mercoledì 30 aprile 2008

Corte di Cassazione, sez. I, sentenza 31 marzo 2008 n. 8384

CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. I CIVILE - sentenza 31 marzo 2008 n. 8384 - Pres. Carnevale, Rel. Salvago - Bulfone c. Comune di Tavagnacco - (accoglie il secondo motivo di ricorso e cassa la sentenza con rinvio alla Corte di Appello di Trieste).

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. Il Tribunale di Udine, con sentenza del 21 agosto 2000 condannò il comune di Tavagnacco per l’avvenuta occupazione espropriativa di un terreno di proprietà di Eleonora e Ruggero Bulfone, nonché di Aurelia Marini (in catasto al fg.28, mappale 310) onde realizzarvi un parcheggio pubblico, al risarcimento del danno sia per l'illegittima ablazione dell'immobile, sia per il periodo precedente in cui era stato occupato senza titolo. Attribuì inoltre al solo Ruggero Bulfone un indennizzo per la reiterazione di un vincolo preordinato all'esproprio posto dal P.R.G. dell'ente appr. l’11 settembre 1980 di destinazione dell'area al menzionato parcheggio.
In parziale accoglimento dell'impugnazione del comune, la Corte di appello di Trieste, con sentenza del 2002, ha dichiarato non dovuto l'indennizzo per il vincolo apposto del comune che ha condannato al risarcimento del danno sia per l'ablazione del diritto dominicale dei Bulfone e della Marina, sia per l'illegittima detenzione del fondo fino alla sua irreversibile trasformazione, riducendone tuttavia gli importi, determinati: in favore di Ruggero Bulfone in € 33.012,80 + 6.627,17 in favore di Eleonora Bulfone in € 17.114,53 + 3.37,54, ed in favore della Marini in € 488,57. Ha osservato al riguardo: a) che il comune si era formalmente immesso in possesso del fondo e che non vi era prova che lo stesso aveva continuato ad essere utilizzato dai proprietari nel periodo successivo; b) che l'occupazione d'urgenza era stata autorizzata con decreto sindacale fino al 16 agosto 1992, sicché non poteva essere stata prorogata dalla legge 15 del 1991 ed era scaduta al momento dell'irreversibile trasformazione del bene verificatasi nel marzo 1993; e che quindi il decreto di esproprio emesso il 5 agosto 1994 doveva considerarsi tardivo; c) che era corretto il criterio di stima del valore dell'immobile seguito dal c.t.u. che aveva, da un lato preso atto dell'inclusione del terreno in zona edificabile; e lo aveva dall'altro assimilato ai fondi limitrofi compresi in zona B con indice di fabbricabilità 1,2 mc/mq.; e che sul valore in tal modo determinato andava applicato il criterio riduttivo introdotto dal comma 7 bis dell'art. 5 bis della legge 359/1992; d) che a Ruggero Bulfone non spettava il chiesto indennizzo perché il vincolo imposto dal P.R.G. del 1980 era inutilmente scaduto nel 1985 senza essere reiterato; perché dopo tale data egli aveva goduto del terreno secondo la sua destinazione originaria e non aveva provato di aver chiesto al comune di edificare, dimostrando anzi di aver continuato a gestire sull'immobile la propria pregressa attività commerciale.
Per la cassazione della sentenza, il Bulfone ha proposto ricorso per due motivi; cui resiste l'amministrazione comunale, la quale ha formulato a sua volta ricorso incidentale per due motivi. Entrambe le parti hanno depositato memoria.

MOTIVI DELLA DECISIONE

2. I ricorsi vanno, anzitutto riuniti ai sensi dell'art. 335 cod.proc.civ. perché proposti contro la medesima sentenza.
Il collegio deve poi dare atto che il comune di Tavagnacco con atto sottoscritto dai propri difensori, ha dichiarato di rinunciare al ricorso incidentale contro Eleonora Bulfone ed Aurelia Marini; sicché il giudizio introdotto da quest'atto nei confronti di dette parti va dichiarato estinto ai sensi dell'art. 390 cod.proc.civ.
Non può essere pronunciata condanna dell'ente pubblico rinunciante al pagamento delle spese processuali nei confronti della Bulfone e della Marini, perché costoro non hanno spiegato difese.
3. Con il primo motivo del ricorso principale, Ruggero Bulfone, deducendo violazione degli art. 2 legge 1187/1968.41 quinques legge 1150/1942; 17 legge 765 del 1967; 4 legge 10 del 1977; 4 e 5 legge 1/1978 censura la sentenza impugnata per aver disconosciuto il suo diritto ad ottenere l'indennizzo per il vincolo apposto dal comune sul proprio terreno con il P.R.G. approvato nel 1980, senza considerare: 1) che detto vincolo pur non formalmente reiterato nel 1985, si era di fatto protratto fino al 1989, allorquando il comune lo aveva ulteriormente riproposto approvando il progetto esecutivo per la realizzazione del parcheggio; 2) che l'assunto trovava conferma nella legge reg. 52 del 1991, la quale fa obbligo ai comuni di attuare entro un anno le opportune variazioni urbanistiche; 3) che in ogni caso alla prima scadenza del vincolo il terreno era rimasto soggetto alle misure di salvaguardia previste dall'art. 4 della legge 10/1977 che ne hanno impedito l'edificazione fino alla adozione della variante adotta da parte del comune nel 1990, 4) che, d'altra parte, seguendo l'interpretazione della Corte di appello, i comuni ben potrebbero alla scadenza del vincolo non reiterarlo e nel contempo restare inerti si da assoggettare gli immobili privati alle misure di salvaguardia a tempo indeterminato; per poi compiere negli anni successivi l'opera pubblica in tal modo evitando di corrispondere l'indennizzo, e mantenendo il terreno vincolato; 5) che egli aveva chiesto più volte in quegli anni l'eliminazione del vincolo senza mai ricevere risposta dal comune, in tal modo determinandosi quella situazione per la quale la giurisprudenza amministrativa attribuisce al titolare del bene il diritto all'indennizzo o al risarcimento del danno.
Tutte queste censure sono infondate, pur se va corretta ai sensi dell'art. 384 cod.proc.civ. la motivazione con cui la Corte territoriale ha respinto la richiesta del Bulfone.
Con la nota sentenza 55 del 1968, la Corte Costituzionale, dichiarò l'illegittimità costituzionale dell'art. 7 della legge urbanistica 1150 del 1942 nella parte in cui consentiva alla p.a., senza la previsione di un indennizzo, l’apposizione su immobili privati di vincoli temporanei (ma di durata illimitata), preordinati al successivo (ma incerto) trasferimento del bene per ragioni di interesse generale, sia ipotesi di vincoli che, pur consentendo la conservazione della titolarità del bene, erano tuttavia destinati ad operare immediatamente una definitiva incisione profonda, al di là dei limiti connaturali, sulla facoltà di utilizzabilità sussistenti al momento dell'imposizione (e cioè di vincoli immediatamente definitivi inerenti a proprietà non destinate a esser trasferite). Ciò perché "tali imposizioni a titolo particolare non possono mai eccedere, senza indennizzo, quella portata, al di là della quale il sacrificio imposto venga a incidere sul bene, oltre ciò che è connaturale al diritto dominicale" quale viene riconosciuto in un determinato momento storico. E perché dunque doveva considerarsi in contrasto con l'art. 42 Costit. la sottrazione di immobili, quando essi siano da considerarsi edificabili in base all'ordinamento vigente nel momento in cui il vincolo intervenga, alla possibilità di utilizzazione rappresentata dalla destinazione a nuove costruzioni o comunque ad altri proficui impieghi di ordine urbanistico.
Alla declaratoria di incostituzionalità segui la legge 1187 del 1968, che adeguò la legislazione precedente alla decisione della Consulta, stabilendo tra l'altro (art. 2), che i predetti vincoli avrebbero perso efficacia qualora, entro cinque anni dalla data di approvazione del piano regolatore generale, non fossero stati approvati i relativi piani particolareggiati od autorizzati i piani di lottizzazione convenzionati.
Con la successiva sentenza 92 del 1982 la stessa Corte Costituzionale ritenne la legittimità costituzionale delle disposizioni degli artt. 1, 2 e 5 della legge n. 1187 del 1968, rilevando che il legislatore ha la facoltà di scelta tra la previsione di un indennizzo e la predeterminazione di un termine di durata dell'efficacia del vincolo. E che la suddetta normativa andava interpretata nell'ambito del sistema che si è venuto ad integrare successivamente alla sua emanazione; ed in particolare, che la cessazione del vincolo fa venire meno soltanto lo specifico onere relativo ed il titolare del bene viene a trovarsi quindi nella medesima situazione di tutti gli altri aventi un diritto reale sui beni: restando cosi assoggettato a tutto quanto la legge e gli strumenti urbanistici, compreso il programma pluriennale di attuazione, dispongono.
Con la decisione 579 del 1989, affermò che la temporaneità e la indennizzabilità dei vincoli urbanistici di natura espropriativa sono tra loro alternative, per cui l’indeterminatezza temporale comporta il diritto all'indennizzo. E con la recente sentenza 179 del 1999 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale degli art. 7 e 40 della legge urbanistica 1150 del 1942, nonché dell'art. 2 della legge 1187 del 1968, nella parte in cui consentivano all'Amministrazione di reiterare i vincoli urbanistici scaduti «preordinati all’espropriazione o che comportino l'inedificabilità, senza la previsione di indennizzo, osservando: a) che la reiterazione in via amministrativa degli anzidetti vincoli decaduti (preordinati all'espropriazione o con carattere sostanzialmente espropriativo), ovvero la proroga in via legislativa o la particolare durata dei vincoli stessi prevista in talune regioni a statuto speciale non sono fenomeni di per sé inammissibili dal punto di vista costituzionale: potendo esistere ragioni giustificative accertate attraverso una valutazione procedimentale (con adeguata motivazione) dell'amministrazione preposta alla gestione del territorio o rispettivamente apprezzate dalla discrezionalità legislativa entro i limiti della non irragionevolezza e non arbitrarietà; b) che tuttavia anche in questi casi, una volta oltrepassato il periodo di durata temporanea (periodo di franchigia da ogni indennizzo), il vincolo urbanistico (avente le anzidette caratteristiche), se permane a seguito di reiterazione, non può essere dissociato, in via alternativa all'espropriazione, dalla previsione di un indennizzo.
Con la conseguenza più volte evidenziata dalla giurisprudenza di questa Corte e da quella amministrativa, che per i vincoli derivanti da pianificazione urbanistica, il fatto costitutivo del diritto all'indennizzo non è individuabile nell'imposizione originaria di un vincolo di inedificabilità, e neppure nella protrazione di fatto del medesimo dopo la sua decadenza; ed il relativo obbligo sorge in seguito all'atto che formalmente ed esplicitamente lo reitera una volta superato il primo periodo di ordinaria durata temporanea del vincolo (quale determinata dal legislatore entro limiti non irragionevoli, come indice della normale sopportabilità del peso gravante in modo particolare sul singolo): non desumibile nel caso di protrazione di fatto dello stesso e neppure per implicito da atti di diniego di domande di autorizzazione lottizzatoria o di concessione (Cass. 1754/2007; 24099/2004; 4333/2003; Cons. St. V,1172/2003; 1486/1996).
Questa disciplina trova del resto conferma nell'art. 39 del T.U. sulle espropriazioni per p.u. appr. con d.p.r. 327 del 2001, pur successivo ai fatti di causa, il quale prevede a favore del proprietario "una indennità, commisurata all'entità del danno effettivamente prodotto" soltanto "nel caso di reiterazione di un vincolo preordinato all'esproprio o di un vincolo sostanzialmente espropriativo". Pertanto, nel caso concreto del tutto correttamente la sentenza impugnata ha disconosciuto il diritto del Bulfone a percepire detto indennizzo, una volta che lo stesso ricorrente ha riferito da un lato che il vincolo di piano era stato imposto sul suo terreno con il P.R.G. comunale approvato nel 1980; ed ha ammesso dall'altro che nel 1985, data della sua naturale scadenza ex art. 2 della legge 1187 del 1968, non era stato prorogato, né reiterato dall'amministrazione comunale.
4. Non è, poi, possibile confondere taluno di detti provvedimenti con la delibera 29 ottobre 1990 n. 76 con cui il comune di Tavagnacco, dopo avere annullato la propria precedente delibera 13/1989, menzionata dal ricorrente (che deve quindi considerasi tamquam non esset), ha approvato la variante urbanistica al p.r.g. unitamente al progetto per la realizzazione del parcheggio: in quanto la scadenza del termine quinquennale del vincolo di destinazione di piano impresso in base all'art. 2 1. 1187/1968, ha come conseguenza (Cass. 967/1992; Cons. St.1326/1998; 518/1992; Ad. plen.7/1984), per un verso, che l'area interessata dall'atto impositivo del vincolo risulta sprovvista di regolamentazione urbanistica, e vada assoggettata alla disciplina dell'art. 4 camma ultimo l. n. 10 del 1977 (prevista per i comuni privi di strumenti urbanistici generali). Ma, per altro verso tale situazione di inedificabilità conseguente alla sopravvenuta inefficacia di talune destinazioni di piano (cd. vuoto urbanistico) è per sua natura provvisoria, e destinata a durare fino all'obbligatoria integrazione del piano (o del programma di fabbricazione), divenuto parzialmente inoperante; con la conseguenza che l'autorità comunale ove non reiteri il vincolo (con previsione di indennizzo), ha l'obbligo di provvedere all'integrazione suddetta stabilendo la nuova destinazione da assegnare all'area: cosi come il comune ha fatto con la ricordata delibera, significativamente denominata dalle parti "variante" al piano, divenuto parzialmente inoperante, che la delibera del Consiglio comunale ha dunque provveduto ad integrare (Cass. 14333/2003; 11158/1998; Cons. St. IV,6442/2002; 6415/2001; 479/1997).
Ed il ricorrente non sembra dubitare di tale funzione del provvedimento in questione avendo ricordato la legge reg. Friuli-Venezia Giulia 52 del 1991, pur essa successiva alla vicenda procedimentale in esame, che proprio nell'ipotesi di cessazione dell'efficacia dei vincoli preordinati all'esproprio, pone a carico dei comuni l'obbligo (art. 36,comma 2°) di "adottare nel termine di un anno una variante al P.R.G., finalizzata a verificare lo stato di attuazione del piano e ad apportare le variazioni eventualmente ritenute necessarie, nonché a determinare il conseguente fabbisogno di servizi pubblici e di attrezzature di interesse collettivo e sociale". E stabilisce, infine, che "Qualora il Comune non provveda entro il termine predetto, la Giunta regionale dà l'avvio al procedimento sostitutivo di cui all'articolo 120".
Vero è che il comune di Tavagnacco ha provveduto a tale integrazione dopo ben 6 anni dalla scadenza del vincolo, durante i quali il terreno è rimasto assoggettato ai limiti di edificabilità nonché alle misure di salvaguardia di cui al menzionato art. 4 della legge 10 del 1977. Ma è pur vero che la situazione di inerzia della p.a. successivamente alla decadenza quinquennale del vincolo, non è equiparabile alla compressione del diritto dominicale provocata dai vincoli preordinati all'esproprio, né definibile come espropriazione di valore (Cass. 14333/2003 cit.; Cons. St. 5178/2002), attesa la provvisorietà del regime urbanistico caratterizzato dall'applicazione dei limiti di salvaguardia previsti dalla norma in questione per le aree bianche; che, se da un lato non elimina una redditività del fondo diversa dallo sfruttamento edilizio, dall'altro non crea nel proprietario alcuna aspettativa in ordine al conferimento di particolari qualità edificatorie oltre quei limiti, o ancor meno riguardo a possibili lottizzazioni.
E d'altra parte quest'ultimo, non resta senza tutela a fronte dell'inerzia dell'ente territoriale, ben potendo, ove vi abbia interesse, promuovere gli interventi sostitutivi della Regione oppure reagire alla stessa attraverso la procedura di messa in mora e tipizzazione giurisdizionale del silenzio davanti al giudice amministrativo; che invece il Bulfone nel caso concreto non ha attivato. Di modo che solo in caso di persistente inerzia a seguito di questa procedura potrà configurarsi la lesione al bene della vita, identificabile non già nello "ius aedificandi" -attesa l'impossibilità di affidamento del proprietario in merito a specifiche qualificazioni dei suoli nell'esercizio del potere discrezionale inerente alla pianificazione del territorio- bensì nell'interesse alla certezza circa le possibilità di adeguata e razionale utilizzazione della proprietà; di cui va ravvisata lesione risarcibile, alla stregua dei canoni di correttezza e buona fede, nello svolgimento del rapporto qualificato e differenziato tra soggetto pubblico e privato che nasce per effetto della sentenza conclusiva del giudizio di tipizzazione del silenzio (Cass. 11158/1998 cit.; Cons. St. 2107/1999; 621/1997).
5. Con il primo motivo del ricorso incidentale, da esaminare a questo punto, il comune di Tavagnacco, deducendo violazione degli art. 71 della legge 2359/1865, 14 legge 10 del 1977 in relazione alla legge 865/1971, nonché difetto ed insufficienza di motivazione, censura la sentenza impugnata per aver ritenuto che esso ente aveva occupato senza titolo il terreno Bulfone dal 30 aprile 1990 al 24 luglio 1992 e liquidato il risarcimento del danno per tale occupazione, senza considerare che la stessa era stata meramente formale e mai seguita da una effettiva presa di possesso del fondo; che su di esso non era stata realizzata alcuna opera fino a quest'ultima data; e che le prove orali e fotografiche espletate avevano confermato tale situazione di fatto. In tal modo la Corte di appello era incorsa pure in un errore di diritto posto che anche l'indennità di occupazione deve essere liquidata non per il solo fatto che è stato emesso il relativo decreto, ma quando sia fornita la prova di un reale pregiudizio per il proprietario: prova che deve risultare non dal mero verbale di consistenza del fondo, bensì dalla effettiva utilizzazione del terreno da parte dell'occupazione: anche perché in mancanza di essa trova applicazione la normativa dell'art. 20 della legge 865 del 1971 sulla inefficacia del decreto di occupazione, ove non seguito nel successivo trimestre dalla effettiva presa in possesso del bene.
Il motivo è in parte inammissibile ed in parte infondato.
L'amministrazione comunale non ha infatti contestato quanto accertato dalla sentenza impugnata, che cioè il consiglio comunale dell'ente con delibera 13 del 16 marzo 1989 aveva annullato l'intero procedimento espropriativo fino ad allora svolto, rinnovandolo con delibera 76/1990; cui aveva fatto seguito soltanto in data 29 giugno 1992 il nuovo decreto autorizzativo dell'occupazione temporanea del terreno; per cui per il periodo precedente è fuori luogo invocare le disposizioni delle leggi 2359/1865 e 865/1971 nonché i principi giurisprudenziali inerenti a questo istituto, non applicabile nell'ipotesi di occupazione illegittima di immobili da parte della p.a.: disciplinata esclusivamente dalla normativa dell'art. 2043 cod.civ., che perciò nel caso concreto è stata correttamente osservata dalla sentenza impugnata.
La Corte territoriale ha tuttavia accertato che in data 30 aprile 1990, con formale e regolare verbale, che nessuna delle parti ha impugnato, il comune si era immesso in possesso del fondo Bulfone (senza averne titolo); per cui ha giustamente applicato sia pure per analogia -e d'altra parte in conformità alle regole sull'onere della prova contenute nell'art. 2697 cod.civ. -, il principio secondo cui se è vero che non può lamentare alcun danno chi non ha perso il godimento del bene, è pur vero che la formale redazione di un verbale di immissione in possesso non resta priva di rilevanza: giacché fa presumere che il beneficiario dell'occupazione stessa si sia effettivamente impossessato dell'immobile e che il proprietario di questo subisca, durante l'occupazione, il duplice danno di aver perso la facoltà di godimento del bene e di vedersi limitata la facoltà di disporne. Con la conseguenza che, nell'ipotesi di avvenuta redazione del verbale di immissione in possesso, (che è atto diverso da quello di consistenza del bene), non è sul proprietario che incombe la prova di aver sofferto la perdita del possesso dell'immobile, bensì è il beneficiario di questo a doverne dimostrare la mancata effettiva esecuzione (Cass. 25523/2006; 13582/2002; 2583/2002).
Nella sentenza impugnata, inoltre, vi è un'articolata motivazione del convincimento della Corte territoriale in ordine all'assenza di detta prova da parte del comune: si fa riferimento, infatti, alla circostanza che quella testimoniale ha posto in evidenza soltanto il fatto del tutto pacifico che il comune nessun'opera e nessun lavoro vi aveva realizzato fino all'agosto 1992; e che quella fotografica aveva confermato l'assunto del proprietario ribadito nell'interrogatorio formale, che egli non aveva più utilizzato il fondo rimasto, dopo la presa di possesso dell'amministrazione, non coltivato ed abbandonato: a differenza del terreno di Eleonora Bulfone, la quale ne era ritornata in possesso soltanto per una limitata porzione.
Non è riscontrabile, quindi, neppure la mancanza od insufficienza di motivazione lamentata dal ricorrente; mentre le diverse valutazioni in fatto prospettate con la doglianza non possono trovare ingresso nel presente giudizio di legittimità, nel quale le valutazioni operate dal giudice del merito dei fatti e delle risultanze probatorie non sono censurabili, ove il convincimento dello stesso giudice sia - come nel caso di specie - sorretto da motivazione immune da vizi logici e giuridici.
6. Con il secondo motivo, il comune, deducendo altre violazioni delle norme già indicate,nonché dell'art. 115 cod.proc.civ. e vizi di motivazione, si duole che la Corte di appello abbia ritenuto ravvisabile nel caso un'ipotesi di occupazione appropriativa per l'inutile scadenza del periodo di occupazione temporanea in coincidenza con il termine del 16 agosto 1992 indicato nel decreto 29 giugno 1992: senza considerare che la stessa era consentita per 36 mesi e non poteva retroagire, come pur indicato nel provvedimento, dal 1989, in quanto siffatto potere non è attribuito al sindaco da alcuna norma di legge. E, d'altra parte l'art. 22 della legge 158 del 2001 aveva prorogato l'occupazione di un biennio, per cui qualunque interpretazione si fosse data al provvedimento che l'autorizzava, la stessa era ancora in corso alla data del decreto di esproprio, emesso il 5 agosto 1994; che aveva regolarmente concluso il procedimento espropriativo.
Anche questa censura è infondata: proprio per le ragioni esposte dall'amministrazione comunale che anzitutto il sindaco non poteva sanare ex post una occupazione svoltasi e protratta di fatto, senza provvedimento ablatorio; e perciò necessariamente disciplinata direttamente dal disposto dell'art. 2043 cod.civ. e non più da scelte discrezionali dell'ente pubblico o dai suoi poteri autoritativi. E che, quindi, il decreto sindacale 26 giugno 1992 laddove autorizzava l'occupazione temporanea del terreno Bulfone per 36 mesi a decorrere dalla precedente deliberazione n. 41 del 22 giugno 1989, si poneva in contrasto con i primi due commi dell'art. 20 legge 865/1971, per i quali detta occupazione deve necessariamente seguire il provvedimento amministrativo che la dispone, iniziare dalla data di immissione in possesso dell'immobile e protrarsi fino a 5 anni successivi a tale momento.
Senza considerare che nel caso concreto il comune ha annullato l'intero procedimento ablativo e, quindi, la prima dichiarazione di p.u. dell'opera del 1989 -da considerasi tamquam non esset, per il noto effetto retroattivo dei provvedimenti di annullamento; con la conseguenza che, mancando tale necessario presupposto,non sarebbe stato comunque possibile autorizzare l'occupazione di urgenza dell'immobile Bulfone: per tale ragione nuovamente disposta, dopo la rinnovazione della dichiarazione di p.u., con il menzionato decreto sindacale del 22 giugno 1992, il quale tuttavia ha stabilito quale termine finale per la stessa -non importa se in conseguenza dell'intendimento di farne retroagire gli effetti o per altre scelte operative- la data del 16 agosto 1992.
L'accertamento di tale scadenza da parte della sentenza impugnata non è infatti contestabile una volta che la stessa ha riferito non solo che tale data era "espressamente" apposta nel provvedimento quale termine finale dell'occupazione, ma che lo stesso sindaco del comune nel corso degli anni 1992 e 1993 aveva rivolto al Comitato di controllo numerose istanze per ottenere l'autorizzazione alla proroga di esso, una volta che il periodo originariamente indicato nel provvedimento era inutilmente spirato senza l'adozione del decreto di esproprio. E, d'altra parte non era consentito né alle parti, né al giudice aggiungere l'ulteriore termine di 36 mesi avente nel provvedimento originario tutt'altra funzione, si da modificarne il contenuto e da sostituirlo inammissibilmente con un provvedimento diverso da quello adottato dall'amministrazione comunale, avente quale scadenza la data del 29 giugno 1995,ovvero altra successiva; che l'atto, invece, non conteneva.
Pertanto del tutto correttamente la Corte di appello, essendo stato il decreto pronunciato il 22 giugno 1992, non ha applicato la proroga biennale introdotta dall'art. 22 della legge 158 del 1991, poiché ne difettava la condizione espressamente richiesta da detta legge, che l'occupazione d'urgenza fosse già "in corso" alla data della sua entrata in vigore; e preso atto che l'occupazione con esso autorizzata era scaduta il 16 agosto 1992, ha dichiarato che l'irreversibilmente trasformazione dell'immobile prima del sopravvenire del decreto di esproprio, ne ha pronunciato la cd. occupazione acquisitiva in capo al comune di Tavagnacco: perciò tenuto per l'illegittima ablazione, al risarcimento del danno arrecato ai proprietari.
7. Con il secondo motivo del ricorso principale, il Bulfone, deducendo numerose violazioni delle leggi urbanistiche 1150/1942 e 1187/1968, delle leggi 10/1977 ed 1 del 1978, nonché di quelle sull'espropriazione per p.u. censura la sentenza impugnata per aver determinato il danno per l'occupazione appropriativa subita con il criterio riduttivo introdotto dal comma 7 bis dell'art. 5 bis dato il carattere edificatorio del terreno: a) senza applicare l'ulteriore aumento del 10% previsto dalla menzionata norma ad integrazione della stima ridotta dalla stessa stabilita; b) recependo acriticamente le risultanze della c.t.u. che aveva determinato il prezzo in comune commercio dell'immobile con riferimento alla zona B e non a quella A ove lo stesso era ubicato, avente un indice di fabbricabilità più elevato; e muovendo dall'erroneo presupposto che altrimenti il terreno sarebbe stato inedificabile per il limite posto dallo strumento urbanistico alla ricostruzione ed al restauro degli edifici già esistenti; c) non aveva tenuto né degli atti di vendita di terreni della zona A, da esso ricorrente prodotti, si era avvalso del minore indice di edificabilità della zona B, pari a 1, 2 mc/mq.; d) non aveva tenuto conto neppure dei danni sofferti dalla propria attività imprenditoriale che doveva invece essere ristorata in base alla normativa contenuta nell'art. 15 della legge 865/1971.
Le censure sono fondate nei limiti appresso precisati.
La più recente giurisprudenza di questa Corte ha ripetutamente affermato (Cass. sez. un.19551/2003, nonché 9683/2000; 4838/2000) che anche per la determinazione del danno da occupazione appropriativa, vale la suddivisione su cui è impostato il sistema dell'art. 5 bis della legge 359 del 1992, tra aree edificabili ed aree prive di siffatta destinazione, che non è disapplicabile in nome di una più congrua reintegrazione patrimoniale del proprietario del fondo; e valgono, di conseguenza, i principi sulla rilevanza delle "possibilità legali ed effettive di edificazione", associata ad una verifica oggettiva e non legata a valutazioni opinabili, che può esser data solo dalla classificazione urbanistica dell'area in considerazione E che induce ad attribuire alla stessa destinazione edificatoria solo se, e per il solo fatto che, come tale, essa risulti classificata al momento dell'apposizione del vincolo espropriativo dagli strumenti urbanistici, secondo un criterio di prevalenza o autosufficienza della edificabilità legale.
In ottemperanza a questi principi la Corte di appello ha accertato che il terreno Bulfone ricadeva in zona residenziale di tipo "A" del P.R.G. comunale entrato in vigore il 15 maggio 1992 (pag. 22 e 23 sent.), e che a tali terreni aventi perciò destinazione edificatoria era stato attribuito l'indice massimo di fabbricabilità di 3 me/mg. previsto da detto strumento urbanistico; e non ha d'altra parte considerato il vincolo sull'area a parcheggio imposto dalla ricordata delibera comunale del 1990, in base alla regola posta dall'art. 5 bis, 3° comma, secondo la quale nella stima dell'area espropriata deve prescindersi dal vincolo preordinato all'esproprio.
E tuttavia la giurisprudenza ha specificato altresì che la destinazione urbanistica ad usi edilizi della zona cui appartiene il fondo, quale presupposto necessario a conferire in astratto la natura edificatoria, deve essere completata dalle condizioni che in concreto inducono a determinarne il valore venale (cd. "edificabilità di fatto"), con riferimento in primo luogo ad essa e ad essa soltanto; per cui la determinazione del valore del fondo può avvenire sia con metodi analitico-ricostruttivi, tesi ad accertare il valore di trasferimento del fondo; sia con metodi sintetico-comparativi, volti invece a desumere dall'analisi del mercato il valore commerciale del fondo.
Ove, infatti, si privilegino questi ultimi (come rientra nei poteri discrezionali del giudice di merito e come ha fatto in concreto la Corte di appello) devono prendersi a comparazione esclusivamente immobili omogenei, aventi perciò analoga disciplina urbanistica (Da ultimo Cass. 22961/2007): e non certamente aree ubicate in altre zone soggette a diversa disciplina urbanistica e perciò prive di qualsiasi rappresentavita rispetto ai fondi da valutare: come hanno fatto la consulenza tecnica e la sentenza impugnata avvalendosi come indice di comparazione del prezzo in comune commercio di fondi inclusi nella zona B. Mentre se la decisione avesse inteso avvalersi del metodo cd. analitico ricostruttivo doveva effettuare il calcolo in base all'indice urbanistico 3 me/ma. peculiare della zona A cui apparteneva l'immobile e non in base a quello di 1,2 mc/mq. della zona B (Cass. 1161/2007; 13958/2006; 3766/2006): a nulla perciò rilevando che quest'ultimo fosse stato prescelto dal c.t.u. per il fatto che "nella zona A non vi è la possibilità di edificare se non nell'ambito di progetti attuativi e le aree libere risultano inedificabili". In quanto a prescindere dalla insanabile contraddizione con l'accertata esistenza di un indice di edificabilità più elevato proprio nella zona A, e con lo stralcio dello strumento urbanistico relativo a quest'ultima zona riportato in ricorso (e non contestato dal comune) che detto indice conferma, la Corte deve ribadire che l'edificabilità va da un minimo (tendente a zero) ad un massimo, con una vasta gamma di situazioni quantitative intermedie su cui incide in misura determinante proprio l'edificabilità effettiva - quale attitudine del suolo ad essere sfruttato e concretamente destinato a fini edificatori; e può venir ridotta (o addirittura esclusa) non soltanto dalle caratteristiche morfologiche della zona e da altre circostanze ostative di fatto a realizzazioni edilizie (Casa. 22961/2007 cit.; 18680/2005; 1025/2004; 16710/2003; 1739/2003) ma ancor prima dalle specifiche disposizioni urbanistiche riguardanti altezze, cubature, distanze, zone di rispetto, limiti e rapporti per zone omogenee e simili; le quali vengono perciò a completare i presupposti necessari a conferire in astratto natura edificatoria ad un'area e devono necessariamente venir osservate nella determinazione del suo concreto valore venale.
Di modo che, nella formula sopra citata (possibilità legali ed effettive di edificazione), l'edificabilità di fatto, lungi dal costituire elemento pleonastico, va considerata come il complesso delle condizioni che in presenza della destinazione urbanistica all'edificabilità, inducono alla determinazione del valore in concreto dell'area (Cass. 2871/2005; 1739/2003, nonché sez. un. 172/2001) : e per il suo apprezzamento assumono questa volta rilievo gli strumenti attuativi di terzo livello invece inidonei ad incidere sul requisito dell'edificabilità legale dell'area. Per cui il giudice di rinvio dovrà tenere conto di tutti questi elementi.
8. Il Collegio deve aggiungere che nelle more del giudizio il criterio di stima delle aree edificabili stabilito dal menzionato comma 7 bis dell'art. 5 bis è venuto meno per effetto della recente sentenza 349 del 2007 della Corte Costituzionale, che, accogliendo il dubbio sollevato da questa Corte di Cassazione con l'ordinanza di rimessione 11887 del 2006, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del comma 7° bis del menzionato art.5 bis: perché la norma, non prevedendo un ristoro integrale del danno subito per effetto dell'occupazione acquisitiva da parte della pubblica amministrazione, corrispondente al valore di mercato del bene occupato, è in contrasto con gli obblighi internazionali sanciti dall'art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU e per ciò stesso viola l'art. 117, primo comma, della Costituzione. Ciò perché la Corte europea con specifico riferimento alla disciplina dell'occupazione illegittima ha ritenuto che la liquidazione del danno stabilita in misura superiore all'indennità di espropriazione, ma in una percentuale non apprezzabilmente significativa, non permette di escludere la violazione del diritto di proprietà, cosi come è garantito dalla norma convenzionale; ed ha da tempo affermato espressamente che il risarcimento del danno deve essere integrale e comprensivo di rivalutazione monetaria a far tempo dal provvedimento illegittimo. E perché, d'altra parte, anche alla luce "delle conferenti norme costituzionali, principalmente dell'art. 42, non si può fare a meno di concludere che il giusto equilibrio tra interesse pubblico ed interesse privato non può ritenersi soddisfatto da una disciplina che permette alla pubblica amministrazione di acquisire un bene in difformità dallo schema legale e di conservare l'opera pubblica realizzata, senza che almeno il danno cagionato, corrispondente al valore di mercato del bene, sia integralmente risarcito".
Pertanto dal giorno successivo alla pubblicazione di questa decisione (art. 136 Costit. e 30, 3° comma legge 87 del 1953) non è più possibile applicare il meccanismo riduttivo introdotto dall'art. 5 bis,comma 7° bis a meno che il rapporto non sia ormai esaurito in modo definitivo, per avvenuta formazione del giudicato o per essersi verificato altro evento cui l'ordinamento collega il consolidamento del rapporto medesimo, ovvero per essersi verificate preclusioni processuali, o decadenze e prescrizioni non direttamente investite, nei loro presupposti normativi, dalla pronuncia d'incostituzionalità (Cass. 16450/2006; 15200/2005; 22413/2004): così come, del resto, stabiliva l'art. 5 bis citato, con riguardo al passaggio in giudicato della definizione dell'indennità di espropriazione, in sede giudiziale.
Si deve aggiungere che nelle more del giudizio è intervenuto l'art. 2 della legge 244 del 2007, il cui comma 89 sub e) ha modificato l'art. 55 del T.U. sulle espropriazioni per p.u. appr. con d.p.r. 327/2001, disponendo che "nel caso di utilizzazione di un suolo edificabile per scopi di p.u., in assenza del valido ed efficace provvedimento di esproprio alla data del 30 settembre 1996, il risarcimento del danno è liquidato in misura pari al valore venale del bene"; per cui siccome il Bulfone con i motivi di impugnazione ne ha rimesso in discussione il quantum impedendo la definitiva ed immodificabile determinazione da parte della Corte di appello, il giudice di rinvio dovrà ricalcolarlo in base al parametro reintrodotto da quest'ultima norma.
Detto indennizzo, essendo destinato ex art. 42 Costit. a tener luogo del bene espropriato, non può tuttavia superare in nessun caso il valore che esso presenta, in considerazione della sua destinazione legale (il valore cioè che il proprietario ne ritrarrebbe se decidesse di porlo sul mercato con la destinazione stabilita dallo strumento urbanistico); e perciò non può tener conto di altre destinazioni di fatto impresse dal proprietario, quale quella prospettata dal Bulfone il quale ha dedotto di essere in possesso di autorizzazione alla gestione di un esercizio commerciale per la vendita di prodotti alimentari ed agricoli: né del valore dell'azienda, rimasta estranea all'espropriazione dell'immobile.
D'altra parte, lo stesso ricorrente ha invocato al riguardo il disposto dell'art. 15 della legge 865 del 1971, che imponendo di tener conto nella stima della indennità, del valore agricolo del bene, anche in relazione all'esercizio dell'azienda agricola, si riferisce esclusivamente all'ipotesi qui non ricorrente di terreni cui lo strumento urbanistico generale non abbia riconosciuto destinazione edificatoria; e la valutazione debba avvenire se si tratti di espropriazione legittima, mediante il criterio riduttivo tabellare di cui al successivo art. 16. Mentre se deve liquidarsi il danno per l'occupazione appropriativa, deve essere compiuta all'interno della categoria suoli inedificabili, in conseguenza di una destinazione del bene pur diversa da quella agricola, ma ugualmente compatibile con la sua ormai accertata inedificabilità: e perciò con prezzi di mercato ben lontani da quelli assai più elevati peculiari del mercato edilizio utilizzati per accertare il valore del terreno Bulfone: avente, invece destinazione edificatoria.
9. Assorbito pertanto l'ultimo profilo della censura relativo alla liquidazione degli interessi sulla somma dovuta a titolo di risarcimento del danno, la Corte deve cassare la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto; con rinvio alla Corte di appello di Trieste in diversa composizione che provvedere ad una nuova liquidazione di detto risarcimento attenendosi ai principi esposti, nonché alla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.

La Corte, riunisce i ricorsi, dichiara estinto quello incidentale nei confronti di Eleonora Bulfone ed Aurelia Marini; accoglie il secondo motivo di quello principale, respinge tutti gli altri sia del ricorso principale, che dell'incidentale; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia anche per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità alla Corte di appello di Trieste, in diversa composizione.
Cosi, deciso in Roma il 13 febbraio 2008.
Il Consigliere est.
Il Presidente
Depositata in segreteria il 31 marzo 2008.

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