasi in tema di giurisdizione a seguito di recenti arresti di queste sezioni unite, rappresenta che il primo giudice s'era implicitamente pronunciato sulla giurisdizione, decidendo nel merito, e contro questa affermazione di giurisdizione la USL non ha proposto appello. S'era, dunque, formato il giudicato sul punto e la Corte d'appello non poteva più pronunziare d'ufficio in punto di giurisdizione.
Il motivo è fondato.
Sin da Cass. sez. un. 9 ottobre 2008, n. 24883, risulta affermato che l'interpretazione dell'art. 37 c.p.c. (secondo cui il difetto di giurisdizione "è rilevato, anche d'ufficio, in qualunque stato e grado del processo") deve tenere conto dei principi di economia processuale e di ragionevole durata del processo (asse portante della nuova lettura della norma), della progressiva forte assimilazione delle questioni di giurisdizione a quelle di competenza e dell'affievolirsi dell'idea di giurisdizione intesa come espressione della sovranità statale, essendo essa un servizio reso alla collettività con effettività e tempestività, per la realizzazione del diritto della parte ad avere una valida decisione nel merito in tempi ragionevoli. All'esito di questa nuova interpretazione della predetta disposizione, volta a delinearne l'ambito applicativo in senso restrittivo e residuale, si è fatto conseguire che: 1) il difetto di giurisdizione può essere eccepito dalle parti anche dopo la scadenza del termine previsto dall'art. 38 cod. proc. civ. (non oltre la prima udienza di trattazione), fino a quando la causa non sia stata decisa nel merito in primo grado; 2) la sentenza di primo grado di merito può sempre essere impugnata per difetto di giurisdizione; 3) le sentenze di appello sono impugnabili per difetto di giurisdizione soltanto se sul punto non si sia formato il giudicato esplicito o implicito, operando la relativa preclusione anche per il giudice di legittimità; 4) il giudice può rilevare anche d'ufficio il difetto di giurisdizione fino a quando sul punto non si sia formato il giudicato esplicito o implicito.
In particolare, il giudicato implicito sulla giurisdizione può formarsi tutte le volte che la causa sia stata decisa nel merito, con esclusione per le sole decisioni che non contengano statuizioni che implicano l'affermazione della giurisdizione, come nel caso in cui l'unico tema dibattuto sia stato quello relativo all'ammissibilità della domanda o quando dalla motivazione della sentenza risulti che l'evidenza di una soluzione abbia assorbito ogni altra valutazione (ad es., per manifesta infondatezza della pretesa) ed abbia indotto il giudice a decidere il merito per saltum, non rispettando la progressione logica stabilita dal legislatore per la trattazione delle questioni di rito rispetto a quelle di merito.
Sicchè, in una fattispecie del tutto simile a quella ora in trattazione, risulta affermato il principio (che occorre qui ribadire) in ragione del quale, allorchè il giudice di primo grado abbia pronunciato nel merito, affermando, anche implicitamente, la propria giurisdizione e le parti abbiano prestato acquiescenza, non contestando la relativa sentenza sotto tale profilo, non è consentito al giudice della successiva fase impugnatoria rilevare d'ufficio il difetto di giurisdizione, trattandosi di questione ormai coperta dal giudicato implicito (Cass. 20 novembre 2008, n. 27531).
Nella specie, come s'è visto in precedenza, il primo giudice ha accolto l'opposizione della USL ed ha revocato il decreto ingiuntivo emesso in favore della Clinica, implicitamente pronunziandosi sulla propria giurisdizione. La Clinica soltanto ha impugnato la sentenza per ragioni di merito, senza alcun accenno alla giurisdizione. In conseguenza all'acquiescenza delle parti sul punto, la questione di giurisdizione è passata in giudicato e la Corte d'appello non poteva pronunziarsi d'ufficio (come è avvenuto) in ordine ad essa.
La sentenza impugnata deve essere, dunque, cassata ed il giudice del rinvio, adeguandosi al principio sopra enunciato, procederà alla valutazione del merito della causa.
Il secondo motivo, che discute in punto di giurisdizione, risulta assorbito a seguito dell'accoglimento del primo. Nulla per le spese del giudizio di cassazione stante la mancata costituzione della parte intimata.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo di ricorso, dichiara assorbito il secondo, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d'appello di Brescia, in diversa composizione. Nulla per le spese del giudizio di cassazione.
Così deciso in Roma, il 24 novembre 2009.
Depositato in Cancelleria il 8 febbraio 2010



mercoledì 16 giugno 2010

TAR Piemonte, Sez. II, 10 giugno 2010, n. 2750

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte
(Sezione Seconda)

ha pronunciato la presente

SENTENZA
Sul ricorso numero di registro generale 1263 del 2009, proposto da:
Fontaneto Autoservizi S.r.l., rappresentata e difesa dagli avv. Prof. Vittorio Barosio e Fabio Dell'Anna, con domicilio eletto presso l’avv. Prof. Vittorio Barosio in Torino, corso G. Ferraris, 120;
contro
Regione Piemonte, rappresentata e difesa dall'avv. Marco Piovano, con domicilio eletto presso il medesimo in Torino, piazza Castello, 165;
Provincia di Novara, rappresentata e difesa dall'avv. Mauro Renna, con domicilio eletto presso l’avv. Luigi Gili in Torino, via Vela, 29;
per l'accertamento
del diritto della Fontaneto Autoservizi s.r.l. di ricevere la somma di euro 4.780.949,31 - o quell'altra somma che sarà determinata in corso di causa - a titolo di "compensazione" (a norma dei Regolamenti C.E.E. n. 1191/1969 e n. 1893/1991) degli oneri economici da essa sostenuti negli esercizi dal 1999 a 2007 per l'adempimento degli obblighi di servizio pubblico imposti dalla Regione Piemonte e dalla Provincia di Novara, per effetto della sottoscrizione dei rispettivi "contratti di servizio" recanti la concessione del servizio di trasporto pubblico locale,
e per la conseguente condanna
della Regione Piemonte e della Provincia di Novara a corrispondere alla Fontaneto Autoservizi s.r.l. le somme sopra indicate, oltre ad interessi e rivalutazione monetaria,
previa dichiarazione di nullità
dell'art. 6 dei contratti stipulati inter partes per gli esercizi dal 1999 al 2007, e delle ulteriori clausole in essi contenute, nella parte in cui prevedono la corresponsione alla ricorrente, concessionaria del servizio di trasporto pubblico locale, di somme non sufficienti ad assicurare il rimborso integrale, calcolato nel modo previsto dal reg. CEE n. 1191/1969 (e, cioè, secondo criteri di effettività), degli oneri economici da essa sostenuti per l'adempimento degli obblighi di servizio pubblico,
previa disapplicazione
e/o annullamento (quanto agli atti regolamentari e amministrativi)
di ogni disposizione (di rango legislativo, regolamentare o amministrativo) che escluda il diritto della ricorrente di ricevere direttamente dalla Provincia di Novara e dalla Regione Piemonte il rimborso integrale, calcolato nel modo previsto dal reg. CEE n. 1191/1969 (e, cioè, secondo criteri di effettività), degli oneri economici da essa sostenuti per l'adempimento degli obblighi di servizio pubblico,
e previa idonea misura cautelare
nella forma dell'ingiunzione ex art. 21 comma 8 della legge n. 1034/1971
(come modificato dall'art. 3 comma 1 della legge n. 205/2000)
nei confronti della Regione Piemonte e della Provincia di Novara, in relazione alla suddetta somma di euro 4.780.949,31 o, in subordine, a titolo di "provvisionale", almeno in relazione alla somma di euro 674.756,20.

Visto il ricorso con i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio della Regione Piemonte e della Provincia di Novara;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 26 maggio 2010 il dott. Paolo Giovanni Nicolo' Lotti e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
Con il ricorso in oggetto, parte ricorrente espone di esercitare professionalmente l’attività di trasporto pubblico di persone su linee automobilistiche locali (urbane, extraurbane, regionali ed interregionali), in adempimento degli obblighi di servizio pubblico imposti ad essa dagli enti locali: fino al 1998, in virtù di appositi provvedimenti di concessione (e relativi disciplinari, conformi al modello di cui alla deliberazione della Giunta Regionale 25.11.1991, n. 317-10885) sottoscritti dalla Regione Piemonte e dalla Provincia di Novara; a decorrere dal 10.1.1999, a seguito del trasferimento delle relative competenze agli enti locali, per conto della stessa Provincia di Novara con oneri a carico della Regione Piemonte, in virtù di appositi “contratti di servizio” annuali, più volte prorogati.
Si espone che l’imposizione degli obblighi di servizio pubblico comporta svantaggi economici che sono evidentemente contrari all’interesse commerciale dell’impresa privata e di entità tale che questa non sarebbe in grado di sopportarli, non potendo essere integralmente remunerati dagli introiti derivanti dalle tariffe corrisposte dagli utenti, fissate dall’Amministrazione con criteri politici, inferiori al valore economico delle prestazioni; per evitare che ciò possa alterare il mercato, la normativa comunitaria (Regolamento C.E.E. n. 1191/1969 del Consiglio in data 26.6.1969, modificato dal Regolamento C.E.E. n. 1893/1991 del Consiglio in data 20.6.1991) e quella italiana (d. lgs. n. 422/1997, cd. Decreto Burlando) hanno previsto che gli oneri economici derivanti dall’adempimento dei suddetti obblighi di servizio pubblico siano integralmente rimborsati alle imprese di trasporto private dall’ente pubblico, per la parte non coperta dagli introiti tariffari con il meccanismo delle compensazioni economiche. Questo meccanismo è stato recepito espressamente dal legislatore italiano nazionale con il d. lgs. n. 422/1997 e dalla Regione Piemonte con la l. r. n. 1/2000.
Si espone ancora che il d. lgs. n. 422/1991 prevede a regime la stipulazione di “contratti di servizio” da aggiudicarsi a seguito di gara e previa istruttoria che individui l’assetto complessivo dei servizi di trasporto locali; in via provvisoria, nelle more dell’approvazione della legge regionale di attuazione del suddetto d. lgs. 422/1997, la Giunta Regionale del Piemonte ha emanato la deliberazione 16.11.1998, n. 74-25984, con la quale ha conferito alle Province e ai Comuni le funzioni amministrative e finanziarie riguardanti il trasporto pubblico locale, con specifico riferimento ai servizi automobilistici già “delegati” a tali Enti locali a norma della l. r. n. 1/1986; ha, inoltre, definito l’ammontare del Fondo regionale trasporti, attribuendo ai suddetti Enti locali le risorse economiche corrispondenti.
Si espone che l’applicazione delle disposizioni suddette era stata prorogata anche all’esercizio 2000 per effetto della deliberazione della Giunta Regionale del Piemontesi 3.12.1999, n. 35-28910 e, a seguito dell’emanazione della L.R. n 1/2000 (Norme in materia di trasporto pubblico locale in attuazione del d. lgs. 19 novembre 1997, n. 422 ), era stata sostanzialmente confermata per tutti gli esercizi successivi che qui rilevano, fino al 2007, per effetto delle deliberazioni della Giunta Regionale del Piemonte in data 1° marzo 2000, n. 98-29587, in data 1° agosto 2003, n. 78-10244 e in data 19 febbraio 2007, n. 8-5296. In applicazione delle disposizioni suddette, la Regione Piemonte ha predisposto un contratto-tipo, sulla cui base la Provincia di Novara e la ricorrente, a decorrere dal 1.1.1999, hanno sottoscritto ogni anno un contratto di servizio per la regolamentazione dell’affidamento del servizio di trasporto pubblico di persone; in altri casi è stata semplicemente sottoscritta una proroga del contratto già stipulato l’anno precedente.
Si espone che, a fronte dell’imposizione degli obblighi di servizio pubblico, il contratto prevedeva la corresponsione al concessionario di compensazioni economiche determinate con riferimento alla specifica situazione aziendale per quanto concerne sia i costi che i ricavi. Si assumeva come base di calcolo la contribuzione chilometrica, corrisposta dalla Regione Piemonte al concessionario negli esercizi 1997 e 1998, rappresentativa del costo derivante dagli obblighi di servizio in condizioni di efficienza media e dei ricavi ritraibili dall’esercizio delle linee oggetto del contratto.
Sono state esplicitamente escluse variazioni dell’importo delle compensazioni economiche anche qualora la situazione di fatto dovesse rivelarsi, per qualsiasi causa, diversa da quella ipotizzata nel “contratto”. Dall’Allegato 7 al medesimo “contratto di servizio” si evincerebbe che le suddette compensazioni economiche, in realtà, corrispondono alle contribuzioni aziendali per linea gia riconosciute dalla Regione Piemonte nel precedente regime disciplinato dalla legge n. 151/1981. Analoga precisazione si rinverrebbe anche nell’art. 5.2. del “contratto”, che definisce i corrispettivi dovuti al concessionario come “contributo chilometrico a titolo di compensazione degli obblighi di servizio.
Si espone, infine, che le clausole appena illustrate si ripetono, pressoché identiche, in tutti i contratti riguardanti gli esercizi successivi al 1999; con specifico riferimento ai corrispettivi economici dovuti al concessionario, in tutti i contratti successivi scompare il riferimento alla metodologia che ha condotto l’Amministrazione a quantificare concretamente il corrispettivo dovuto al concessionario, ma viene mantenuto il medesimo importo, cioè la contribuzione chilometrica prevista nel contratto base del 1999, a prescindere da qualsivoglia valutazione circa i costi e i ricavi effettivi e, in particolare, senza tenere conto dei notevoli incrementi subiti tra il 1999 e il 2007 dalle diverse componenti dei costi. L’Amministrazione ha sempre provveduto a liquidare i soli importi economici previsti nei (rispettivi) contratti di servizio, che rimborsano solo una parte dei costi effettivamente sostenuti per l’adempimento degli obblighi di servizio pubblico imposti e la ricorrente ha interesse a riscuotere le somme ad essa dovute, anche al fine di ristabilire i propri equilibri contabili e di recuperare competitività sul mercato.
Secondo parte ricorrente, i motivi di accoglimento si baserebbero sui seguenti argomenti:
- Applicabilità del Regolamento C.E.E. n. 1191/1969 del Consiglio del 26.6.1969 (nel testo modificato dal Regolamento C.E.E. n. 1893/1991 del Consiglio del 20.6.1991) e, in particolare, degli artt. 1-2-5-6-9-10-11-13-14-20, nonché dei principi espressi nel 1° - 2° - 11° - 12° - 14° - 15° “considerando” del Regolamento C.E.E. n. 1191/1969. Disapplicazione della disciplina interna (legislativa e regolamentare), nonché disapplicazione e/o invalidità degli atti amministrativi e delle clausole contrattuali per contrasto con le fonti comunitarie.
- Rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia C.E. a norma dell’art. 234 del Trattato C.E.
- In ordine al quantum delle somme dovute dall’Amministrazione, la ricorrente sottolinea che la prova scritta del proprio credito sarebbe pari, a € 4.780.949,31.
Si costituivano le Amministrazione intimate chiedendo il rigetto del ricorso.
Alla pubblica udienza del 26 maggio 2010, il ricorso veniva posto in decisione.
DIRITTO
Preliminarmente rileva il Collegio la propria competenza giurisdizionale, competenza cui necessariamente si perviene ponendo attenzione alla natura giuridica del contratto di servizio concluso tra ricorrente e Amministrazione e che è alla base della richiesta attorea.
Non ignora il Collegio che una parte della giurisprudenza amministrativa sostiene che appartenga alla giurisdizione del giudice ordinario la controversia avente ad oggetto il diritto, di cui il concessionario del servizio di trasporto pubblico locale assume essere titolare perché riconosciutogli dalla normativa comunitaria, ai contributi che la Regione è tenuta a corrispondere alle imprese di trasporto per assicurare alle stesse l'equilibrio di bilancio (cfr. T.A.R. Calabria, Catanzaro, sez. II, 4 novembre 2009, n. 1181).
Tuttavia, tale giurisprudenza trascura il dato per cui tali contratti non sono, in realtà, negozi di diritto privato, ma cd. contratti ad oggetto pubblico; in particolare, essi ricadrebbero nella categoria degli accordi sostitutivi di provvedimento, in quanto sostitutivi del provvedimento concessorio, precedentemente sussistente e regolante i rapporti gestore-Amministrazione; tali accordi, quindi, ricadono nella giurisdizione esclusiva del G.A. ai sensi dell’art. 11 della l. 241 del 1990.
La particolarità degli accordi in esame è quella di appartenere alla species dei cd. “accordi necessari”, species tipica del settore dei servizi pubblici locali, nella quale è il legislatore stesso ad imporre la conclusione di un accordo in luogo del provvedimento.
In questa ipotesi, la sostituzione del modulo concessorio, quale tipico strumento provvedimentale ampliativo di natura unilaterale, con il modulo bilaterale è attuata direttamente dal legislatore, ma non per questo ne viene modificata ed inficiata la natura giuridica e l’appartenenza alla categoria degli accordi ex art. 11 che, come è noto, costituiscono forme alternative, ritenute più moderne e comunque più flessibili, di esercizio di una potestà che rimane, tuttavia, genuinamente pubblica.
Con riferimento ai contratti di servizi, è noto che il legislatore ha introdotto il concetto di “contratto” come strumento di regolazione dei rapporti tra Ente e azienda speciale per effetto della previsione contenuta nell’art. 4 L. 95/95 (art. 114 TUEL). Un riferimento allo stesso come “convenzione con le società miste” si trova anche nell’art. 5 D.P.R. 533/96.
Le normative di settore (cd. Leggi “Ronchey” L. 4/93, “Galli” L. 36/94, “Burlando” D. Lgs. 422/97, “Letta” D. Lgs. 164/00) fanno riferimento allo strumento negoziale rapportandolo agli elementi di valutazione dei risultati del servizio affidato.
L’art. 35 L. 448/01 (riformando gli artt. 113 e 113-bis TUEL) ha introdotto in via generale l’obbligo di contratto di servizio per la regolazione dei rapporti tra P.A. e soggetto erogatore del servizio pubblico in relazione ad ogni ipotesi di affidamento di servizio pubblico locale e previsto che il contratto di servizio vada allegato al bando di gara, nella fase di scelta del soggetto gestore.
Si può definire il contratto di servizio come il rapporto mediante il quale un Ente pubblico affida ad un erogatore (il gestore) lo svolgimento di determinati servizi pubblici, con contestuale ed eventuale trasferimento di pubbliche funzioni, nonché di beni pubblici strumentali allo svolgimento del servizio affidato e con l’individuazione di specifici obblighi standard di servizio pubblico: le parti sono individuate da un lato nell’Amministrazione pubblica affidante e, dall’altro, nel soggetto gestore del servizio affidato, affidatario.
L’introduzione di tale figura ha senz’altro determinato perplessità in ordine alla relativa natura giuridica.
Il Collegio osserva, tuttavia, che l'attività amministrativa, anche quando si avvale di strumenti privatistici, resta comunque attività funzionalizzata, e, sotto questo profilo (che è l'unico rilevante), attività amministrativa, soggetta, pertanto, alle regole generali dell'attività amministrativa, diverse da quelle che disciplinano l'attività privatistica.
Nell'ambito delle riflessioni sulla figura del contratto di diritto pubblico, infatti, la dottrina e, in parte, la giurisprudenza, hanno compiuto un ulteriore passo avanti di notevole ampiezza, rilevando che non esiste rapporto di necessarietà biunivoca tra carattere unilaterale del potere dell'Amministrazione e struttura unilaterale dell'atto con il quale il potere viene esercitato e che, quindi, il potere amministrativo può trovare espressione anche in atti bilaterali.
Nell'atto bilaterale, consensuale, convergono poteri diversi per natura e disciplina, ma coincidenti nel regolamento di interessi (precetto) cui l'atto intende dare vita. L'identità di contenuto precettivo rende possibile che il consenso sia reso nell'esercizio di poteri diversi, il potere amministrativo della parte pubblica e l'autonomia privata della controparte. Nulla osta alla fusione, o alla convergenza, di poteri diversi.
A prescindere da elementi che arricchiscono, ma complicano e rendono meno limpida, questa idea, il risultato che si raggiunge è di tutta evidenza: accanto ai contratti di diritto privato, dove è comunque possibile e tradizionalmente accettato riconoscere all'Amministrazione il potere di autonomia privata, vengono a delinearsi fattispecie a struttura bilaterale, nelle quali l'Amministrazione svolge un potere unilaterale non privatistico; vengono a delinearsi accordi pubblicistici e convenzioni pubblicistiche.
L'art. 11 finisce per dare corpo di diritto positivo ai risultati della elaborazione dottrinale: nell'ambito del procedimento amministrativo, sempre più luogo non di ponderazione comparativa di interessi, ma di negoziazione degli stessi, la volontà del privato, comunque necessariamente coinvolto in funzione partecipativa, concorre al confezionamento della fattispecie produttiva del precetto, o, se si preferisce, del regolamento di interessi, poiché la legge consente (o impone, nel caso dei cd. “accordi necessari”) che l'Amministrazione aderisca ad atti bilaterali, anziché adottare atti unilaterali (provvedimenti).
Gli accordi previsti dall'art. 11 nascono dalla fusione di potere amministrativo e autonomia privata, sono il risultato di valutazioni discrezionali, sono alternativi (in tutto o in parte) al provvedimento unilaterale: nel caso di specie, e nell’ambito della categoria degli accordi necessari, tale alternatività è posta a monte dall’ordinamento (dalla legge).
Ci sono ragioni di diritto positivo che impediscono di ricondurre gli accordi di cui all'art. 11 ai contratti ad evidenza pubblica; i contratti ad evidenza pubblica sono veri e propri contratti, soggetti come tali, in difetto di disposizioni legislative speciali o derogatorie, alla integrale disciplina codicistica; gli accordi non sono affatto disciplinati dall'insieme delle regole codicistiche, dato che ad essi si applicano soltanto i principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti in quanto compatibili (art. 11, comma 2).
Altrettanto evidente è la differenza di disciplina processuale: per i contratti ad evidenza pubblica sussiste la giurisdizione del giudice amministrativo in ordine alla formazione del contratto e la giurisdizione del giudice ordinario a proposito della sua interpretazione e della sua esecuzione.
Per gli accordi di cui all'art. 11 non esiste alcun riparto: tutte le controversie in materia di formazione, di conclusione e, ciò che più rileva, sul caso di specie, di esecuzione degli accordi sono riservate alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
Nulla impedisce, com'è ovvio, che gli accordi siano qualificati, anche dal legislatore, come contratti, ma la qualificazione, in presenza di una disciplina profondamente diversa, rischia di avere rilievo meramente astratto, se non addirittura valore soltanto terminologico.
Il contratto è figura con propri caratteri fissati con precisione: la sua sostanza non si riduce all'accordo (o al consenso), comportando l'applicazione di una determinata disciplina legislativa. Riportare gli accordi dell'art. 11 alla generale figura del contratto avrebbe senso se ciò potesse comportare l'estensione agli accordi della disciplina tipica del contratto; ma, come si è visto, la legge ha disposto diversamente.
Non qualificare gli accordi come contratti non significa affatto negare il loro carattere vincolante. Tale carattere costituisce un principio, forse il principio essenziale, della disciplina codicistica del contratto (art. 1372, comma 1, c.c.) e, come tale, è espressamente richiamato dall'art. 11.
Occorre, peraltro, avvertire che le qualificazioni giuridiche sono relative agli ordinamenti cui si ispirano. Ciò può comportare che una fattispecie complessa, nella quale abbia spazio un atto consensuale, possa essere ad un tempo considerata contratto, secondo un ordinamento, e diversamente secondo altro ordinamento.
È il caso della convenzione di lottizzazione che, qualificata in modo articolato nell'ordinamento interno, è stata ritenuta contratto nell'ordinamento comunitario (Corte di giustizia CE 12 luglio 2001, in causa C-399/98).
Pertanto, al di là della loro qualificazione formale come “contratti”, gli accordi in esame sono da ritenersi atti, anzi contratti, di diritto pubblico, sussistendone tutti gli elementi qualificanti: l'essere esercizio di potere amministrativo; l'essere ordinato al perseguimento dell'interesse pubblico; l'essere prevista la giurisdizione amministrativa per le relative controversie.
Come è noto, il contratto di diritto pubblico è figura conosciuta e lungamente studiata sia dai giuristi tedeschi che da quelli francesi: in quegli ordinamenti ha una precisa ragione d’essere poiché il criterio di riparto delle giurisdizioni fa’ leva su tale qualificazione, riferita vuoi alle norme (in Germania) vuoi ai soggetti (in Francia). Pertanto, stabilire che un contratto sia di diritto pubblico (ovvero, secondo diversa terminologia, un contratto amministrativo) comporta che di esso si occupi il giudice amministrativo; mentre se non abbia questo carattere, di esso dovrà occuparsi il giudice ordinario.
Nel nostro sistema, vale lo stesso discorso: se gli atti consensuali sono veri e propri contratti, vi sarà un riparto di giurisdizione GO-GA, a seconda della fase contrattuale controversa; se si tratta di accordi ex art. 11 (quindi, contratti ad oggetto pubblico), la giurisdizione sarà esclusivamente del G.A.
Come è noto, la natura giuridica del modulo procedimentale è stata ribadita anche dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 204 del 2000, la quale, nel valutare la legittimità costituzionale dell'art. 33 comma 1, del d. lgs. n. 80 del 1998 (come sostituito dall'art. 7 della l. n. 205 del 2000) in tema di giurisdizione esclusiva, ha chiarito che è materia di giurisdizione esclusiva quella che partecipa della medesima natura delle materie affidate alla giurisdizione di legittimità; la Corte ha affermato che la circostanza che si tratti di materie che partecipano della loro medesima natura è contrassegnata dal fatto che l'Amministrazione agisce come autorità, autorità nei confronti della quale è accordata tutela al cittadino davanti al giudice amministrativo.
Nel ragionamento seguito dalla sentenza della Corte costituzionale si fa esplicito riferimento, ancorché incidentalmente, anche all'art. 11 della legge sul procedimento, come esemplificazione di un’ipotesi di giurisdizione esclusiva. In questo passaggio emerge come il parallelo svolto dalla Corte costituzionale tra giurisdizione esclusiva e articolo 11 sia indicativo della opinione secondo cui gli accordi amministrativi presuppongano sempre l'esistenza di potere autoritativo. Da questa prospettiva, che è utile richiamare in questa sede, si evince come non vi sia accordo amministrativo che non presupponga necessariamente esercizio di potere autoritativo. Il che induce a ritenere che non vi sia accordo senza l'astratta riconducibilità del potere esercitato nell'accordo alla categoria del potere discrezionale autoritativo. Partendo da tale asserzione, si deduce che è ipotizzabile lo strumento procedimentale consensuale di cui all'art. 11 della l. n. 241 del 1990 solo qualora vi sia esercizio, anche di tipo residuale, di potere discrezionale.
L'accordo amministrativo (sia di tipo integrativo che di tipo sostitutivo, sia eventuale che necessario) postula, infatti, come presupposto necessario, l'esistenza di potere discrezionale.
Sotto il profilo della giurisdizione, se comunque si considera la giurisprudenza della Cassazione in materia è evidente la tendenza ad un'interpretazione estensiva dei limiti della giurisdizione del giudice amministrativo ex art. 11, l. n. 241 (Sezioni Unite, sentenza n. 87, in data 2 marzo 2001; Sezioni Unite, 15 dicembre 2000, n. 1262; Sezioni Unite 1° febbraio 1999, n. 8; Cass., Sez. Un., 10 dicembre 2001, n. 15608).
In quest’ottica, dunque, l’esercizio consensuale di una potestà pubblicistica e la correlativa composizione di interessi che rilevano nel rapporto amministrativo non potrà mai essere oggetto di un contratto di diritto privato, ma dovrà necessariamente essere regolato da un provvedimento, ovvero, ai sensi dell’art. 11 della l. 241 del 1990, dopo la riforma apportata nel 2005 che ha generalizzato l’istituto, da un atto che è manifestazione di esercizio consensuale della potestà pubblicistica e che viene denominato “accordo sostitutivo”.
In quest’ottica, dunque, poco importa che l’accordo non sia frutto di una libera scelta, discrezionale nell’an, della PA ma sia imposto già a livello normativo. Ciò che conta è che l’attività che è oggetto della manifestazione negoziale (chiamata accordo a livello di disciplina generale) sia un’attività oggettivamente pubblicistica e, come tale, non suscettibile di regolamentazione privatistica con lo strumento contrattuale descritto dagli artt. 1321 e ss. c.c.
Come si è detto, la premessa di tale ragionamento è tutta incentrata sulla profonda trasformazione, avvenuta a partire dagli anni ’90, della configurazione dell’Amministrazione e, più in generale, del potere pubblico, non più caratterizzato da tratti autoritativi, ma da tratti quasi esclusivamente di servizio al cittadino, servizio che può svolgersi in modo unilaterale (e, dunque, tradizionale), ovvero consensuale.
Il potere non è e non può più essere, quindi, pura autorità, ma servizio, o per meglio dire, funzione, vale a dire, plasticamente e dinamicamente, attività svolta nell’interesse altrui (del cittadino).
Se queste sono le coordinate di fondo che contrassegnano l’esercizio consensuale del potere (pur sempre potere pubblico, come riconosciuto dalla stessa Consulta nella citata sentenza n. 204 del 2004), se ne deve anche dedurre che tutte le manifestazioni che appaiono denominate come “contratti” non possono in realtà essere classificate come tali se, in esse, sono implicate potestà pubblicistiche, volte alla cura di interessi pubblici, così come i “contratti” di servizio.
Si può ancora aggiungere al riguardo, che, allo stesso modo, anche i “contratti” di partenariato pubblico privato possono essere manifestazioni consensuali di esercizio di potestà pubblicistiche; e non soltanto con riferimento alle concessioni, tipico provvedimento amministrativo che resta tale nel nostro sistema (pur avendo una diversa configurazione a livello comunitario, per finalità comunitarie), ma anche, ad esempio, con riferimento alle società miste.
Attraverso la società mista, infatti, si realizza un fenomeno che, per certi versi, è paragonabile a quello dell’impresa di gruppo: in questo caso, si tratterebbe di un’attività amministrativa di gruppo, imputata formalmente a più soggetti distinti, ma in realtà unica attività, che non muta la propria natura genuinamente pubblicistica a seconda del soggetto che la svolge, poiché è e resta attività pubblicistica unitariamente intesa. Con l’unica precisazione che tale attività si distingue in fasi diverse, a seconda del soggetto che le esercita così come, in un’impresa di gruppo, l’attività unitariamente intesa, e che configura un’unica impresa, si distingue in fasi diverse (ad esempio la fase di direzione e controllo e la fase operativa, per quanto riguarda il diritto delle imprese); per il diritto amministrativo la fase della regolazione e del controllo rimangono in capo all’ente pubblico tradizionalmente inteso; la fase gestionale e operativa viene, invece, imputata ad altro soggetto privato, ma che esercita un’attività oggettivamente pubblica.
Questo implica, pertanto, che la partecipazione societaria, la costituzione o l’acquisto di quote o azioni, finalizzati non ad un mero investimento finanziario ma alla gestione, seppure in una fase diversa e indiretta, di un’attività pubblicistica e, quindi, finalizzati ad esercitare potestà pubblicistiche (intese, ora, come attività direttamente nell’interesse della collettività e che possono assumere anche vesti consensuali) non sono altro che accordi sostitutivi di provvedimento, da intendersi come sostituzione di una generale attività provvedimentale unilaterale con un modulo consensuale, modulo che rimane pur sempre destinato all’esercizio, in forme nuove, diverse, per certi versi più subdole, di una potestà pubblicistica.
Con la conseguenza che lo statuto dei relativi atti è uno statuto pubblicistico, cui può aggiungersi l’applicazione di regole privatistiche (obbligazioni e contratti), in quanto compatibili.
E con l’ulteriore corollario della giurisdizione esclusiva del Giudice Amministrativo su ognuna delle vicende, costitutive, modificative, nonché esecutive, del relativo atto consensuale, denominato impropriamente “contratto”, ma in realtà, laddove, come detto, sia destinato allo svolgimento di un’attività oggettivamente pubblicistica, avente la natura di accordo sostitutivo ex art. 11 l. 241 del 1990.
Si può ancora aggiungere che lo schema concettuale del gruppo di imprese che, come esposto, può essere trapiantato nel diritto amministrativo, poiché tale schema si fonda sull’idea che esista un’unica attività giuridicamente rilevante, pur imputata a più soggetti giuridici distinti, non è ostacolata dalla disomogeneità nelle modalità di gestione delle varie fasi dell’attività: modalità pubblicistiche le prime e modalità privatistiche le seconde.
Infatti, attualmente, anche l’attività pubblicistica tradizionalmente intesa deve essere gestita con criteri di economicità, come si esprime ormai da tempo l’art. 1 della l. 241 del 1990; il criterio di economicità deve necessariamente permeare la singola attività, il complesso di attività, nonché l’organizzazione dell’attività stessa: l’ente, in buona sostanza.
Pertanto, attualmente, non vi sono modalità di gestione dell’attività che possano confliggere con l’idea che l’attività rivolta alla gestione di un servizio pubblico sia in realtà un’attività unica, pur divisa in fasi e imputata a soggetti diversi, e che tale attività sia espressione di una potestà fondamentalmente e ineludibilmente pubblicistica, intesa nel senso moderno, che, come tale, può sì esplicarsi con moduli consensuali, ma non tramite il contratto di diritto privato, bensì tramite lo schema disegnato in via generale, quale archetipo, dall’art. 11 della legge sul procedimento.
E’ ovvio che tale configurazione dei rapporti tra ente pubblico e privato gestore può riconoscersi in relazione alle società miste, ma anche in relazione alle concessioni o agli atti consensuali che le sostituiscono come, nella specie, i “contratti” di servizio.
Il concetto di fondo permane identico e ha, come prima conseguenza, la sottoposizione dell’atto consensuale alla giurisdizione del G.A., in quanto tale atto consensuale ha natura di “accordo”.
Conclusivamente: i “contratti” di servizio sono da ascrivere alla categoria degli accordi ex art. 11 l. 241 del 1990, nella species degli accordi necessari; sono espressione di funzione amministrativa (regolazione dei servizi pubblici, nel caso di specie, con il compito di fornire alla collettività servizi di trasporto conformi a norme di continuità, regolarità, qualità e capacità, a determinate condizioni e tariffe, nonché servizi complementari e adeguamenti dei servizi alle reali esigenze); rientrano a pieno titolo nella giurisdizione esclusiva del G.A. a norma dell’art. 11 richiamato.
Veniamo, ora, alla relativa disciplina, croce e delizia dell’analisi dottrinale e giurisprudenziale.
Tali atti, in quanto pur sempre espressione di potere, in forme nuove, comportano, infatti, inevitabili ricadute in termini di disciplina.
Preliminarmente, si deve osservare che la funzione amministrativa ha dismesso da tempo le vesti delle funzioni sovrane, per acquisire il ruolo, aggiornato con l'idea della sovranità popolare, di attività di servizio.
L'autorità, tecnicamente intesa, non è altro che eteroregolazione; il potere autoritativo è potere di disciplinare interessi altrui (anche senza il consenso e il concorso dei titolari degli interessi da disciplinare).
L'autorità è pertanto attributo del potere; in particolare, del potere precettivo. Non è attributo dell'atto nel quale o con il quale il potere viene esercitato; l'atto può qualificarsi semmai imperativo. Così è per il provvedimento amministrativo, secondo una larga parte della dottrina e per la giurisprudenza.
Va peraltro sottolineato che il potere precettivo dell'Amministrazione può essere autoritativo, ossia capace di eteroregolazione, e può anche non esserlo.
In questo secondo caso, pur non essendo capace di eteroregolazione, non cessa di essere potere (precettivo) amministrativo; resta comunque un potere funzionalizzato ed assoggettato alla disciplina tipica (statuto) dell'azione precettiva dell'amministrazione.
Il potere autoritativo si esprime di norma in atti (precettivi) unilaterali; ma può esprimersi anche in atti bilaterali (consensuali), restando potere autoritativo, come si è detto.
Questo accade, infatti, proprio con gli accordi di cui si è ampiamente discorso: in tali atti consensuali l'Amministrazione utilizza il suo potere autoritativo inteso come potere funzionalizzato, mai (almeno in linea di principio, e fatte salve eventuali situazioni speciali, o, meglio, eccezionali) un potere libero, qualificabile (a pieno titolo) come autonomia privata.
Si tratta sempre, autoritativo o non autoritativo che sia, di potere (precettivo) soggetto allo statuto tipico dell'azione amministrativa.
Nella sua azione precettiva, ossia nella elaborazione della regolazione degli interessi pubblici e di quelli privati che con i pubblici si incrociano ed intersecano, l'Amministrazione esercita sempre lo stesso potere precettivo, che può essere autoritativo o meno, ma rimane sempre un potere funzionalizzato.
Non essendo un potere libero, non è possibile confonderlo con l'autonomia privata; essendo sempre lo stesso, esso è disciplinato, almeno nelle linee fondamentali, sempre nello stesso modo. Per esso vige un solo statuto giuridico.
Lo statuto non si limita ad imprimere al potere precettivo il c.d. vincolo di scopo (finalizzandolo cioè alla soddisfazione dell'interesse pubblico), ma lo sottopone ad una serie di regole, formali e sostanziali; le quali possono essere riassunte, rispettivamente, nel principio del procedimento e nel principio del rispetto degli amministrati, includendo in questi ultimi sia gli interessati sia i terzi. Al principio sostanziale fanno capo le regole della imparzialità, della proporzionalità, della trasparenza, e così via.
In definitiva, l'azione precettiva dell'Amministrazione non è solo funzionale al pubblico interesse, ma deve svolgersi secondo le regole del procedimento e deve scegliere le soluzioni che pregiudichino nella misura minore possibile (ovvero soddisfino nella misura maggiore possibile) gli interessi privati che si intrecciano con l'interesse pubblico.
Si potrebbe, peraltro, incidentalmente ed ulteriormente, affermare che, se l'azione precettiva dell'Amministrazione è in ogni caso disciplinata secondo lo statuto che è stato a larghe linee ricostruito e che trova il suo fondamento nella Costituzione, non sussistono ostacoli né limiti a che l'azione stessa si concretizzi in atti consensuali puri (vuoi di diritto comune, vuoi di diritto speciale): tuttavia, l'azione consensuale non può essere rapportata ad una situazione soggettiva che risponda alle caratteristiche essenziali dell'autonomia contrattuale, dato che l'Amministrazione non può liberamente determinare il contenuto del contratto (art. 1322, comma 1, c.c.) o dell'atto consensuale in genere; e va invece riferita ad un potere precettivo di diversa consistenza, funzionalizzato, vincolato, disciplinato nella forma e indirizzato nella sostanza: il potere amministrativo.
Il potere precettivo dell'Amministrazione ha vincoli, formali e sostanziali, che l'autonomia privata non ha, e non può avere. Esso ha pertanto un impatto assai più modesto (e controllabile) sulla regolazione degli interessi privati di quanto non possa avere un potere libero, del tipo dell'autonomia privata. Sia a proposito dei contratti sia a proposito degli accordi non è da sottovalutare la sproporzione esistente di fatto tra Amministrazione e privati: la prima ha una posizione forte, che le consente di predisporre in tutto, o in larghissima parte, il contenuto dell'atto consensuale (ossia la regolazione degli interessi), limitando fortemente l'ambito di effettiva negoziabilità. Il rilievo della sproporzione di fatto tra contraenti, ben presente agli studiosi dei contratti, fa dubitare della migliore idoneità dell'atto consensuale, rispetto all'atto autoritativo, a tener conto degli interessi dei privati. È pur sempre il contraente forte che determina le scelte e le decisioni circa la disciplina degli interessi.
È ben per questo che l'idea di un diritto amministrativo paritario, affascinante in sé, rischia di rimanere un fenomeno chimerico: la sproporzione delle posizioni, anche se venisse corretta in diritto (e non sarebbe facile), si riprodurrebbe inevitabilmente in fatto.
In linea generale, è comunque da rilevare che l'ambito effettivo della negoziabilità dell'assetto degli interessi, sia che venga fissato con atto consensuale sia che risulti da atto autoritativo, si mostra fortemente limitato, come conseguenza naturale della funzionalizzazione del potere al perseguimento dell'interesse pubblico. La negoziabilità viene limitata al profilo del rispetto degli interessi privati, ma tale criterio impegna comunque e direttamente l'Amministrazione e non è condizionato dalla capacità di negoziazione dei privati.
Anche sotto questo profilo, dunque, si giustifica la sottoposizione dell’accordo allo statuto del provvedimento (e si potrebbe dire lo stesso quanto al contratto ex 1321 c.c. Concluso dalla PA, come detto), in quanto in entrambi è presente, pur in forme diverse, un potere funzionalizzato che ha, come corollari, la sottoposizione ad un regime di controllo, latamente inteso, del tutto equiparabile al provvedimento, come d’altronde afferma espressamente lo stesso legislatore nell’art. 11 in esame, che sottopone l’accordo agli stessi “controlli”, intesi in questo senso generale, che avrebbe l’omologo provvedimento che sostituisce.
Tutto ciò con inevitabili ricadute di disciplina, in parte a vantaggio del privato, che potrà fare leva sui classici strumenti di controllo come l’impugnazione per eccesso di potere (da rivolgere contro l’accordo stesso, ovvero contro la determinazione preliminare dell’Amministrazione che è alla base dell’accordo) che il privato, in ambito civilistico, non può esercitare; per contro, l’accordo e la relativa determinazione preliminare saranno sottoposti al regime dell’impugnabilità/annullabilità, con tutti i corollari riferibili, in primo luogo, ai termini di decadenza per far valere” i vizi amministrativi” dell’atto consensuale in quanto esercizio di potere.
Resta, peraltro, inteso che l’accordo, in quanto atto consensuale, sarà altresì impugnabile in tutti i casi ammessi dal codice civile, di cui saranno applicabili tutti i relativi rimedi contrattuali, purché non incompatibili con l’applicazione delle regole tratte dal regime pubblicistico: tali rimedi civilistici, dunque, si aggiungeranno a quelli pubblicistici, come, ad es. per l’azione di annullamento ex art. 1441 c.c. o per l’azione di adempimento o di risoluzione; in altri casi, ove ci sarà incompatibilità, prevarrà, come è ovvio, la disciplina e il regime di rimedi pubblicistici, con tutti i vantaggi, e gli svantaggi che essi comportano.
In primo luogo, in relazione alla violazione di norme imperative, non sarà possibile esercitare l’azione di nullità ex art. 1418 c.c., poiché tale azione è incompatibile con il regime di tutela pubblicistico approntato dall’ordinamento per reagire contro le violazioni di legge perpetrate dall’Amministrazione, in funzione di tutela del principio di legalità.
La violazione di norma imperativa è una violazione di legge e andrà trattata seconda la disciplina pubblicistica, con l’ovvia esigenza di impugnare l’atto, per tali motivi, entro 60 giorni e con la conseguenza che il vizio non può farsi valere senza esercitare tale azione finalizzata all’annullamento dell’atto stesso.
Si deve, peraltro, osservare che la dottrina e la giurisprudenza si sono occupate con assiduità della natura degli accordi, ma si sono soffermata solo sporadicamente sulla disciplina ad essi applicabile. Eppure è proprio quello della individuazione della disciplina il problema principale (e non solo dal punto di vista pratico), data la sinteticità e la scarsa intelligibilità delle disposizioni contenute nell'art. 11 della legge sul procedimento amministrativo.
A titolo di esempio, si prendano le due proposizioni incidentali inserite nel comma 1 (“senza pregiudizio dei diritti dei terzi, e in ogni caso nel perseguimento del pubblico interesse”): ognuna di esse dà luogo a problemi ricostruttivi di difficile soluzione.
La prima proposizione può essere intesa in più modi, attribuendole cioè un significato ampio ovvero un significato pressoché irrilevante. È chiaro infatti che un accordo tra Amministrazione e privati direttamente interessati non può pregiudicare diritti di terzi, ossia di coloro che non prendono parte all' accordo stesso: basta rammentare il comma 2 dell'art. 1372 c.c. Tuttavia è difficile pensare che la proposizione in esame non sia altro che una (inutile) ripetizione della disposizione codicistica; anche in considerazione del fatto che i terzi controinteressati hanno titolo per partecipare al procedimento amministrativo, e tenuto conto che l' accordo è uno dei possibili esiti della partecipazione, dato che l'Amministrazione può concluderlo in accoglimento di osservazioni e proposte presentate a norma dell'art. 10.
Si potrebbe, in questa prospettiva, ipotizzare che: a) i terzi controinteressati possano (o addirittura debbano) prendere parte all'accordo; ovvero, alternativamente, b) l'eventuale pregiudizio dei diritti dei terzi determini la patologia dell'accordo concluso tra l'Amministrazione e l'interessato. Altrimenti il riferimento alla salvaguardia dei diritti dei terzi avrebbe il valore di una semplice raccomandazione indirizzata dal legislatore all'Amministrazione che si predisponga a concludere accordi.
Infatti, l'aspetto praticamente più rilevante del problema relativo alla posizione dei terzi di fronte all'accordo attiene peraltro alla possibilità per loro di impugnarlo, ove sia lesivo dei loro diritti. L'impugnazione deve essere considerata estensibile a tutti i vizi di legittimità, secondo le norme che riguardano i provvedimenti amministrativi. Infatti, se gli accordi sono integrativi o sostitutivi di provvedimenti, devono poter essere sindacati alla stregua di provvedimenti (così come sono assoggettati agli stessi controlli); altrimenti la conclusione di un accordo al posto della emanazione di un provvedimento danneggerebbe la posizione dei terzi, in violazione della raccomandazione espressa contenuta nella legge. Il che peraltro comporta che non vengano salvaguardati solo i diritti dei terzi, ma anche, e soprattutto, i loro interessi legittimi. In questo modo acquista un significato preciso la proposizione legislativa in esame; coordinandosi altresì con l'attribuzione della giurisdizione al giudice amministrativo e lo statuto e il regime di diritto pubblico cui soggiace l’atto consensuale.
Il problema della disciplina applicabile, infatti, assume rilievo allorché si prenda in considerazione nel suo insieme il regime della validità degli accordi, dato che, in astratto, esso può assimilarsi al regime proprio dei provvedimenti amministrativi ovvero al regime proprio dei contratti, l'uno avente a riferimento prevalente il profilo funzionale, l'altro il profilo strutturale della fattispecie.
In astratto, si può pensare che la validità degli accordi procedimentali vada sindacata insieme alla validità dei provvedimenti che necessariamente li seguono; che, invece, la validità degli accordi sostitutivi vada parametrata sui principi della validità dei contratti. Occorre peraltro tener conto della giurisdizione, attribuita al giudice amministrativo; il quale utilizza il canone della legittimità e non quello della validità strutturale.
Come si è già esposto, e si ribadisce, tali accordi, partecipando a pieno titolo alla natura pubblicistica, in quanto esercizio di potere, manifesta un regime di rimedi parallelo per il privato contraente e per il terzo, ovvero l’azione di impugnazione prevista, nella versione normativa più recente, dall’art. 21-octies, primo comma, l. 241 del 1990. In più, in quanto anche atto consensuale, come già detto, consente, al solo contraente l’esercizio dei rimedi disciplinati dal codice civile: in caso di sovrapposizione di rimedi, come per il caso della nullità per violazione di norme imperative, di cui si è detto dovranno necessariamente, prevalere i rimedi pubblicistici, come detto, atteso il limite di compatibilità del richiamo al codice civile, peraltro esteso soltanto ai principi, come già detto, coerente con la natura giuridica degli accordi.
E’ pur vero che il Consiglio di Stato, IV sezione, nella decisione 22 giugno 2004, n. 7180 ha affermato che non è ammissibile l'impugnativa da parte del privato di un contratto d'area fondata su pretesi errori della P.A. ovvero della banca concessionaria, alla stregua dell'impugnativa prevista per i provvedimenti amministrativi, dal momento che l'annullabilità di tali accordi è retta dalla disciplina codicistica (art. 1425 ss., c.c.) che sostituisce quella dell'annullabilità propria dei provvedimenti amministrativi (art. 26, r.d. n. 1054 del 1924).
Tuttavia, al di là della massima che ne è stata tratta, il caso di specie, come è evidente dalla lettura integrale della sentenza, riguarda un’impugnazione rivolta a contestare il contenuto (vincolante) dell’accordo che, per il principio superiore di non contraddizione dei comportamenti dei soggetti dell’ordinamento, corrispondente all’antico brocardo nemo contra factum proprium venire potest, non può più essere messo in discussione: gli unici errori rilevanti, dunque, sono quelli di cui alla disciplina civilistica, non essendo operativi in radice, in quel caso, i rimedi pubblicistici (e, come abbiamo detto, i rimedi civilistici si aggiungono a quelli pubblicistici, essendo inoperanti soltanto se incompatibili).
Peraltro, lo stesso Consiglio di Stato, in precedenza, con decisione della VI sezione 15 maggio 2002, n. 2636, aveva affermato che il diritto privato assunto dalla sfera pubblica si rivela in sé neutro strumento organizzatorio (si pensi al fenomeno delle società miste) e non implica, dunque, nessuna fuga dalla funzione pubblica, con la conseguenza che né sotto il profilo della giurisdizione, né sotto il profilo della disciplina si possono trarre elementi per sottrarre l’atto allo statuto generale degli atti dei pubblici poteri.
Pertanto, e conclusivamente, si deve ritenere che la nullità dell’atto consensuale, nella specie, l’accordo o, meglio, il “contratto di servizio” per violazione di norma imperativa possa essere fatto valere soltanto tramite l’azione di annullamento ex artt. 21-octies l. 241 del 1990 e 26 r.d. 1054 del 1924.
Con l’ovvia conseguenza che non potrà applicarsi il regime di cui all’art. 1339 c.c., relativamente alla sostituzione di clausole e prezzi imposti, norma che postula la nullità per violazione di norma imperativa e che, come visto, per gli atti dei pubblici poteri non può applicarsi, essendo un predicato tipico degli atti genuinamente privati.
Identica conclusione anche nell’ipotesi in cui l’atto amministrativo (in forma unilaterale o bilaterale-consensuale) si assuma in contrasto con una disposizione di rango comunitario che, come è noto, si risolve sul piano interno in un vizio di legittimità.
Nello specifico, passando brevemente ad esaminare le disposizioni comunitarie rilevanti, si deve osservare che il Reg. 1191/69 CEE e s.m.i., relativo al settore dei trasporti per ferrovia, su strada e per via navigabile, consente agli Stati membri di imporre obblighi di servizio pubblico alle imprese pubbliche incaricate di assicurare il trasporto di passeggeri in un comune e di prevedere, per gli oneri che ne derivano, una compensazione determinata conformemente alle disposizioni del regolamento stesso: infatti, tale regolamento osta alla concessione di un'indennità di compensazione a favore di imprese incaricate del trasporto pubblico in un Comune, qualora non sia possibile determinare l'importo dei costi imputabili a quella parte di attività che costituisce esecuzione degli obblighi di servizio pubblico (Corte giustizia CE, sez. II, 7 maggio 2009, n. 504).
Secondo la disciplina comunitaria, per garantire servizi di trasporto sufficienti tenendo conto segnatamente dei fattori sociali, ambientali e di assetto del territorio o per offrire particolari condizioni tariffarie a favore di determinate categorie di passeggeri le competenti autorità degli Stati membri possono concludere contratti di servizio pubblico con un'impresa di trasporto. Le condizioni e le modalità di tali contratti sono definite nella sezione V del Regolamento.
In linea generale, infatti, secondo la normativa comunitaria, le competenti autorità degli Stati membri possono mantenere o imporre gli obblighi di servizio pubblico di cui all'art. 2 Reg. cit. per i servizi urbani, extraurbani e regionali di trasporto di passeggeri: le condizioni e le modalità, compresi i metodi di compensazione, sono definiti nelle sezioni II, III e IV.
Quando un'impresa di trasporto svolge contemporaneamente servizi soggetti ad obblighi di servizio pubblico ed altre attività, i servizi pubblici devono formare oggetto di sezioni distinte che rispondano come minimo ai seguenti requisiti:
a) separazione di conti corrispondenti a ciascuna attività di esercizio e ripartizione delle relative quote di patrimonio in base alle norme contabili vigenti;
b) spese bilanciate dalle entrate di esercizio e dai versamenti dei poteri pubblici, senza possibilità di trasferimento da o verso altri settori d'attività dell'impresa.
Ai termini dell'art. 2, nn. 1 e 2, del regolamento n. 1191/69 per obblighi di servizio pubblico si intendono gli obblighi che l'impresa di trasporto, ove considerasse il proprio interesse commerciale, non assumerebbe o non assumerebbe nella stessa misura né alle stesse condizioni. Gli obblighi di servizio pubblico ai sensi del paragrafo 1 comprendono l'obbligo di esercizio, l'obbligo di trasporto e l'obbligo tariffario.
L'art. 6, n. 2, del regolamento n. 1191/69 stabilisce che le decisioni di mantenere o di sopprimere a termine, totalmente o parzialmente, un obbligo di servizio pubblico, prevedono, per gli oneri che ne derivano, la concessione di una compensazione determinata secondo i metodi comuni di cui agli articolo 10, 11, 12 e 13.
L'art. 10 del regolamento, in specifico, prevede che per quanto riguarda l'obbligo d'esercizio o di trasporto, l'ammontare della compensazione prevista all'articolo 6 è pari alla differenza tra la diminuzione degli oneri e la diminuzione degli introiti dell'impresa che può derivare, per il periodo di tempo considerato, dalla soppressione totale o parziale corrispondente dell'obbligo in questione.
Tuttavia, se gli svantaggi economici sono stati calcolati suddividendo i costi complessivi sostenuti dall'impresa per la sua attività di trasporto fra le varie parti di questa attività di trasporto, l'ammontare della compensazione è pari alla differenza fra i costi imputabili alla parte dell'attività dell'impresa interessata dall'obbligo di servizio pubblico e l'introito corrispondente.
L'art. 17, n. 2, primo comma, del regolamento n. 1191/69 dispone ancora che le compensazioni risultanti dall'applicazione del presente regolamento sono dispensate dalla procedura di informazione preventiva di cui all'articolo 88, paragrafo 3, CE.
Infatti, pur avendo come obiettivo l'eliminazione degli obblighi inerenti alla nozione di servizio pubblico, come emerge sia dai primi due considerando, sia dall'art. 1, n. 3, del regolamento n. 1191/69, l'art. 1, n. 5, del medesimo prevede che le competenti autorità degli Stati membri possano mantenere o imporre gli obblighi di servizio pubblico di cui all'art. 2 di tale regolamento per i servizi urbani, extraurbani e regionali di trasporto di passeggeri. Le condizioni e le modalità, compresi i metodi di compensazione, sono definiti nelle sezioni II, III e IV del medesimo regolamento, come detto.
Dato che l'obbligo di compensazione, in virtù del regolamento n. 1191/69, è necessariamente legato all'esecuzione di obblighi di servizio pubblico, le imprese che sono considerate fornitrici di un servizio di trasporto pubblico di passeggeri senza che alcun obbligo di servizio pubblico sia loro imposto non potrebbero beneficiare di una tale compensazione.
Peraltro, la concessione da parte di uno Stato membro di indennità di compensazione a imprese di trasporto titolari di una concessione di servizio pubblico e che beneficiano, all'interno di determinati perimetri urbani, di un regime di esclusiva a causa degli obblighi di servizio pubblico a cui esse sono assoggettate non configura un aiuto di Stato vietato dall'art. 87, n. 1, CE nel caso in cui queste imprese esercitino, peraltro, questa attività anche in concorrenza con operatori privati al di fuori di detto perimetro e qualora sia possibile calcolare il costo aggiuntivo derivante dall'adempimento agli obblighi di servizio pubblico.
Infatti, l'art. 87 CE si colloca nelle disposizioni generali del Trattato relative agli aiuti di Stato, mentre l'art. 73 CE introduce nel settore dei trasporti una deroga alle norme generali applicabili agli aiuti di Stato, disponendo che gli aiuti che soddisfano le esigenze di coordinamento dei trasporti o che corrispondono al rimborso di talune servitù inerenti alla nozione di pubblico servizio sono compatibili con il Trattato. Il regolamento n. 1191/69 instaura un regime cui gli Stati membri sono tenuti ad attenersi quando prevedono di imporre obblighi di servizio pubblico alle imprese di trasporto terrestre (v. Corte di Giustizia sentenze Altmark, 24 luglio 2003, n. 280).
Il regolamento n. 1191/69 osta alla concessione di indennità di compensazione qualora non sia possibile determinare l'importo dei costi imputabili all'attività delle imprese interessate esercitata nell'ambito dell'esecuzione dei loro obblighi di servizio pubblico. Poiché le indennità di compensazione di cui trattasi rientrano nell'ambito di applicazione del regolamento n. 1191/69, la compatibilità delle medesime con il diritto comunitario deve essere valutata secondo le disposizioni previste da tale regolamento e non con riferimento alle disposizioni del Trattato relative agli aiuti di Stato.
Nel caso in cui il giudice giunga alla conclusione che dette indennità non sono state concesse in conformità con il regolamento n. 1191/69, spetta al medesimo, con riferimento all'applicabilità diretta di tale regolamento, trarne tutte le conseguenze, conformemente al diritto nazionale, per quanto riguarda la validità degli atti che comportano l'attuazione di dette indennità.
Alla luce delle suesposte considerazioni, il Giudice comunitario ha esplicitamente affermato che quando un giudice nazionale constata l'incompatibilità di talune misure di aiuto con il regolamento n. 1191/69, spetta al medesimo trarne tutte le conseguenze, conformemente al diritto nazionale, per quanto riguarda la validità degli atti che comportano l'attuazione di dette misure (Corte giustizia CE, sez. II, 7 maggio 2009, n. 504).
Pertanto, anche per il giudice comunitario si realizza, in caso di contrasto con la disciplina comunitaria di cui al Regolamento sui trasporti, un caso di invalidità, ma secondo il regime del singolo stato membro, che per il nostro ordinamento, come si è detto, è il regime dell’annullabilità/impugnabilità propria degli atti di esercizio (unilaterale o consensuale) del potere pubblico.
Pertanto, non avendo esercitato, in questo giudizio, l’azione di annullamento all’uopo prevista avverso l’accordo per violazione di legge (comunitaria), il ricorso non può trovare accoglimento.
Peraltro, anche a volere ritenere che, nello schema logico e giuridico del processo impugnatorio avanti al G.A., sia ammissibile la mera azione (atipica) di accertamento dell’illegittimità (prospettiva accolta dal Consiglio di Stato con le note sentenze, Sez. VI, 9 febbraio 2009, n. 717 e 15 aprile 2010, n. 2139), sia in quanto ciò corrisponderebbe all’effettività di tutela di cui all’art. 24 Cost., di cui l’art. 113 è rappresenta soltanto una species (sottoforma di tutela costitutiva-demolitoria), sia in quanto l’azione di accertamento è il passaggio logico necessario per l’annullamento, sia in quanto l’azione di accertamento non è prevista espressamente neppure nel processo civile ove la si ritiene implicitamente e pacificamente sussistente e anzi necessaria, sia in quanto si voglia ottenere un accertamento giurisdizionale al fine di sollecitare il successivo esercizio del potere amministrativo (es. sostituzione della clausola), sia, infine, in quanto anche la tradizionale configurazione del giudizio di annullamento come giudizio sull’atto (e non sul rapporto) non è più così pacifica come era in passato, la domanda di parte ricorrente non può trovare accoglimento.
In disparte le ovvie considerazioni in tema di violazione dei termini per proporre il ricorso, che devono comunque essere omogenei tra azione di annullamento e di accertamento, altrimenti eludendo la disciplina cogente della decadenza, si deve osservare che non può comunque disporsi, anche soltanto in via di ottemperanza, una sostituzione della clausola automatica, come aspira il ricorrente in giudizio (facendo riferimento all’art. 1339 c.c. che, come abbiamo detto, non è applicabile) nel caso di specie.
Anche a prescindere dal riferimento testuale alla disposizione codicistica, la sostituzione automatica presuppone che vi sia una clausola che automaticamente possa entrare al far parte del regolamento contrattuale, il che non è nel caso in esame.
Infatti, come si evince a livello comunitario (sentenza cd. “Combus” 16 marzo 2004, Causa T-157/01 del Tribunale di primo grado delle Comunità europee) si deve operare un’importante distinzione, all’interno del Reg. (CEE) 1191/69 e 1893/91, tra obblighi di servizio pubblico e contratti di servizio: gli obblighi di servizio pubblico sussistono solo in caso di mantenimento o imposizione di obblighi di servizio pubblico (prescindendo da una contrattazione con l’impresa) con la conseguenza che devono essere applicati i metodi comuni di compensazione previsti nel Regolamento (punto 77); nei contratti di servizio pubblico vige un regime puramente contrattuale sotto il profilo contenutistico che, come tale, non prevede, ai sensi del regolamento, né un obbligo di servizio pubblico né una compensazione. Le prestazioni di trasporto fornite sono remunerate con il prezzo contrattuale concordato dalle parti (punti 77-82). Nel sistema a regime del trasporto pubblico locale gli obblighi di servizio non sono imposti alle imprese, ma diverrebbero oggetto di un accordo contrattuale nel quale il prezzo deve essere determinato nel rispetto dei metodi comuni stabiliti nel Reg. (CEE) 1191/69 – 1893/91 di cui si è detto.
Ai sensi del reg. Cee n. 1191/69 del Consiglio, adottato il 26 giugno 1969, ma nel testo risultante dalle modifiche introdotte con il regolamento Cee n. 1893/91, adottato dal Consiglio il 20 giugno 1991, le imprese concessionarie di servizi pubblici di trasporto hanno diritto alla compensazione piena ed effettiva dei maggiori costi sostenuti in stretta correlazione con gli obblighi ad essi imposti dalle autorità concedenti (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 29 agosto 2006, n. 5043).
Infatti il Regolamento CEE n. 1191/69 del Consiglio adottato il 26 giugno 1969, nel testo risultante dalle modificazioni introdotte con il Regolamento CEE n. 1893/91 adottato dal Consiglio in data 20 giugno 1991, nel prevedere che gli Stati membri possono escludere dal suo campo di applicazione le imprese la cui attività è limitata esclusivamente alla fornitura di servizi di trasporto urbani, extraurbani o regionali (attività svolta dalla Fontaneto s.p.a. per quel che qui interessa) espressamente dispone che le condizioni modalità compresi i metodi di compensazione, sono definiti nelle sezioni II, III, e IV.
Nella sezione seconda del Regolamento CEE qui in esame, nel dettare le regole comuni per la soppressione o il mantenimento totale o parziale di un obbligo di servizio pubblico, il legislatore comunitario ha chiarito, in modo non equivoco, che le decisioni di mantenere o di sopprimere a termine, totalmente o parzialmente, un obbligo di servizio pubblico, prevedono, per gli oneri che ne derivano, la concessione di una compensazione determinata secondo i metodi comuni già ricordati (articoli 10, 11, 12, 13 e articolo 6, comma secondo).
La sostituzione, dunque, non potrebbe ritenersi automatica, poiché il Regolamento comunitario non prevede una clausola rigida e specifica, bensì soltanto un metodo di calcolo che, potendo presentare margini di negoziabilità da parte dei paciscenti, in quanto oggetto di un accordo, come si è detto, non è suscettibile di immediata applicazione.
In altre parole, cogente a livello comunitario è il metodo non il risultato, che può presentare margini, pur ristretti, di variabilità e che, molto opportunamente, il Regolamento comunitario lascia nella disponibilità delle parti e nell’ambito della negoziazione volta alla conclusione dell’anzidetto “contratto”.
Pertanto, difettando il presupposto dell’automatismo, la richiesta di sostituzione ex art. 1339 c.c., anche ammettendone l’applicabilità nel caso di specie (ma si è esclusa), non può esser accolta.
Pertanto, alla luce dell’insieme delle predette argomentazioni, il ricorso deve essere respinto, in quanto infondato.
Sussistono giusti motivi per compensare tra le parti le spese del giudizio.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte, II sezione, pronunciandosi sul ricorso in epigrafe indicato, lo respinge.
Compensa tra le parti le spese del giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Torino nella camera di consiglio del giorno 26 maggio 2010 con l'intervento dei Magistrati:
Paolo Giovanni Nicolo' Lotti, Presidente FF, Estensore
Manuela Sinigoi, Referendario
Antonino Masaracchia, Referendario


DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 10/06/2010

venerdì 11 giugno 2010

Corte di Cassazione, SS.UU., ordinanza 13 giugno 2006 n. 13659

Corte di Cassazione, SS.UU., ordinanza 13 giugno 2006 n. 13659 -
Fatto
1. C.A. propone istanza per il regolamento della giurisdizione in relazione a giudizio pendente dinanzi al Tribunale di Firenze (R.g. n. 4464/03), promosso nei confronti dell'Università degli studi di Pisa e di F.E. con citazione del 3 maggio 2003, per la condanna dei convenuti, in solido, al risarcimento dei danni cagionatigli dall'illegittima esclusione dal corso di dottorato di ricerca. L'istante, premesso che le parti convenute avevano eccepito il difetto di giurisdizione ordinaria, chiede che le Sezioni unite della Corte di Cassazione dichiarino competente il giudice ordinario.
2. Riferisce il C. che, previa partecipazione al concorso indetto dall'Università di Pisa, era stato ammesso al corso per il conseguimento del dottorato di ricerca in storia, istituzioni e relazioni internazionali dei Paesi extraeuropei, relatore e tutore il prof. F.E.. Durante lo svolgimento del corso, dopo il primo anno, il prof. F. aveva, assunto comportamenti di contrapposizione e ostacolo della sua attività di ricerca, culminati nella presentazione di una relazione sull'atti vita del dottorando "volutamente quanto ingiustamente negativa". Con Decreto del rettore 12 dicembre 1999, n. 01/1607, era stata disposta la sua esclusane dal proseguimento del corso sulla base della relazione del prof. F., approvata dal collegio dei docenti.
3. Resiste con controricorso F.E., mentre non ha svolto attività di resistenza l'Università; con le conclusioni scritte il Pubblico ministero ha chiesto dichiararsi la giurisdizione del giudice amministrativo trattandosi di pretesa risarcitoria consequenziale all'ambito di giurisdizione riconosciuta al giudice amministrativo dal D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 63, comma 4.
Hanno depositato memorie il C. ed il F..
Diritto
1. La Corte, a sezioni unite, in parziale difformità dalle conclusioni del Pubblico Ministero, regola la giurisdizione nel senso che appartiene alla cognizione del giudice amministrativo la controversia promossa nei confronti dell'Università degli studi di Pisa; alla cognizione del giudice ordinario la controversia promossa nei confronti del prof. F.E..
2. Va premesso che, nel caso di specie, non viene in rilievo l'ambito attribuito alla giurisdizione amministrativa dal D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 63, comma 4, relativamente alle controversie in materia di procedure concorsuali per l'assunzione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni. Il dottorato di ricerca, come disciplinato dal D.P.R. 11 luglio 1980, n. 382 (Riordinamento della docenza universitaria, relativa fascia di formazione nonchè sperimentazione organizzativa e didattica) - e successive modificazioni e integrazioni - è titolo accademico che si consegue all'esito di un corso preordinato a sviluppare autonome capacità di ricerca scientifica, attraverso le quali evidenziare originalità creativa e rigore metodologico (e, difatti, le relative prove di esame sono intese ad accertare l'attitudine del candidato alla ricerca scientifica: stesso D.P.R. n. 382 del 1980, art. 71, comma 4). L'ammissione al corso, quindi, non instaura un rapporto di lavoro, nè ha natura retributiva l'eventuale borsa di studio attribuita al dottorando.
3. Gli effetti dannosi sono collegati dal C. sia alle modalità di gestione del corso, sia, in particolare, al decreto rettoriale di esclusione.
Secondo le disposizioni del D.P.R. n. 382 del 1980, art. 68, in vigore all'epoca dei fatti (l'articolo è stato abrogato dalla L. 3 luglio 1998, n. 210, art. 6, a far data dall'anno successivo all'entrata in vigore del decreto ministeriale di cui all'art. 4, comma 2, della detta legge - D.M. 30 aprile 1999, n. 224 -), il titolo di dottore di ricerca è conseguito a seguito di svolgimento di attività di ricerca, successive al conseguimento del diploma di laurea, che abbiano dato luogo, con contributi originali, alla conoscenza in settori uni o interdisciplinari; la stessa norma precisa i contenuti degli studi; contempla, alla fine di ciascun anno, la presentazione di particolareggiata relazione sull'attività e le ricerche svolte al collegio dei docenti; prevede, infine, che la valutazione dell'assiduita e dell'operosità possa portare a proporre al rettore l'esclusione dal proseguimento del corso di dottorato di ricerca.
Non si può, perciò, dubitare della sussistenza di una fattispecie di esercizio di attività autoritativa dell'amministrazione universitaria, quanto all'ammissione al corso, alle verifiche e controlli sul suo svolgimento, all'esclusione dallo stesso. La pretesa risarcitoria, quindi, è stata proposta con riguardo all'uso dannoso della funzione amministrativa, sia, come si diceva, in relazione alle modalità di organizzazione, indirizzo e controllo dei corsi (si vedano le numerose illegittimità imputate al tutor, prof. F.), sia, e soprattutto, con riguardo al provvedimento di esclusione dal proseguimento del corso.
4. L'appartenenza alla giurisdizione amministrativa di legittimità (che si configura anche in ambito di materie di giurisdizione esclusiva) del controllo sulle determinazioni dell'amministrazione universitaria in ordine ai corsi di dottorato, discende dalla sicura attribuzione di "poteri" all'amministrazione, discrezionali, o anche vincolati - in quanto radicati sopra giudizi tecnico-scientifici, espressioni di discrezionalità cd. tecnica - siccome le norme escludono sicuramente la configurabilità di pretese del dottorando protette con la consistenza del diritto soggettivo quanto allo svolgimento dei corsi e al conseguimento del titolo.
5. Le sezioni unite sono chiamate a pronunciarsi sulla questione di giurisdizione in tema di responsabilità civile della p.a. connessa ad attività provvedimentale. L'argomento, a partire dal D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 80, ha dato origine, com'è noto, ad un vasto dibattito in dottrina ed in giurisprudenza, in particolare dopo le decisioni di parziale illegittimità costituzionale pronunciate da giudice delle leggi con le sentenze 6 luglio 2004, n. 204 e 28 luglio 2004, n. 281, sulla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in relazione alla L. 21 luglio 2000, n. 205 ("Disposizioni in materia di giustizia amministrativa"): decisioni alle quali si è di recente aggiunta la sentenza 3 maggio 2006, n. 191, con cui è stato dichiarato in parte illegittimo il D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 327, art. 53, comma 1 ("Testo unico delle disposizioni legislative in materia di espropriazioni per pubblica utilità").
Orbene, due sono gli aspetti di questo tema, cui le sezioni unite sono chiamate a dare risposta: come, dopo la L. 205 del 2000, è ripartita tra giudice ordinario e giudice amministrativo la tutela giurisdizionale intesa a far valere la responsabilità della p.a. da attività provvedimentale illegittima; se la parte si può limitare a chiedere il risarcimento del danno, senza dover anche chiedere l'annullamento e quale sia il regime di tale diversa forma di tutela giurisdizionale, una volta che la si ammetta.
E, per una corretta impostazione del problema - sia sulle modifiche del riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo, intervenute negli anni dal 1992 al 2000, sia sugli effetti della dichiarazione di incostituzionalità del D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 80, dell'art. 33, commi 1 e 2, e art. 34, comma 1, come novellati dalla L. 21 luglio 2000, n. 205, art. 7 - è opportuno prendere l'avvio dalle considerazioni svolte dalla Corte costituzionale, nella sentenza 204, sui lavori preparatori della Costituzione.
6. In quella sede, come ha osservato la Corte, si ribadi "l'indispensabile riassorbimento nella Costituzione dei principi fondamentali della L. 20 marzo 1865, n. 2248, all. E", ispirati al principio dell'unità della giurisdizione, ma vi emerse il contrasto tra la tesi - perdente - a favore del giudice unico ("l'esercizio del potere giudiziario in materia civile, penale e amministrativa appartiene esclusivamente ai giudici ordinari") e quella vincente, per il mantenimento di giudici diversi da quelli ordinaria quali Consiglio di Stato e Corte dei conti ("una divisione dei vari ordini di giudici ... ognuno dei quali fa parte a sè"). La regola tradizionale del riparto della giurisdizione - se si tratta di diritti soggettivi la giurisdizione è del giudice ordinario, se è fatto valere un interesse legittimo la giurisdizione appartiene al giudice amministrativo - trova il proprio antecedente storico e logico nella L. 20 marzo 1865, n. 2248, all. E, artt. 2 e 4, tuttora vigenti. Se la legge è uguale per tutti, anche per la p.a., il cittadino che ha subito un pregiudizio ad un suo diritto può rivolgersi al giudice ordinario e il giudice si limiterà a conoscere gli effetti dannosi dell'atto amministrativo, senza sindacare le scelte discrezionali, del tutto autonome, della p.a.. La legge del 1865 realizza così il principio dell'unità della giurisdizione, ma questa regola si rivelerà non idonea ad assicurare una tutela adeguata al cittadino, sia per la grande quantità di controversie che la legge abolitiva del contenzioso riservava all'autorità amministrativa, così sottraendola al sindacato giurisdizionale, sia per una certa timidezza del giudice ordinario nel dare applicazione ai principi sanciti dalla L. del 1865, allegato E. E' in questa situazione che, nel 1889, si registra la scelta per l'introduzione del sindacato sugli atti amministrativi da parte di un organo consultivo, il Consiglio di Stato, la cui natura giurisdizionale viene poi esplicitamente affermata con la L. n. 642 del 1907 istitutiva della 5^ Sezione del Consiglio di Stato. L'area delle situazioni tutelabili davanti a un giudice è in tal modo ampliata.
L'assetto così realizzato trova conferma nel R.D. 26 giugno 1924, n. 1054, (Consiglio di Stato). Questo assetto non viene d'altro canto inciso dalla introduzione della "giurisdizione esclusiva".
La giurisdizione sui diritti è devoluta al Consiglio di Stato in casi tassativamente enumerati, a conferma della regola generale posta alla base del riparto.
Si tratta di una giurisdizione esclusiva, obiettivamente diversa, allora, da quella voluta dal legislatore in questi ultimi anni.
Limitata a pochi "casi di confine", la sua introduzione è spiegata con la difficoltà di distinguere nel l'aggrovigliato intreccio tra diritti soggettivi e interessi legittimi, anche se la sua introduzione stava ad indicare un chiaro recupero della logica propria del contenzioso amministrativo abolito nel 1865.
Tale è l'assetto cristallizzato nella Costituzione del 1948, che all'art. 24 da riconoscimento sostanziale alla tutela sia del diritto soggettivo che dell'interesse legittimo e mentre all'art. 103 c.p.c., comma 1, limita la giurisdizione del giudice amministrativo in tema di diritti soggettivi alle "particolari materie" indicate dalla legge, nell'art. 113 c.p.c., rimette alla legge di indicare il giudice che può annullare l'atto amministrativo e le conseguenze dell'annullamento.
Questo assetto continua a riflettersi nella legislazione successiva, sino al D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 80.
Invero, come nei nove "particolari" casi enucleati nel R.D. 30 settembre 1923, n. 2840, art. 8 (ribaditi nel R.D. 26 giugno 1924, n. 1054, della L. n. 1034 del 1971, artt. 29 e 7) così in quelli successivamente introdotti (tra gli altri: L. n. 1185 del 1967, art. 11; L. n. 10 del 1977, art. 16; L. n. 47 del 1985, art. 35; L. n. 210 del 1985, art. 11; L. n. 241 del 1990, artt. 11 e 15; L. n. 287 del 1990, art. 33, comma 1.; D.Lgs. n. 74 del 1992, art. 7, comma 11; L. n. 109 del 1994, art. 4, comma 7; L. n. 481 del 1995, art. 2, comma 25; L. n. 249 del 1997, art. 1, comma 26), sono sempre rimaste riservate al giudice ordinario le questioni attinenti ai diritti patrimoniali consequenziali, compreso il risarcimento del danno.
Ma, vale la pena di notarlo, è in questo assetto normativo che la giurisprudenza ha nel tempo elaborato, e con costanza applicato, i principi dell'irrisarcibilità dell'interesse legittimo, della degradazione del diritto ad interesse e della pregiudizialità amministrativa. Sicchè non sarà senza ragione, se questo assetto normativo ed il bagaglio dei concetti che sono valsi a dargli spiegazione, apparirà richiedere modifiche, una volta che si affermerà, con il D.Lgs. n. 80 del 1998, la contraria regola della risarcibilità dell'interesse legittimo.
7. Facendo un passo indietro e tornando al riparto delle giurisdizioni, va detto che il dibattito restava aperto, non tanto sull'ubi consistam del riparto, non più contestato, quanto sull'esatta individuazione dei rispettivi territori, dei diritti e degli interessi, che non vivevano in mondi separati, poichè gli uni e gli altri costellavano il rapporto tra privato e p.a., vagando da un rapporto di coesistenza ad uno di successione, in situazioni dal confine incerto, a volte dubbio, di "facile trapasso" (Cass., sez. un., 5 dicembre 1987 n. 9095 e 9096).
Il sistema - al di là di qualche decisione provocatoria della Cassazione, rimasta isolata (Cass., sez. 1^, 3 maggio 1996 n. 4083), o di eccezioni di incostituzionalità, poi disattese (Corte Cost., 8 maggio 1998 n. 165) - è durato dal 1865 fino al 1992 (un periodo lungo ben 127 anni).
A metterlo in crisi sono stati i principi comunitari in tema di appalti pubblici di lavori o forniture.
L'introduzione di una fattispecie di risarcibilità degli interessi legittimi lesi, in violazione del diritto comunitario, viene alla luce con la L. 19 febbraio 1992, n. 142, art. 13 (Legge Comunitaria del 1991).
In attuazione della direttiva del consiglio Ce n. 665/89 del 21 dicembre 1989, si riconosceva, in materia di aggiudicazione di appalti pubblici, la possibilità di ottenere, dopo l'annullamento dell'atto lesivo da parte del giudice amministrativo, il risarcimento del danno dal giudice ordinario.
Tuttavia, l'itinerario da percorrere apparve subito particolarmente gravoso, in quanto si obbligava il privato ad adire prima il giudice amministrativo per l'annullamento e, poi, il giudice ordinario per il risarcimento del danno, così mettendo in discussione il principio di effettività della tutela giurisdizionale sancito dall'art. 24 Cost..
Il legislatore italiano, in un primo tempo, estese la norma anche agli appalti dei settori esclusi (L. 19 dicembre 1992, n. 489, art. 11) e poi agli appalti di servizi (L. 22 febbraio 1994, n. 146, art. 11, lett. i): legge comunitaria per il 1993), ma, per negare la valenza dirompente sul precedente riparto, si preferì considerarla "una norma di settore e non di portata generale" (Cass., sez. un., 20 aprile 1994 n. 3732). Di qui un deciso cambiamento di rotta con la soppressione del richiamo della L. n. 142 del 1992, art. 13 contenuto nella L. 11 febbraio 1994, n. 109, art. 32, comma 3, per effetto della novella introdotta dal D.L. 3 aprile 1995, n. 101, convertito con modifiche nella L. 2 giugno 1995, n. 216. La "rivoluzionaria disposizione" è stata infine espressamente abrogata dal D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 35, u.c. (divenuto L. n. 205 del 2000, art. 7, u.c.), insieme con "ogni altra disposizione che prevede la devoluzione al giudice ordinario delle controversie sul risarcimento del danno Conseguente all'annullamento di atti amministrativi".
Si può dunque dire, per un verso, che la disposizione introdotta con la L. n. 142 del 1992 ha contribuito a smantellare il precedente sistema orientato ad evitare il risarcimento del danno da lesione dell'interesse legittimo; e per altro verso che per il suo mezzo sono state poste le premesse perchè la Corte costituzionale sia stata indotta a riconoscere nella concentrazione delle tutele dinanzi allo stesso giudice una piena attuazione dell'art. 24 Cost..
8. E' nel quadro sino ad ora descritto che il legislatore di fine secolo introduce una nuova specie di giurisdizione esclusiva, separata anche dalla giurisdizione di legittimità e ancorata a "settori" dell'ordinamento pubblico, con rilevante presenza di un pubblico interesse.
Il Governo con il D.Lgs. n. 80 del 1998 - anche superando i limiti della delega conferita dalla L. 15 marzo 1997, n. 59, art. 11, comma 4, lett. g), - e, dopo la dichiarazione di incostituzionalità (Corte Cost. 17 luglio 2000, n. 292), il Parlamento con la L. n. 205 del 2000, attribuiscono i "settori particolari" degli appalti e servizi pubblici nonchè dell'edilizia e urbanistica ad una "nuova" giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, estesa anche ai diritti patrimoniali consequenziali e al risarcimento del danno.
Il legislatore, inoltre, estende la nuova giurisdizione non solo alle vecchie ipotesi di "servizi pubblici, edilizia ed urbanistica", ma a qualsiasi fattispecie di giurisdizione esclusiva vecchia o nuova.
Si porta a compimento l'indirizzo che vede nella giurisdizione esclusiva "il ramo più fertile e cioè più proiettato nel futuro della giurisdizione amministrativa". Nel contempo, la risarcibilità dell'interesse legittimo, già prevista dal D.Lgs. n. 80 del 1998 (ma ricondotta dalle sentenze della Corte Costituzionale n. 292 del 2000 e n. 281 del 2004 nei limiti della delega conferita con la L. n. 59 del 1997) è estesa all'intero ambito delle situazioni giuridiche giustiziabili davanti al giudice amministrativo.
9. In conclusione, l'ordinamento ha ora accolto il principio della risarcibilità della lesione dell'interesse legittimo in conseguenza dell'illegittimità dell'atto amministrativo, prevedendo - in attuazione della regola della concentrazione - che il giudice amministrativo può conoscere di tutte le questioni relative all'eventuale risarcimento del danno e disporlo.
10. Il tessuto normativo che è alla base della soluzione da adottare si può così sintetizzare.
Il D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 35, come sostituito dalla L. n. 205 del 2000, art. 7, lettera c), nel comma 1 stabilisce che "Il giudice amministrativo, nelle controversie devolute alla sua giurisdizione esclusiva, dispone, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto". Il citato articolo, nel comma 4 (sostituendo il primo periodo della L. n. 1034 del 1971, art. 7, comma 3), prevede che "Il tribunale amministrativo regionale, nell'ambito della sua giurisdizione, conosce anche di tutte le questioni relative all'eventuale risarcimento del danno, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, e agli altri diritti patrimoniali consequenziali". A sua volta, il comma 2 disciplina le modalità di determinazione della somma dovuta, disponendo che ".. il giudice amministrativo può stabilire i criteri in base ai quali l'amministrazione pubblica o il gestore del pubblico servizio devono proporre a favore dell'avente titolo il pagamento di una somma entro un congruo termine. Se le parti non giungono ad un accordo, con il ricorso previsto dal testo unico approvato con R.D. 26 giugno 1924, n. 1054, art. 27, comma 1, numero 4), può essere chiesta la determinazione della somma dovuta".
11. La dichiarazione di incostituzionalità non ha colpito la normativa appena ricordata; ha invece riguardato la L. n. 205 del 2000, art. 7 per la mancata esclusione dall'ambito della giurisdizione esclusiva delle controversie "nelle quali può essere del tutto assente ogni profilo riconducibile alla pubblica amministrazione - autorità", con il ritorno alla dicotomia "diritti soggettivi - interessi legittimi", ripudiando il diverso criterio dei "blocchi di materie" che mirava a trasformare il giudice amministrativo nel "giudice dell'amministrazione".
Si afferma in proposito che la giurisdizione esclusiva introdotta dalla L. n. 205 del 2000 appare configgere con i parametri costituzionali ed è qualitativamente diversa dalla precedente, che riguardava specifiche controversie "connotate non già da una generica rilevanza pubblicistica, bensì dall'intreccio di situazioni soggettive qualificabili come interessi legittimi e come diritti soggettivi". Si precisa che l'adozione, da parte del legislatore del 1998-2000, di un'idea di giurisdizione esclusiva, ancorata alla pura e semplice presenza, in un certo settore dell'ordinamento, di un rilevante pubblico interesse, avrebbe presupposto la modifica dell'art. 103 Cost., mai approvata, nel senso che "la giurisdizione amministrativa ha ad oggetto le controversie con la pubblica amministrazione nelle materie indicate dalla legge" (Atto Camera 7465, 13^ Legislatura). Viceversa, il vigente art. 103 Cost., comma 1 "non ha conferito al legislatore ordinario una assoluta ed incondizionata discrezionalità nell'attribuzione al giudice amministrativo di materie devolute alla sua giurisdizione esclusiva, ma gli ha conferito il potere di indicare particolari materie, nelle quali, la tutela nei confronti della pubblica amministrazione investe anche diritti soggettivi". Il collegamento delle "materie" assoggettabili alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo con la natura delle situazioni soggettive è espresso dall'art. 103 Cost. laddove statuisce che quelle materie devono essere "particolari" rispetto a quelle già devolute alla giurisdizione generale di legittimità, in cui la p.a. agisce come autorità nei confronti della quale è accordata tutela al cittadino davanti al giudice amministrativo.
In conclusione, il legislatore ordinario ben può ampliare l'area della giurisdizione esclusiva, ma con riguardo a "materie particolari" in cui la giurisdizione naturale sugli interessi attrae la cognizione dei diritti concorrenti e strettamente connessi. Ciò comporta che la mera partecipazione della p.a. al giudizio non è sufficiente per radicare la giurisdizione del giudice amministrativo - "il quale davvero assumerebbe le sembianze di giudice "della" pubblica amministrazione: con violazione dell'art. 25 Cost. e art. 102 Cost., comma 2" - e, inoltre, non è sufficiente "il generico coinvolgimento di un pubblico interesse nella controversia perchè questa possa essere devoluta al giudice amministrativo". Sono, pertanto, sottratte alla funzione unificante della Corte di cassazione le sole pronunce che investano i diritti soggettivi nei confronti dei quali, nel rispetto della "particolarità" della materia nel senso sopra chiarito, il legislatore ordinario abbia legittimamente previsto la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo su diritti e interessi, nonchè quelle che riguardano le forme di tutela che il giudice amministrativo ritenga di accordare all'interesse legittimo.
12. Si tornerà sulle conseguenze che, dalle precedenti affermazioni di principio, la Corte ha tratto a proposito del modo in cui il legislatore ha configurato le materie di giurisdizione esclusiva delineate nel D.Lgs. n. 80 del 1998, artt. 33 e 34 modificati dalla L. n. 205 del 2000: punto sul quale la Corte si è ancora soffermata nella sentenza n. 191 del 2006 a proposito del ruolo che, nel campo dell'espropriazione, assumono comportamenti volti alla anticipata realizzazione di opere, pur sempre dichiarate di pubblica utilità, 13. Qui interessa soffermarsi sul punto che la dichiarazione di incostituzionalità non ha investito le disposizioni contenute nel D.Lgs. n. 80, art. 35 come riformulate dalla L. n. 205 del 2000, art. 7, lett. c).
La Corte ha osservato che "il potere riconosciuto al giudice amministrativo di disporre, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto non costituisce sotto alcun profilo una nuova materia attribuita alla sua giurisdizione, bensì uno strumento di tutela ulteriore, rispetto a quello classico demolitorio (e/o conformativo), da utilizzare per rendere giustizia al cittadino nei confronti della pubblica amministrazione".
Su questa parte della motivazione della sentenza 204, la Corte è tornata nella sentenza n. 191 di questo anno.
Ha in particolare considerato come sia da escludere che "per ciò solo che la domanda proposta dal cittadino abbia ad oggetto esclusivo il risarcimento del danno, la giurisdizione competa al giudice ordinario": ed ha osservato che dove "la legge - come fa il D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 35 - costruisce il risarcimento del danno, ai fini del riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo, come strumento di tutela affermandone - come è stato detto - il carattere "rimediale", essa non viola alcun precetto costituzionale e, anzi, costituisce attuazione del precetto dell'art. 24 Cost. laddove questo esige che la tutela giurisdizionale sia effettiva e sia resa in tempi ragionevoli". "In altri termini" - ha osservato la Corte - "al precedente sistema che, in considerazione della natura intrinseca di diritto soggettivo della situazione giuridica conseguente all'annullamento del provvedimento amministrativo, attribuiva al giudice ordinario le controversie sul risarcimento del danno conseguente all'annullamento di atti amministrativi (così il D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 35, comma 5, come modificato dalla L. n. 205 del 2000, art. 7, lett. c)) il legislatore ha sostituito (appunto con l'art. 35 cit.) un sistema che riconosce esclusivamente al giudice naturale della legittimità dell'esercizio della funzione pubblica poteri idonei ad assicurare piena tutela, e quindi anche il potere di risarcire, sia per equivalente sia in forma specifica, il danno sofferto per l'illegittimo esercizio della funzione".

14. Il lungo cammino sin qui percorso nel ricostruire la vicenda normativa è valso a rendere intelligibile quale si debba oggi considerare il punto d'arrivo nella ricerca della soluzione del primo degli aspetti segnalati all'inizio, ovverosia in base a quali criteri si trovi oggi ad essere stabilito il riparto tra le giurisdizioni.
Rilevano a questo fine due momenti ed in particolare la situazione soggettiva del cittadino considerata nel suo aspetto statico e gli effetti che l'ordinamento ricollega all'azione amministrativa una volta che questa sia esercitata. La tutela giurisdizionale contro l'agire illegittimo della pubblica amministrazione spetta al giudice ordinario, quante volte il diritto del privato non sopporti compressione per effetto di un potere esercitato in modo illegittimo o, se lo sopporti, quante volte l'azione della pubblica amministrazione non trovi rispondenza in un precedente esercizio del potere, che sia riconoscibile come tale, perchè a sua volta deliberato nei modi ed in presenza dei requisiti richiesti per valere come atto o provvedimento e non come mera via di fatto. A questo fine, si ritiene che vada richiamato il principio di diritto affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 204 del 2000, secondo cui la giurisdizione del giudice amministrativo resta in ogni caso delimitata dal collegamento con l'esercizio in concreto del potere amministrativo secondo le forme tipiche previste dall'ordinamento: ciò sia nella giurisdizione esclusiva che nella giurisdizione di annullamento.
Il che non si verifica quando l'amministrazione agisca in posizione di parità con i soggetti privati, ovvero quando l'operare del soggetto pubblico sia ascrivibile a mera attività materiale, con la consapevolezza che si verte in questo ambito ogni volta che l'esercizio del potere non sia riconoscibile neppure come indiretto ascendente della vicenda.
Esemplificando, l'amministrazione deve essere convenuta davanti al giudice ordinario in tutte le ipotesi in etti l'azione risarcitoria costituisca reazione alla lesione di diritti incomprimibili, come la salute (Cass. 7 febbraio 1997 n. 1187; 8 agosto 1995 n. 8681; 29 luglio 1995 n. 8300; 20 novembre 1992 n. 12386; 6 ottobre 1979 n. 5172) o l'integrità personale.
Deve ancora essere convenuta davanti al giudice ordinario, quante volte la lesione del patrimonio del privato sia l'effetto indiretto di un esercizio illegittimo o mancato di poteri, ordinati a tutela del privato (Cass. 29 luglio 2005 n. 15916; 2 maggio 2003 n. 6719):
qui si è nell'ambito delle controversie meramente risarcitorie già contemplate nel D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 33, comma 2, nel testo anteriore alla riformulazione attuatane con la sentenza 204 del 2004, la cui previsione non è più necessaria, nella misura in cui in esse è ravvisarle, più in generale, la reazione a meri comportamenti lesivi dell'amministrazione.
Nel settore delle occupazioni illegittime, sono poi chiaramente ascrivibili alla giurisdizione ordinaria le forme di occupazione "usurpativa", caratterizzate dal tratto, che la trasformazione irreversibile del fondo si produce in una situazione in cui una dichiarazione di pubblica utilità manca affatto.
E alla stessa conclusione si deve pervenire nel caso in cui il decreto di espropriazione è pur stato emesso, e però in relazione a bene, la cui destinazione ad opera di pubblica utilità la si debba dire mai avvenuta giuridicamente od ormai venuta meno, per mancanza iniziale o sopravvenuta scadenza del suo termine d'efficacia.
Dove per contro la situazione soggettiva, nei termini che si sono indicati, si presenta come interesse legittimo, la tutela risarcitoria ne va chiesta al giudice amministrativo.
Conviene a tale riguardo soffermarsi su alcune fattispecie la cui classificazione ha sin qui dato luogo a discussione ed il cui tratto peculiare si rinviene nella circostanza che oggetto della domanda non è l'annullamento di un atto, ma appunto solo il risarcimento del danno.
Riconducigli alla giurisdizione del giudice amministrativo appaiono i casi in cui la lesione di una situazione soggettiva dell'interessato è postulata come conseguenza d'un comportamento inerte, si tratti di ritardo nell'emissione di un provvedimento risultato favorevole o di silenzio.
Ciò che viene qui in rilievo è bensì un comportamento, ma il comportamento si risolve nella violazione di una norma che regola il procedimento ordinato all'esercizio del potere e perciò nella lesione di una situazione di interesse legittimo pretensivo ( Ad. pl. 15 settembre 2005, n. 7). non di un diritto soggettivo. Presenta analogie con questa situazione, quella valutata dalla Corte costituzionale nella sua più recente decisione, dove parimenti l'accesso al giudice amministrativo non è segnato da una domanda di annullamento, ma si considera che ad attrarre la fattispecie nell'orbita della sua giurisdizione possa valere la presenza di un concreto riconoscibile atto di esercizio del potere: quel potere, in particolare, che si è manifestato nella dichiarazione di pubblica utilità.
15. - Resta da affrontare quello che all'inizio si è indicato come secondo aspetto problematico della tutela del cittadino di fronte all'attività provvedimentale illegittima della pubblica amministrazione, ovverosia la possibilità di domandare la sola tutela risarcitoria.
Da quando nell'ordinamento si è preso a considerare risarcibile la lesione di un interesse legittimo, è emerso il tema se il privato si possa limitare a rivendicare per il diritto o l'interesse leso la sola tutela risarcitoria e quale possa essere il trattamento processuale di tale domanda.
16. Sino alla più recente sentenza della Corte costituzionale, si erano manifestate sul punto due posizioni ermeneutiche in assoluto contrasto tra loro.
Secondo una prima, più diffusa opinione, "tutta amministrativa", il D.Lgs. n. 80 del 1998 e la L. n. 205 del 2000 avrebbero attribuito, in via generale, al giudice amministrativo la cognizione delle pretese di risarcimento del danno da atti illegittimi della p.a., in sede di giurisdizione esclusiva (in virtù dell'art. 35, comma 1) o di legittimità (in virtù del comma 4), che entrambe hanno ora assunto il connotato di giurisdizione "piena".
In tal senso è apparso orientarsi il Consiglio di Stato, secondo cui la ratio della riforma iniziata con il D.Lgs. n. 80 del 1998 e completata con la L. n. 205 del 2000 è stata quella di concentrare davanti ad un unico giudice, quello amministrativo, in coerenza con l'art. 24 Cost., ogni forma di tutela, anche risarcitoria, nei confronti della p.a., quando viene in gioco la lesione di interessi legittimi (Cons. Stato, sez. 6^, 18 giugno 2002 n. 3338; Ad. plen. 26 marzo 2003 n. 4; Ad plen. 30 agosto 2005 n. 8).
In particolare, alcune pronunce (Ad plen. 4 del 2003) hanno fatto propria la tesi per cui le norme richiamate avrebbero previsto, come necessaria condizione per l'accesso alla tutela risarcitoria, che nel termine di decadenza per l'impugnazione fosse anche esperita con esito favorevole l'azione di annullamento, ancorchè la tutela risarcitoria possa essere richiesta non insieme, ma successivamente.
Ciò in ragione del principio della cd. pregiudiziale amministrativa.
L'annullamento avrebbe dovuto essere richiesto in via principale nel termine di decadenza, perchè al giudice amministrativo non è consentita la cognizione incidentale della illegittimità degli atti amministrativi nè esso è munito del potere di disapplicazione.
Consegue che, se la tutela di annullamento non è richiesta nel termine per l'impugnazione del provvedimento, questo diviene inoppugnabile, precludendo l'accesso non solo alla tutela risarcitoria erogabile dal giudice amministrativo, ma anche a quella che potesse essere chiesta al giudice ordinario, facendo valere l'atto illegittimo come elemento costitutivo dell'illecito civile (secondo la sent. 500 del 1999 delle S.U.).
Il Consiglio di Stato aveva peraltro ammesso che l'azione risarcitoria potesse essere proposta in taluni casi davanti al giudice amministrativo come domanda autonoma (Cons. Stato, sez. 6^, 18 giugno 2002 n. 3338).
E ciò, oltre che nei casi di danno da ritardo, in quelli in cui l'annullamento del provvedimento vi sia già stato, ad opera dello stesso giudice amministrativo (ad esempio in epoca in cui la giurisdizione amministrativa non era ancora una giurisdizione "piena") od a seguito di annullamento su ricorso amministrativo o straordinario o di annullamento di ufficio.
Nello scenario così delineato, la giurisdizione del giudice amministrativo sulle pretese risarcitorie del cittadino che si assume leso in una posizione giuridica sostanziale (di diritto o di interesse legittimo) dall'esercizio illegittimo della funzione amministrativa non dovrebbe concorrere con una, sia pur residuale, giurisdizione del giudice ordinario. Ovvio che il giudice amministrativo, nato come giudice dell'atto e non del rapporto, avrà non poche difficoltà a distinguere il danno specie sotto il profilo della determinazione del quantum del danno risarcibile: dovrà mutuare le regole civilistiche sul concetto stesso di danno come fatto, sul nesso di causalità, anche ipotetico (si pensi all'art. 1221 c.c.), sui criteri di valutazione ex art. 1223, 1225, 1226 c.c., art. 1227 c.c., comma 1 (concorso di cause) e comma 2 (danni evitabili con l'ordinaria diligenza).
Una diversa ricostruzione, "tutta civilistica", è stata prospettata da parte della dottrina, muovendo dai principi affermati dalla sent. 500 del 1999 delle S.U..
Punto di partenza ne è la qualificazione della pretesa risarcitoria come diritto soggettivo, sia nei confronti del privato che della p.a., in una concezione che nega rilevanza ai successivi interventi normativi, i quali non potrebbero scalfire, con il mero collegamento processuale, la tutela sostanziale riconosciuta al diritto soggettivo, nei confronti di chiunque azionato.
Si è mossi dalla considerazione che, secondo la Corte costituzionale, "il potere riconosciuto al giudice amministrativo di disporre, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto non costituisce sotto alcun profilo una nuova "materia" attribuita alla sua giurisdizione, bensì uno strumento di tutela ulteriore, rispetto a quello classico demolitorio (e/o conformativo), da utilizzare per rendere giustizia al cittadino nei confronti della p.a.".
Il profilo di connessione processuale non avrebbe escluso tuttavia che la tutela sia apprestata ad una posizione sostanziale avente natura di diritto soggettivo: il diritto al risarcimento del danno ingiusto.
Il danno ingiusto, determinato dalla lesione di un interesse giuridicamente rilevante (sia esso diritto soggettivo o interesse legittimo: sent. 500 del 1999), sarebbe fonte di una obbligazione di risarcimento (ex art. 2043 c.c. o ex art. 1218 c.c. secondo il possibile diverso atteggiarsi della responsabilità della p.a.), mentre la parte che chiede il risarcimento aziona sempre un diritto soggettivo. La sentenza n. 204 del 2004 della Corte Costituzionale avrebbe, quindi, solo negato che il novellato art. 35 abbia istituito una nuova giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo avente ad oggetto il diritto al risarcimento del danno.
Il punto rilevante, nella decisione della Corte, sarebbe stato là dove si è rilevato che l'attribuzione dell'ulteriore strumento della tutela risarcitoria, venuto ad aggiungersi a quello classico della tutela di annullamento, è valsa a configurare la giurisdizione del giudice amministrativo, in attuazione del precetto dell'art. 24 Cost., come giurisdizione atta a garantire piena ed effettiva tutela alle situazioni soggettive ad essa devolute, per evitare al cittadino di doversi rivolgere a due diversi ordini di giudici, cioè a quello amministrativo per conseguire prima l'annullamento e poi a quello ordinario per ottenere il risarcimento del danno, come diritto patrimoniale consequenziale.
E' stato messo in dubbio che la Corte abbia inteso riferirsi soltanto alla giurisdizione esclusiva (art. 35, comma 1), ovvero anche a quella generale di legittimità (art. 35, comma 4), ma si è considerato corretto attribuire ampia valenza alla ravvisata estensione dei poteri del g.a. in entrambe le giurisdizioni, che risultano quindi connotate da pienezza.
La Corte non si sarebbe peraltro in alcun modo espressa sulla natura del risarcimento del danno.
Se, quindi, si tiene ferma la qualificazione del diritto al risarcimento del danno ingiusto come diritto soggettivo, resterebbe valido il principio di ordine generale secondo cui il giudice dei diritti soggettivi è il giudice ordinario (art. 2 della l.a.c.a).
Di qui la conseguenza che il giudice della tutela risarcitoria sarebbe stato, di regola, il giudice ordinario.
A questa regola l'art. 35, commi 1 e 4, avrebbe apportato deroga (secondo il criterio della connessione), col consentire che il giudice amministrativo, nelle controversie devolute alla sua giurisdizione esclusiva, possa disporre, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto e che nell'esercizio della sua giurisdizione (di legittimità) possa conoscere di tutte le questioni relative all'eventuale risarcimento del danno e agli altri diritti patrimoniali consequenziali.
Non sarebbe stato tuttavia corretto sostenere che si tratti di una concentrazione necessaria, con attrazione inscindibile della tutela risarcitoria al seguito di quella di annullamento, in presenza di un atto amministrativo da impugnare. La concentrazione sarebbe infatti funzionale, in termini di pienezza ed effettività della tutela, alle esigenze del cittadino che chiede giustizia nei confronti della p.a., e pertanto non la si potrebbe ritenere doverosa e tale da dover essere praticata come unica via esclusiva.
Nè, d'altra parte, sarebbe desumibile dal testo normativo - così come interpretato costituzionalmente - che al riconoscimento, in positivo, al giudice amministrativo del potere di disporre il risarcimento del danno ingiusto (comma 1) e di conoscere delle questioni relative all'eventuale risarcimento del danno (comma 4), si unisca, in negativo, la totale sottrazione di eguale potere al giudice ordinario.
Il giudice amministrativo avrebbe potuto conoscere di questioni relative al risarcimento del danno e, cioè, di questioni attinenti ad un diritto soggettivo la cui cognizione è di regola attribuita al giudice ordinario, nel caso in cui il cittadino si fosse avvalso della facoltà di richiedere a tale giudice la tutela risarcitoria congiuntamente a quella di annullamento. In questa ipotesi, come è stato osservato, le norme in esame realizzerebbero una deroga alla giurisdizione per ragioni di connessione.
Si è ancora notato che la prevista concentrazione troverebbe giustificazione nel tipo di tutela che, oltre a quella di annullamento, il giudice amministrativo può somministrare: una "tutela ulteriore" che è di completamento rispetto a quella primaria della quale postula l'esito positivo, nel senso che serve a rimuovere i pregiudizi che l'annullamento non ha potuto eliminare.
E' per effetto della dipendenza della tutela ulteriore da quella di annullamento che il giudice amministrativo può prendere in esame questioni relative al risarcimento (ed agli altri diritti patrimoniali consequenziali) solo se gli è richiesto e ritiene di concedere l'annullamento dell'atto lesivo.
Quanto alle conseguenze della omessa richiesta della tutela di annullamento nel termine di decadenza, con conseguente inoppugnabilità dell'atto, si è rilevato che la decadenza preclude la via della tutela di annullamento e, di conseguenza, della tutela risarcitoria di completamento (da erogare nelle peculiari forme di cui all'art. 35, comma 2).
Non sarebbe invece precluso il ricorso alla sola tutela risarcitoria.
Si è rilevato, infatti, che in un sistema in cui al cittadino sono riconosciuti sia la tutela di annullamento, sia quella risarcitoria (e questa nella duplice connotazione di tutela di completamento che al g.a. è dato somministrare ex art. 35, comma 2, e di tutela risarcitoria secondo le regole del diritto civile), non necessariamente le due forme di tutela debbono essere spese entrambe.
Se il danneggiato dall'esercizio illegittimo del potere amministrativo non si vuole avvalere, non avendone interesse, della tutela costitutiva di annullamento del provvedimento lesivo della sua posizione giuridica sostanziale, ma ritiene, invece, conforme al suo concreto interesse avvalersi della sola tutela risarcitoria, potrà farlo, in via autonoma, davanti al giudice ordinario.
Quest'ultimo non dovrà giudicare in via incidentale della legittimità dell'atto, in funzione della sua disapplicazione (art. 4, comma 1, l.a.c.a.), ma dovrà valutare il provvedimento solo come fatto, come elemento costitutivo dell'illecito. Non si porrebbe un problema di pregiudizialità in senso tecnico, poichè tale problema si poneva solo quando, prima della sentenza n. 500 del 1999, era necessario attendere l'annullamento per poter risarcire il danno arrecato dal sacrificio di situazioni di diritto degradato ad interesse. Una volta riconosciuto che la lesione dell'interesse protetto obbliga anche la p.a. al risarcimento del danno, è venuto meno il nesso di dipendenza della risarcibilità dal previo annullamento dell'atto.
Nelle ipotesi in cui l'annullamento non fosse stato chiesto, potrebbe eventualmente porsi un problema attinente al merito della decisione, sotto il profilo se nel danno risarcibile rientri la situazione determinata dal provvedimento di cui non si sia voluto domandare l'annullamento.
Nelle ipotesi in cui l'annullamento sia stato già disposto dallo stesso giudice amministrativo (in epoca in cui la giurisdizione amministrativa non era ancora una giurisdizione "piena"), a seguito di ricorso straordinario, o d'ufficio, ovvero nel caso in cui manchi l'atto, come avviene per il danno da ritardo, si sarebbe potuto egualmente adire per la tutela risarcitoria il giudice ordinario, poichè l'estensione della cognizione del giudice amministrativo alle questioni relative al risarcimento postula che la relativa tutela sia stata richiesta congiuntamente a quella di annullamento.
17. La sopravvenuta decisione della Corte costituzionale spiana la strada e indirizza la scelta verso la concentrazione della tutela risarcitoria presso il giudice amministrativo, ma lascia impregiudicato il punto del trattamento processuale della tutela risarcitoria.
18. - Le Sezioni unite - nell'esercizio della funzione di riparto della giurisdizione (artt. 31, 41 c.p.c., art. 360 c.p.c., n. 1, art. 362 c.p.c.; L. 11 marzo 1953, n. 87, art. 37, comma 2) ad esse attribuito dal nuovo codice di rito (dopo la soppressione del Tribunale dei conflitti, istituito con L. 31 marzo 1877, n. 3761, cd. L. Mancini-Peruzzi) - ritengono che sia necessario accedere ad una soluzione, che, mentre tiene conto dei principi costituzionali che legano la tutela giurisdizionale offerta dai due ordini di giudici alle situazioni soggettive, alla luce del criterio enunciato dall'art. 103 Cost., fa propri i valori di effettività e concentrazione delle tutele sottesi all'art. 111 Cost. - e in particolare al principio della ragionevole durata dei processi - che la Corte costituzionale ha assunto come criterio-guida di interpretazione delle altre norme in materia di giustizia.
19. In quest'ottica, va adeguatamente ricordato che alla tutela risarcitoria dell'interesse legittimo nei confronti della pubblica amministrazione questa Corte è pervenuta non già estendendo la detta tutela dai diritti soggettivi agli interessi legittimi, - bensì affermando che, sul piano della tutela risarcitoria, non si può fare differenza tra interessi che trovano protezione diretta nell'ordinamento e interessi che trovano protezione attraverso l'intermediazione del potere amministrativo.
Questa svolta - che cancella sul piano sostanziale, con riferimento alla tutela risarcitoria, il divario tra diritti ed interessi altrimenti rilevanti - matura in un momento storico in cui il legislatore ha imboccato la strada che lo porterà a configurare la giurisdizione del giudice amministrativo come una giurisdizione piena ed esige, di conseguenza, che sia data una più coerente lettura al sistema del riparto di giurisdizioni, in particolare una lettura che leghi la potestas iudicandi alla natura della situazione soggettiva.
La tesi "tutta civilistica" non può essere condivisa allorchè disattende la svolta voluta dal legislatore di assicurare all'interesse legittimo una tutela piena, concentrata dinanzi a un unico giudice per il principio di effettività che reca in sè la ragionevolezza dei tempi di tutela.
La soluzione, fatta propria dal legislatore del 2000 e in linea con la portata di "norma di sistema" riconosciuta dalla Corte costituzionale all'art. 24 Cost. con la sentenza 204 del 2004, da ultimo ribadita, è coerente con la riaffermazione del criterio tradizionale del riparto fondato non sulla distinzione tra le tecniche di tutela, bensì sulla natura sostanziale delle situazioni soggettive. D'altra parte, questa ricostruzione è coerente anche con il processo di evoluzione che caratterizza l'interesse legittimo, che va perdendo la sua tradizionale funzione meramente famulativa o ancillare rispetto all'interesse pubblico, per assumere un più marcato connotato sostanziale, coerentemente del resto con l'evoluzione della stessa nozione di interesse pubblico, al cui perseguimento si accompagna un aumento della discrezionalità, ma anche della connessa responsabilità dell'amministrazione.
Deriva da ciò che - in linea di principio e salvo quanto si è già considerato - la giurisdizione sulla tutela dell'interesse legittimo non può che spettare al giudice amministrativo, sia nella tecnica della tutela di annullamento, sia nelle tecniche della tutela risarcitoria, in forma specifica o per equivalente: tecniche che non possono essere oggetto di separata e distinta considerazione ai fini della giurisdizione.
20. Del pari non può essere condivisa la soluzione cd.
"amministrativa", dove, da una parte, pone un nesso inscindibile, non richiesto dalle norme di legge nè dal quadro costituzionale, tra tutela di annullamento e tutela risarcitoria (Ad. Plen. n. 4 del 2003), dall'altra, sembra ricomprendere nella giurisdizione amministrativa ogni contesto caratterizzato dalla presenza della funzione pubblica senza esigere che di tale funzione si sia avuto un concreto esercizio, nei modi e forme tipici del potere amministrativo, che soli consentono di riconoscere l'atto come espressione di un potere esistente.
Dal primo punto di vista non è privo di rilievo il considerare che la teoria della pregiudizialità amministrativa, intesa come dipendenza del diritto al risarcimento dal previo annullamento, era maturata in un contesto nel quale da un lato si escludeva la risarcibilità del pregiudizio sofferto per il sacrificio di situazioni di interesse legittimo, dall'altro si era omologato al trattamento di questa situazione quella del diritto soggettivo degradato ad interesse.
Nè è senza importanza considerare che la soggezione a termine di decadenza è prevista dalla legge per l'azione di annullamento e, in questo sistema, l'accertamento incidentale dell'illegittimità viene negato non solo per escludere che vizi prima non rilevati possano esserlo dopo dando luogo all'annullamento di provvedimenti che presuppongono quello non impugnato, ma anche perchè gli effetti dell'azione di annullamento non si esauriscono nel rapporto tra amministrazione e soggetto leso e, ben spesso, si rifrangono su altri soggetti in conflitto con chi sollecita l'annullamento.
Ma, non di questo si tratta quando non l'annullamento dell'atto è preteso, bensì l'accertamento della illiceità della situazione determinata dalla sua adozione ed esecuzione, accertamento che esaurisce la sua rilevanza nel rapporto tra soggetto leso e pubblica amministrazione.
Queste considerazioni, unitamente ai ricordati processi di cambiamento che caratterizzano l'interesse legittimo e la sua relazione con l'interesse pubblico, giustificano ampiamente l'abbandono di un approccio di tipo tradizionale. Ammettere la necessaria dipendenza del risarcimento dal previo annullamento dell'atto illegittimo e dannoso, anzichè dal solo accertamento della sua illegittimità significherebbe restringere la tutela che spetta al privato di fronte alla pubblica amministrazione ed assoggettare il suo diritto al risarcimento del danno, anzichè alla regola generale della prescrizione, ad una Verwirkung amministrativa, tutta italiana.
La conclusione da accogliere è dunque che, dopo l'irruzione nel mondo del diritto della risarcibilità - effettiva e non solo dichiarata - anche dell'interesse legittimo, e dopo i ricordati tentativi dei primi anni novanta della doppia tutela (espressamente abrogata sia dal D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 35 sia " dalla L. n. 205 del 2000, art. 7, lett. c)), il legislatore di fine secolo non ha inteso ridurre la tutela risarcitoria al solo profilo di completamento di quella demolitaria, ma, mentre l'ha riconosciuta con i caratteri propri del diritto al risarcimento del danno, ha ritenuto di affidare la corrispondente tutela giudiziaria al giudice amministrativo, nell'intento di rendere il conseguimento di tale tutela più agevole per il cittadino.
21. In definitiva, si può affermare che entrambe le tesi su esposte ("tutta civilistica" e "tutta amministrativistica") conducono ad una possibile diminuzione dell'effettività della tutela del cittadino, in violazione dei principi derivanti dall'art. 24 Cost..
Quella civilistica, perchè finisce per frammentare o moltiplicare le sedi e i tempi della tutela giurisdizionale, per giunta secondo una direttrice che si allontana dalla regola del riparto.
Quella amministrativistica, perchè rischia di assicurare all'interesse legittimo una protezione che comprime l'ambito della tutela risarcitoria riducendone, per modalità o contenuti, la portata.
Essa altresì, secondo alcuni svolgimenti già segnalati, finisce con l'estendere l'area della giurisdizione amministrativa al di là della connessione con l'esercizio in concreto del potere pubblico.
In una situazione del genere, l'osservazione secondo la quale il legislatore del 2000 ha opportunamente concentrato le forme di tutela dell'interesse legittimo in una sola sede giudiziaria deve essere accompagnata dalla consapevolezza della perdurante vigenza della L. 20 marzo 1865, artt. 2 e 4, all. E, che configurano comunque a tutela del cittadino la giurisdizione ordinaria come presidio per tutte le materie in cui- si faccia questione "di un diritto civile o politico".
Il nostro sistema si basa appunto sull'art. 2907 c.c., cui fa riscontro l'art. 99 c.p.c., ed è un sistema di civil law, in cui il riconoscimento della posizione soggettiva da tutelare, cristallizzata dal riconoscimento costituzionale (artt. 24 e 113 Cost.), precede la tutela giurisdizionale.
In un sistema del genere, la l. del 1865, art. 2 - secondo una lettura coerente con le disposizioni di cui al Titolo 4^ della Costituzione - costituisce, in definitiva, una norma di chiusura del sistema, che attribuisce al giudice ordinario il potere-dovere di assicurare la pienezza della tutela, quando altri valori di pari rilievo costituzionale non rendono legittimo il ricorso a diversi modelli di tutela.
22. Quante volte si sia in presenza di atti riferibili oltre che ad una pubblica amministrazione a soggetti ad essa equiparati ai fini della tutela giudiziaria del destinatario del provvedimento e l'atto sia capace di esplicare i propri effetti perchè il potere non incontra ostacolo in diritti incomprimibili della persona, la tutela giudiziaria deve dunque essere chiesta al giudice amministrativo.
Gli potrà essere chiesta la tutela demolitoria e, insieme o successivamente, la tutela risarcitoria completiva.
Ma la parte potrà chiedere al giudice amministrativo anche solo la tutela risarcitoria, senza dover osservare allora il termine di decadenza pertinente all'azione di annullamento.
23. A proposito di questo secondo enunciato, merita da un lato soffermarsi qui sulle considerazioni, già svolte, che hanno condotto a questa interpretazione delle norme attributive della giurisdizione e dall'altro renderne esplicite le conseguente.
Si è notato che, in rapporto alla tutela risarcitoria, è venuta meno sul piano del diritto sostanziale la differenza tra le situazioni che nell'ordinamento trovano protezione.
L'evoluzione dell'ordinamento ha cioè condotto ad omologare gli interessi legittimi ai diritti quanto al bagaglio delle tutele:
com'era stato per le situazioni di diritto soggettivo, di norma dotate, oltre che di tutela risarcitoria, anche di una tutela ripristinatoria, completata dal diritto al risarcimento del danno, così per gli interessi legittimi una tutela risarcitoria autonoma è stata affiancata alla tutela reale di annullamento, la sola di cui le situazioni di interesse legittimo erano prima dotate, e la tutela di annullamento è stata inoltre conformata in modo da comprendervi il risarcimento del danno, che con l'annullamento non si può elidere.
Se dal piano delle forme di tutela ci si sposta a quello del riparto della funzione di tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi nei confronti della pubblica amministrazione, un'interpretazione costituzionalmente orientata delle norme che hanno attribuito al giudice amministrativo la giurisdizione sul risarcimento del danno, consente di riconoscere loro la portata d'avere dato al giudice amministrativo giurisdizione anche solo in rapporto alla tutela risarcitoria autonoma.
Ma ciò perchè, nel bilanciamento tra valori rilevanti sul piano costituzionale, è da riconoscere legittimità ad una norma che mentre concentra la tutela giurisdizionale presso il giudice amministrativo, non reca pregiudizio alla tutela sostanziale delle situazioni soggettive sacrificate dall'agire illegittimo della pubblica amministrazione.
D'altra parte, questa interpretazione è la sola che riesce a rendere operanti insieme, per le situazioni soggettive di cui ora ci si occupa, il valore della giurisdizione piena e quello di una tutela sostanziale degli interessi legittimi non difforme da ogni altra situazione protetta in rapporto alla tutela risarcitoria. Sicchè dalla premessa discende in modo necessario la conseguenza che il giudice amministrativo non possa, allo stato della legislazione, se non esercitare la giurisdizione, che le norme gli attribuiscono quanto alla tutela risarcitoria autonoma, prescindendo dalle regole proprie della giurisdizione di annullamento.
Si può obiettare, che è nella disponibilità del legislatore disciplinare la tutela delle situazioni soggettive assoggettando a termini di decadenza l'esercizio dell'azione.
Tuttavia, una norma che oggi manca e che in modo esplicito assoggettasse ad un termine di decadenza la domanda di solo risarcimento del danno davanti al giudice amministrativo non porrebbe essere formulata nel senso di rendere il termine sostanzialmente eguale a quello cui è soggetta la domanda di annullamento, perchè ciò varrebbe a porre il diverso problema della legittimità di una disciplina che tornasse a negare la tutela risarcitoria autonoma per le situazioni soggettive sacrificate dall'esercizio illegittimo del potere della pubblica amministrazione.
Resta da esplicitare un altro aspetto che inerisce in modo necessario all'avere affermato che la L. 21 luglio 2000, n. 205, art. 7 ha dato al giudice amministrativo la giurisdizione sulla domanda autonoma di risarcimento del danno.
Tutela risarcitoria autonoma delle situazioni di interesse legittimo significa tutela che spetta alla parte per il fatto che la situazione soggettiva è stata sacrificata da un potere esercitato in modo illegittimo e la domanda con cui questa tutela è chiesta richiede al giudice di accertare l'illegittimità di tale agire.
Questo accertamento non può perciò risultare precluso dalla inoppugnabilità del provvedimento nè il diritto al risarcimento può essere per sè disconosciuto da ciò che invece concorre a determinare il danno, ovverosia la regolazione che il rapporto ha avuto sulla base del provvedimento e che la pubblica amministrazione ha mantenuto nonostante la sua illegittimità.
Dunque, il rifiuto della tutela risarcitoria autonoma, motivato sotto gli aspetti indicati, si rivelerà sindacabile attraverso il ricorso per cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione.
Il giudice amministrativo avrà infatti rifiutato di esercitare una giurisdizione che gli appartiene.
24. Al termine di questo lungo excursus, i principi di diritto enunciati da queste Sezioni Unite sono i seguenti:
1) la giurisdizione del giudice amministrativo sussiste in presenza di un concreto esercizio del potere, riconoscibile per tale in base al procedimento svolto ed alle forme adottate, in consonanza con le norme che lo regolano;
2) spetta al giudice amministrativo disporre le diverse forme di tutela che l'ordinamento appresta per le situazioni soggettive sacrificate dall'esercizio illegittimo del potere e tra queste forme di tutela rientra il risarcimento del danno;
3) Il giudice amministrativo rifiuta di esercitare la giurisdizione e la sua decisione, a norma dell'art. 362 c.p.c., comma 1, si presta a cassazione da parte delle sezioni (unite quale giudice del riparto della giurisdizione, se l'esame del merito della domanda autonoma di risarcimento del danno è rifiutato per la ragione che nel termine per ciò stabilito non sono stati chiesti l'annullamento dell'atto e la conseguente rimozione dei suoi effetti.
25. Va affermata, invece, la giurisdizione ordinaria sulla controversia promossa nei confronti del prof. F.E..
Ai fini della risoluzione del problema processuale non rileva stabilire se il F. abbia agito quale organo dell'Università, ovvero, a causa del perseguimento di finalità private, si sia verificata la cd. "frattura" del rapporto organico. Nell'uno, come nell'altro caso, l'azione risarcitoria è proposta nei confronti del funzionario in proprio, e, quindi, nel confronti di un soggetto privato, distinto dall'amministrazione, con la quale, al più, può risultare solidalmente obbligato (art. 28 Cost.).
La questione di giurisdizione, infatti, dalla quale esulano le altre sopra accennate, va risolta esclusivamente sulla base dell'art. 103 Cost., che non consente di ritenere che il giudice amministrativo possa conoscere di controversie di cui non sia parte una pubblica amministrazione, o soggetti ad essa equiparati.
26. Al riguardo, la giurisprudenza delle sezioni unite si è espressa in modo univoco nel ritenere essenziale, perchè possa prospettarsi l'appartenenza della controversia alla giurisdizione amministrativa, che sia proposte nei confronti di soggetti titolari di poteri amministrativi (Cass. S.U. 22494/2004, 2560/2005, 7800/2005). Il principio ha trovato specifica applicazione per il caso di pretesa risarcitoria avanzata nei confronti del funzionario cui era imputata l'adozione di provvedimento illegittimo (Cass. S.U. 3357/1992) ed ulteriormente precisato nel senso che la controversia va devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario in quanto fondata sulla deduzione di un fatto illecito extracontrattuale e intercorrente tra privati, non ostando a ciò la proposizione della domanda anche nei confronti dell'ente pubblico sotto il profilo della responsabilità solidale dello stesso, attenendo al merito l'effettiva riferibilità all'ente dei comportamenti dei funzionari (Cass. S.u. 4591/2006).
Va aggiunto che, in linea generale, la giurisdizione è inderogabile per ragioni di connessione (salva diversa, specifica, previsione normativa) e che il coordinamento tra le giurisdizioni su rapporti diversi ma interdipendenti può trovare soluzione secondo le regole della sospensione del procedimento pregiudicato (Cass. S.U. 3508/2003).
27. Conclusivamente, va dichiarata la giurisdizione del giudice amministrativo in relazione alla domanda di risarcimento del danno proposta nei confronti dell'Università degli studi di Pisa; la giurisdizione ordinaria per la domanda proposta contro il prof. F.E..
Sussistono, evidenti, giusti motivi per compensare le spese del giudizio tra il ricorrente e il F., mentre nulla va disposto per le spese nei confronti dell'Università, che non ha svolto attività difensive in questo giudizio.
P.Q.M
La Corte, a sezioni unite, dichiara la giurisdizione del giudice amministrativo sulla domanda proposta nei confronti dell'Università degli studi di Pisa; dichiara la giurisdizione del giudice ordinario sulla domanda proposta nei confronti di F.E.; compensa le spese del giudizio tra il C. e il F..
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio delle Sezioni Unite Civile, il 24 novembre 2005.
Depositato in Cancelleria il 13 giugno 2006