giovedì 19 febbraio 2009

Consiglio di Giustizia Amministrativa, sez. giurisdizionale - sentenza parziale 18 febbraio 2009 n. 51

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana in sede giurisdizionale ha pronunciato la seguente
D E C I S I O N E e O R D I N A N Z A
sul ricorso in appello n. 871/2008, proposto da
Cafeo Giovanni,
in proprio e nella qualità di procuratore generale del fratello CAFEO PIETRO, rappresentato e difeso dall'avv. Giuseppe Tamburello ed elettivamente domiciliato in Palermo, via G. Abela n. 10, presso lo studio dell’avv. Salvatore Raimondi;
c o n t r o
il COMUNE DI SIRACUSA, in persona del sindaco in carica, rappresentato e difeso dall’avv. Salvatore Bianca ed elettivamente domiciliato in Palermo, via Resuttana n. 366, presso lo studio dell’avv. Maurizio Cannizzo;
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia - Sezione staccata di Catania (sezione Seconda) - 3 aprile 2008, n. 612.
Visto il ricorso con i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio dell’avv. S. Bianca per il Comune di Siracusa;
Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;
Visti tutti gli atti di causa;
Relatore alla pubblica udienza del 12 dicembre 2008, il Consigliere Marco Lipari;
Uditi l’avv. G. Tamburello per l’appellante e l’avv. S. Bianca per il comune appellato;
Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue:
F A T T O
Con delibera n. 56 del 26.1.1988 il Consiglio comunale di Siracusa affidava in concessione i lavori di progettazione e di realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria della zona in cui ricade il terreno di proprietà del ricorrente, destinato ad interventi di edilizia economica e popolare localizzati con precedente delibera consiliare n. 313 del 21.7.1987.
Con delibera n. 2509 del 31.10.1989 le opere venivano dichiarate di pubblica utilità indifferibilità e urgenza.
Con ordinanza n. 8453 del 30.1.19990 veniva disposta l’occupazione d’urgenza, anche di parte dei terreni di proprietà dei ricorrenti, occupazione eseguita il 14.3.1990.
Con ricorso n. 2793/1988 era stata impugnata la delibera consiliare n. 313 del 21.7.1987 e con ricorso n. 1428/1990 tutti gli altri provvedimenti.
Con ulteriore ricorso n. 285/1993 R.G. i signori Cafeo impugnarono anche l’ordinanza di espropriazione definitiva n. 75430 del 14.8.1992.
I lavori furono eseguiti e ultimati.
Con sentenza n. 1353/2000 del TAR Sicilia, Sezione staccata di Catania, II sez., passata in giudicato, sono stati decisi i tre ricorsi sopraindicati e annullati i provvedimenti impugnati, compresa la dichiarazione di pubblica utilità di cui alla delibera di Giunta n. 2509 del 31.10.1989.
Con il ricorso introduttivo deciso dalla sentenza oggetto di impugnazione, l’appellante, rilevato che il suolo era stato utilizzato per la realizzazione della strada nonostante l’intervenuto annullamento della dichiarazione di pubblica utilità e degli altri provvedimenti chiedeva il risarcimento del danno.
La sentenza impugnata, in accoglimento parziale del ricorso ha condannato l’amministrazione comunale al risarcimento del danno lamentato dal ricorrente, conseguente alla utilizzazione del suo fondo, non assistita da valido titolo.
L’appellante contesta il capo della sentenza riguardante la determinazione della misura del risarcimento del danno.
Il comune resiste al gravame.
D I R I T T O
L’amministrazione comunale, con la propria memoria difensiva, deduce, in primo luogo, il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo.
Il Collegio osserva, al riguardo, che sulla questione della giurisdizione si è formato il "giudicato implicito", conseguente all’accogli-mento, nel merito, delle domande proposte in primo grado dal ricorrente (Cfr. Cassazione, Sezioni Unite, n. 2483/2008), poiché l’amministrazione non ha impugnato ritualmente il capo della sentenza ad essa sfavorevole, limitandosi a prospettare la propria tesi con semplice memoria, nemmeno notificata alla controparte.
In ogni caso, l’eccezione è destituita di fondamento, considerando l’evidente connessione della pretesa risarcitoria con le conseguenze dell’annullamento dei provvedimenti ablatori impugnati dall’interessato nell’ambito del giudizio definito dal TAR con la sentenza n. 1353/2000 (Adunanza Plenaria 22 ottobre 2007, n. 12).
La giurisdizione amministrativa sulla presene controversia, dunque, è radicata nell’articolo 7 della legge TAR e nell’articolo 35 del decreto legislativo n. 80/1998 (cognizione delle domande risarcitorie "conseguenziali", prima ancora che nell’articolo 53 del testo unico dell’espropriazione e nell’articolo 34 del decreto legislativo n. 80/1998 (Cassazione civile, sez. un., 19 aprile 2007, n. 9324; Cassazione civile, sez. un., 19 febbraio 2007, n. 3725).
Il collegio osserva, poi, che l’amministrazione non ha rivolto alcuna censura alla statuizione della sentenza appellata, secondo la quale il ricorrente di primo grado ha conservato il diritto di proprietà del bene fino alla proposizione della domanda di risarcimento del danno per equivalente: in tale momento, rinunciando alla richiesta di restituzione del bene, l’interessato ha abbandonato il proprio diritto di proprietà, dismettendolo in favore dell’amministrazione utilizzatrice dell‘immobile, fermo restando il proprio diritto al risarcimento del danno.
Pertanto, in questo grado di giudizio, resta precluso l’esame di ogni questione relativa al regime transitorio dell’occupazione acquisitiva, di matrice giurisprudenziale, e della disciplina prevista dall’artcolo 43 del testo unico dell’espropriazione (acquisizione sanante): secondo la giurisprudenza della Cassazione la nuova normativa - ritenuta di carattere sostanziale e non processuale - non si applica alle occupazioni acquisitive verificatesi anteriormente al 30 giugno 2003, data di entrata in vigore del testo unico dell’espro-priazione (fra le più recenti: Cassazione civile, sez. I, 28 luglio 2008, n. 20543).
D’altro canto, come meglio chiarito nei punti che seguono, nel caso di specie, l’intervenuto annullamento della dichiarazione di pubblica utilità impedisce la configurabilità dell’occupazione appropriativa e, pertanto, l’irreversibile trasformazione del suolo con la contestuale edificazione dell’opera pubblica non ha determinato alcun effetto estintivo del diritto di proprietà dell’interessato.
Nel merito, l’appellante contesta, sotto diversi aspetti, la pronuncia del tribunale, nella parte riguardante la determinazione della misura del risarcimento del danno liquidata in suo favore, chiedendo anche l’espletamento di una consulenza tecnica di ufficio, volta ad accertare, esattamente, la misura del credito risarcitorio spettantegli.
La sentenza appellata ha accolto la domanda di risarcimento del danno, svolgendo la seguente motivazione.
"Ai fini della liquidazione del danno, va osservato che a seguito della pronuncia della Corte Costituzionale, con sentenza n. 349 del 24.10.2007, che ha dichiarato l’incostituzionalità dell'art. 5-bis, comma 7-bis, del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica) – convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359 – comma aggiunto dall'art. 3, comma 65, della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), poiché, "non prevedendo un ristoro integrale del danno subito per effetto dell'occupazione acquisitiva da parte della pubblica amministrazione, corrispondente al valore di mercato del bene occupato, è in contrasto con gli obblighi internazionali sanciti dall'art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU e per ciò stesso viola l'art. 117, primo comma, della Costituzione.", il danno subito dal ricorrente va liquidato tenendo conto del detto valore venale del fondo alla data della realizzazione dell’opera, momento in cui si verifica la dismissione del diritto dominicale da parte del privato che ha optato per il risarcimento. Da ultimo, nelle more della stesura della motivazione della sentenza è intervenuta la norma contenuta nella Legge Finanziaria per l’anno 2008, l. 24.12.2007 n. 244, il cui art. 2, comma 89, lett. e) così dispone: all'articolo 55 (del D.Lvo n. 327 dell’8.6.2001), il comma 1 è sostituito dal seguente:
"1. Nel caso di utilizzazione di un suolo edificabile per scopi di pubblica utilità, in assenza del valido ed efficace provvedimento di esproprio alla data del 30 settembre 1996, il risarcimento del danno è liquidato in misura pari al valore venale del bene".
Il Comune è, pertanto condannato a risarcire il danno in questione, attenendosi al suddetto criterio di liquidazione, ed ovviamente detraendo dall’importo così determinato le somme già corrisposte, con l’avvertenza che avverso il provvedimento di liquidazione è possibile ricorrere a questo Tribunale per le opportune decisioni.
Va precisato che il "valore venale" del bene va individuato tenendo conto del prezzo medio di mercato per aree delle medesima tipologia, con le medesime caratteristiche urbanistiche, ricadenti nella stessa zona. L’indagine volta ad individuare i prezzi praticati nel mercato immobiliare potrà essere effettuata attingendo informazioni presso le agenzie immobiliari più accreditate della zona.
Il valore così determinato deve essere, poi, oggetto di maggiorazione per rivalutazione monetaria e interessi legali dalla data di calcolo fino al soddisfo (TAR Lazio II bis, 18.1.2008, 363)".
In primo luogo, la parte appellante contesta che, per la determinazione del valore venale dell’immobile, occorra fare riferimento alla data di ultimazione dell’opera pubblica insistente sul suolo. A suo dire, invece, occorre considerare la data di emanazione dell’atto di acquisizione coattiva dell’immobile, o, in mancanza, la data di deposito della sentenza che pronuncia la condanna al risarcimento del danno, oppure, in ulteriore subordine, la data di proposizione della domanda di risarcimento del danno (comportante, in quest’ottica, l’abdicazione del diritto di proprietà del privato).
La censura è fondata, per le ragioni di seguito illustrate.
Anzitutto, va chiarito che non sembra pertinente il richiamo, compiuto dalla sentenza appellata, all’articolo 55 del testo unico delle espropriazioni. Tale disposizione si riferisce, indiscutibilmente, alle occupazioni senza titolo anteriori al 30 settembre 1996. Nel caso di specie non è contestato che l’occupazione sia iniziata il 21 dicembre 2001 e che la trasformazione del fondo si sia verificata in epoca ancora successiva (nel corso del 2002).
Tuttavia, resta condivisibile la conclusione cui è pervenuto il tribunale, diretta ad affermare il principio del diritto all’integrale risarcimento del danno subito dall’interessato (espresso dal citato articolo 55, nel testo ora vigente, ma desumibile anche dall’articolo 43 del testo unico dell’espropriazione e dalla giurisprudenza, anche europea, richiamata), sia pure per ragioni in parte diverse.
Infatti, nel caso di specie, non è sicuramente configurabile l’ipotesi dell’occupazione appropriativa, dal momento che il presupposto indefettibile della valida ed efficace dichiarazione di pubblica utilità dell’opera, all’epoca dell’irreversibile trasformazione del fondo (ripetutamente affermato dalla giurisprudenza) è, in concreto, carente, proprio in conseguenza dell’intervenuto annullamento di tale dichiarazione.
Al riguardo, giova richiamare il prevalente indirizzo della giurisprudenza, secondo cui "dall'ambito dell'occupazione appropriativa devono essere esclusi i comportamenti della p.a. non collegati ad alcuna utilità pubblica formalmente dichiarata, o per mancanza "ab initio" della dichiarazione di pubblica utilità o perché questa è venuta meno in seguito ad annullamento dell'atto in cui essa era contenuta o per scadenza dei relativi termini. In tali vicende, definite di occupazione usurpativa, non si produce l'effetto acquisitivo a favore della p.a., donde il proprietario può chiedere la restituzione del fondo occupato o il risarcimento del danno, che deve essere liquidato in misura integrale (fra le tante, Consiglio Stato, sez. VI, 20 maggio 2004, n. 3267).
Nello stesso senso, si è precisato che, ove il giudice amministrativo abbia annullato un atto con valore di dichiarazione di pubblica utilità, l'attività esecutiva dell'amministrazione è qualificabile come mero comportamento materiale e si configura un'occupazione usurpativa; tuttavia la domanda di restituzione dell'area e quella di risarcimento del danno vanno proposte al giudice amministrativo, ai sensi dell'art. 35 d.lg. 31 marzo 1998 n. 80, come modificato dall'art. 7 l. 21 luglio 2000 n. 205, essendo venuta meno la riserva al giudice ordinario dei "diritti consequenziali" (Cassazione civile, sez. un., 19 aprile 2007, n. 9324).
Pertanto, in ipotesi di occupazione usurpativa il risarcimento del danno deve essere commisurato al valore pieno del terreno perduto, stante l'inapplicabilità a tale tipo di occupazione, in relazione al suo carattere abusivo, della l. n. 359 del 1992, art. 5 bis, comma 7 bis, da riferirsi esclusivamente alla occupazione "appropriativa", intendendo il richiamo alle "occupazioni illegittime di suoli per causa di pubblica utilità" esprimere un collegamento teleologico con le finalità perseguite a mezzo della procedura espropriativa (Cassazione civile, sez. I, 1 febbraio 2007, n. 2207).
Ciò, chiarito, l’esatta individuazione delle modalità di liquidazione del danno conseguente alla utilizzazione, senza titolo, di un bene di proprietà privata aveva formato oggetto, in passato, di una complessa elaborazione interpretativa, nella giurisprudenza della Corte di Cassazione, fortemente influenzata, tuttavia, dalla costruzione pretoria della occupazione acquisitiva, dal suo recepimento nell’or-dinamento positivo e dagli interventi della Corte europea dei diritti umani (CEDU) e della Corte costituzionale. Meno ampia risulta, invece, la giurisprudenza riguardante, più specificamente, la determinazione del risarcimento del danno conseguente all’occupazione usurpativa, probabilmente anche perché l’emersione della figura è più recente e controversa.
Con riferimento all’occupazione appropriativa, la giurisprudenza della Corte di Cassazione aveva prospettato diverse soluzioni interpretative, ancorando il valore del bene, alternativamente, ai seguenti momenti essenziali (salve alcune limitate "varianti", legate alla eventuale peculiarità di singole fattispecie):
a) l’inizio dell’occupazione illegittima;
b) la trasformazione irreversibile del suolo;
c) la proposizione della domanda di risarcimento del danno;
d) la pronuncia della sentenza.
A queste soluzioni potrebbe aggiungersi, ora, sulla base dell’articolo 43 del testo unico delle espropriazioni, il riferimento alla data di inizio della effettiva "utilizzazione per scopi di interesse pubblico", che, secondo una certa linea interpretativa, indicherebbe un momento diverso e successivo rispetto alla materiale trasformazione dell’immobile.
La soluzione prevalente, tuttavia, è stata (ed è tuttora) quella prospettata alla lettera b): determinante è il momento della trasformazione definitiva e non più reversibile dell’immobile.
Effettivamente, essa risulta coerente con la costruzione interpretativa della occupazione acquisitiva. Con la trasformazione irreversibile del suolo si verifica la vicenda consistente nell’estinzione del diritto di proprietà del privato, accompagnata dalla insorgenza del nuovo diritto reale dell’amministrazione sul bene e del contestuale obbligo al risarcimento del danno in favore del soggetto spogliato della proprietà. Non a caso, del resto, il termine di prescrizione dell’azione risarcitoria decorre da tale momento.
La tesi di cui alla lettera a) non potrebbe essere accolta, perché la sola occupazione sine titulo del bene lascia ancora intatto il diritto di proprietà dell’interessato e il conseguente diritto ad ottenere la restituzione dell’immobile.
È vero che, secondo i principi generali elaborati dalla stessa giurisprudenza, la restituzione del bene potrebbe essere ugualmente impedita, in applicazione dell’articolo 2058 del codice civile, qualora sia comprovata l’eccessiva onerosità per l’amministrazione debitrice, con la conseguenza che all’interessato spetterebbe il solo risarcimento del danno per equivalente. In tal caso, tuttavia, il momento rilevante di valutazione del bene non potrebbe essere ricondotto alla mera apprensione dell’immobile, ma si dovrebbe considerare la fase temporale successiva.
Con riferimento, poi, alle tesi sub b) e sub c), la giurisprudenza ha affermato che esse porterebbero all’esito, definito "illogico", di ancorare il fatto oggettivo - e sostanziale - del danno risarcibile ad un’evenienza soggettiva e variabile, di ordine meramente processuale (la data di proposizione della domanda, oppure quella della pronuncia della sentenza di accoglimento).
Da questo punto di vista, il tempo della domanda e della pronuncia possono assumere rilievo a fini diversi, correlati, in particolare alla interruzione della prescrizione, alla rivalutazione monetaria del valore calcolato alla data della trasformazione del bene, al computo degli interessi.
L’indirizzo interpretativo prevalente della giurisprudenza ordinaria, quindi, è incentrato, essenzialmente, sulla strettissima connessione tra l’irreversibile trasformazione del fondo, la perdita della proprietà e il diritto al risarcimento del danno, nelle coordinate ricostruttive della occupazione appropriativa.
In questa prospettiva, non sembra determinante il rilievo che nello stesso momento della trasformazione irreversibile del fondo si verifica anche lo "svuotamento sostanziale" delle facoltà del diritto di proprietà ed il perfezionamento dell’illecito, qualificato come istantaneo, ad effetti permanenti. Infatti, nell’occupazione appropriativa, la definitiva perdita del "valore economico" della proprietà si accompagna alla vicenda estintiva del diritto dominicale del bene acquisito dalla pubblica amministrazione.
Quindi, lo stesso orientamento interpretativo non sembra automaticamente esportabile in un contesto ordinamentale che non prevede più l’istituto dell’occupazione appropriativa e collega la perdita della proprietà per l’utilizzazione senza titolo del bene, per finalità di interesse pubblico, all’adozione di un apposito provvedimento costitutivo dell’amministrazione.
A maggiore ragione, tale linea interpretativa non può trovare applicazione nei casi di "occupazione usurpativa", qualora sia intervenuto l’annullamento della dichiarazione di pubblica utilità e l’opera pubblica sia stata ultimata, ma senza determinare - per ciò solo - l’estinzione del diritto di proprietà dell’interessato.
Se il pregiudizio da risarcire consiste, essenzialmente, nella perdita del valore patrimoniale in cui si sostanzia il diritto di proprietà, il danno deve essere necessariamente correlato alla entità economica del bene nel momento in cui il bene è definitivamente sottratto alla titolarità del privato ed è acquisito al patrimonio dell’amministrazione.
Tale momento non è quello di ultimazione dell’opera pubblica, ma quello, diverso, in cui l’amministrazione adotta un provvedimento di acquisizione sanante, oppure, in mancanza, quello in cui il proprietario, optando per il solo risarcimento del danno per equivalente, abbandona in proprio diritto di proprietà in favore dell’amministrazione.
Né si potrebbe obiettare che il momento della irreversibile trasformazione del bene (o quello, diverso e - generalmente successivo - dell’inizio della utilizzazione per scopi di interesse pubblico) determinerebbe già la consumazione della perdita di valore del diritto di proprietà, svuotandone interamente tutte le facoltà sostanziali.
Infatti, anche in tale situazione resterebbe fermo il diritto dell’interessato ad ottenere la restituzione del bene, con la piena riespansione delle facoltà compresse dalla utilizzazione illecita del bene, con i soli limiti generali dell’articolo 2058 del codice civile.
Pertanto, nei casi di occupazione "usurpativa" e nei casi di acquisizione sanante, di cui all’art. 43 del testo unico dell’espropria-zione, il risarcimento deve essere commisurato al valore del bene nel momento in cui il proprietario "perde" il proprio diritto sulla cosa.
Il citato articolo 43, al comma 6, detta, con riferimento alla determinazione del risarcimento del danno, alcune regole che, attentamente interpretate, risultano conformi a detti principi, ancorché la formula della disposizione presenti, sul piano letterale, alcune incertezze.
"6. Salvi i casi in cui la legge disponga altrimenti, nei casi previsti nei precedenti commi il risarcimento del danno è determinato:
a) nella misura corrispondente al valore del bene utilizzato per scopi di pubblica utilità e, se l'occupazione riguarda un terreno edificabile, sulla base delle disposizioni dell'articolo 37, commi 3, 4, 5, 6 e 7;
b) col computo degli interessi moratori, a decorrere dal giorno in cui il terreno sia stato occupato senza titolo (L)".
Il duplice riferimento al valore del bene utilizzato per scopi di pubblica utilità, nonché agli interessi moratori, potrebbe essere letto come volontà del legislatore di ancorare il computo economico dell’immobile al momento in cui il bene è concretamente utilizzato, o addirittura, al momento (che potrebbe essere precedente) in cui è iniziata l’occupazione senza titolo (ma per finalità di interesse pubblico).
Il dato lessicale utilizzato dalla norma, tuttavia, non deve essere frainteso.
Il riferimento agli interessi mira, nelle intenzioni del legislatore, a generalizzare la previsione normativa dell’articolo 3 della legge n. 458 del 1988, conformemente all’orientamento consolidato della giurisprudenza ordinaria.
La qualificazione degli interessi come "moratori" si spiega, intanto, come retaggio della disciplina legislativa richiamata, introdotta nel contesto della occupazione appropriativa di matrice giurisprudenziale.
D’altronde, le qualificazioni operate dalla legge non sono vincolanti per l’interprete e, da tempo, sono state rimarcate le notevoli difficoltà di inquadrare correttamente le diverse ipotesi di interessi, moratori, corrispettivi e compensativi.
Inoltre, la norma si spiega considerando che, sin dall’inizio dell’occupazione senza titolo, l’amministrazione versa in una situazione illecita, causando un danno che deve essere risarcito, anche nella componente correlata al ritardo nel pagamento della somma dovuta.
Nel comma 6, poi, il riferimento al "valore del bene utilizzato" esprime il principio di necessaria reintegrazione del pregiudizio subito dal proprietario e non intende fissare alla data dell’inizio dell’utilizza-zione del bene l’esatta commisurazione del danno.
Sul piano sistematico, si è osservato che l’articolo 43 configura l’illecito (costituito dall’occupazione del bene e alla sua utilizzazione per scopi di interesse pubblico) come permanente, a differenza della fattispecie dell’occupazione appropriativa, ricondotta alla categoria dell’illecito istantaneo.
Non può trascurarsi, inoltre, il rinvio esplicito, compiuto dall’articolo 43, all’articolo 37, comma 3, in materia di determinazione dell’indennità di espropriazione, il quale stabilisce la necessità di considerare anche le "possibilità legali ed effettive di edificazione, esistenti al momento dell’emanazione del decreto di esproprio o dell’accordo di cessione": in tale prospettiva, quindi, la commisurazione del valore è ancorata al tempo di perfezionamento della vicenda acquisitiva.
In definitiva, quindi, secondo l’articolo 43, il risarcimento è rapportato al valore del bene, mentre la data di inizio di utilizzazione senza titolo del bene rileva ai fini della decorrenza degli interessi.
Nel caso di specie, peraltro, l’amministrazione non ha adottato alcun provvedimento, ai sensi del citato articolo 43.
La sentenza appellata, con statuizione passata in giudicato, ha affermato che il diritto di proprietà dell’interessato si è estinto solo con la proposizione della domanda, implicante rinuncia alla richiesta di restituzione e allo stesso diritto di proprietà.
Tale lettura della vicenda è pienamente in linea con un consolidato orientamento interpretativo (delineatosi già prima dell’entrata in vigore dell’articolo 43), secondo cui nei casi di occupazione "usurpativa" il privato conserva la proprietà del bene, indipendentemente dalla realizzazione dell’opera pubblica.
Tuttavia, per assicurare effettività e pienezza di tutela, la giurisprudenza ordinaria (indirettamente avallata anche dalla Corte costituzionale, con la sentenza n. 191/2006), ha da tempo affermato il principio secondo cui l’interessato può sempre optare per il risarcimento monetario, rinunciando alla restituzione del bene.
Dunque, è in tale momento che si realizza la "perdita" del valore del diritto di proprietà, derivante da una scelta conseguente, comunque, all’illecito perpetrato dall’amministrazione.
In questa prospettiva, la somma di denaro che spetta all’interessato a titolo di risarcimento del danno deve sostituire il valore del bene che l’amministrazione non restituisce all’interessato.
Pertanto, occorre fare riferimento a tale momento per stabilire il valore di mercato del bene e computare il risarcimento del danno.
Il valore monetario del bene, così determinato, dovrà poi essere rivalutato, secondo i principi generali in materia risarcitoria, al momento della pronuncia della decisione.
In secondo luogo, la parte appellante chiede il risarcimento del danno riguardante la mancata utilizzazione del bene, relativo al periodo di occupazione senza titolo dell’immobile.
Al riguardo, l’interessato rileva che la sentenza impugnata ha omesso di pronunciarsi e chiede di determinare questa voce di danno mediante l’applicazione degli interessi legali sulla somma liquidata come risarcimento derivante della perdita di valore della proprietà.
Anche tale domanda è fondata, per le ragioni di seguito specificate.
Il tema proposto dalla parte appellante si inquadra nella problematica più ampia della liquidazione del danno e al suo rapporto con la rivalutazione e gli interessi legali.
In questa cornice di riferimento, poi, si prospetta la questione più specifica della individuazione delle voci di risarcimento del danno nelle diverse ipotesi di occupazione appropriativa, occupazione usurpativa e, ora, di "acquisizione sanate", disciplinata dall’articolo 43 del testo unico dell’espropriazione.
Tale norma, seppure non direttamente applicabile nella presente fattispecie (inquadrabile, semmai, nell’ambito dell’occupazione usurpativa, per le ragione sopra esposte), assume importante rilevanza sistematica, specie nella parte riguardante l’obbligo di corrispondere gli "interessi moratori".
L’utilizzazione senza titolo di un bene di proprietà privata comporta, normalmente, due distinti danni, i quali vanno entrambi risarciti, anche alla luce dei principi espressi dalla giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’Uomo (CEDU), relativi alla necessaria integrità del ristori del pregiudizio derivante da attività illecita dell’amministrazione
Il primo attiene alla perdita (definitiva) della proprietà, che avviene nel momento in cui è adottato il provvedimento di cui all’articolo 43 del testo unico o quando il privato "rinuncia" alla proprietà.
Il secondo danno riguarda la mancata utilizzazione del bene (o del suo corrispondente valore monetario) per il periodo compreso tra l’inizio dalla occupazione senza titolo e la perdita della proprietà.
Tale seconda voce di danno, espressamente richiesta dall’inte-ressato in primo grado, deve essere risarcita, in modo pieno e completo, ma, ovviamente, senza determinare duplicazioni o sovrapposizioni con il ristoro già insito nel risarcimento calcolato sulla perdita del bene, opportunamente rivalutato.
Ai fini della liquidazione, la parte appellante sostiene che debbano essere considerati gli interessi "moratori", di cui al citato articolo 43, comma 6.
L’indicata prospettazione deve esser condivisa, con le seguenti precisazioni.
Anzitutto, il criterio fissato dall’articolo 43, seppure riferito al provvedimento di acquisizione sanante, può assumere portata generale (trattandosi, del resto di disposizione non completamente innovativa, corrispondente anche ad un consolidato indirizzo interpretativo giurisprudenziale) e, pertanto, deve trovare applicazione anche nei casi in cui la richiesta risarcitoria (con effetti abdicativi della proprietà) sia formulata dall’interessato.
In secondo luogo, deve ribadirsi che gli interessi di cui all’articolo 43, sebbene qualificati come "moratori" dal legislatore, nel contesto sistematico della disposizione, assumono, piuttosto, la fisionomia degli interessi compensativi, per il mancato godimento del bene, in analogia alla previsione dell’articolo 1499 del codice civile.
Ne deriva, quindi, che il criterio degli interessi supera, assorbendoli, altri diversi criteri elaborati dalla giurisprudenza, compresi quello del "valore figurativo" del bene, connesso al valore locativo del bene e quello della indennità di occupazione (legittima).
Tale ultimo criterio di calcolo trova applicazione nel caso in cui occorra determinare il risarcimento del danno per le temporanee occupazioni senza titolo, non accompagnate, però, dalla perdita del diritto di proprietà (come statuito da questo Consiglio, con la decisione n. 842/2008).
Resta fermo, inoltre, che l’interessato potrebbe dimostrare, in concreto, di avere subito perdite maggiori.
Nell’indicata prospettiva, senza ripercorrere tutta la complessa tematica ricostruttiva delle modalità di calcolo degli interessi legali sulla somma liquidata a titolo di risarcimento del danno, è utile svolgere alcuni chiarimenti.
Secondo un tradizionale indirizzo, gli interessi legali sulla somma dovuta a titolo di risarcimento del danno svolgono la funzione di compensare il ritardo con cui il debitore adempie la propria obbligazione risarcitoria, che sorge sin dal momento della commissione dell’illecito.
Secondo una diversa interpretazione, invece, gli interessi legali rappresentano l’equivalente dei "frutti" civili del bene, i quali, in forza di una ragionevole presunzione, possono essere rapportati, appunto al saggio legale di interessi sull’equivalente monetario del bene.
Nel contesto dell’articolo 43 e nella presente fattispecie risulta preferibile la seconda opzione ermeneutica, dal momento che l’obbli-go risarcitorio relativo alla perdita della proprietà sorge solo al momento di adozione del provvedimento di acquisizione sanante o di rinuncia all’azione restitutoria, mente gli interessi decorrono da un’epoca precedente.
La riconosciuta struttura permanente dell’illecito, infatti, non impedisce di distinguere nettamente due fasi: nella prima l’ammini-strazione occupa senza titolo il bene; nella seconda il privato è definitivamente privato della proprietà del bene.
L’inquadramento dell’obbligazione relativa agli interessi in questa cornice, corrispondente alla richiesta della parte appellante, comporta una ulteriore conseguenza, riguardante la determinazione del valore di riferimento del "capitale".
Esso non può corrispondere al valore del bene al momento della perdita della proprietà, ma deve essere determinato con riferimento al valore del bene in ciascun anno di occupazione senza titolo.
Con un terzo motivo, la parte appellante lamenta che il tribunale abbia omesso di accertare, in modo imparziale, il valore venale dell’immobile, demandandone la liquidazione alla stessa amministrazione. A dire dell’appellante, è necessario effettuare i necessari accertamenti, utilizzando la consulenza tecnica di ufficio.
Anche tale censura è fondata.
È vero che lo strumento dell’articolo 35 del decreto legislativo n. 80/1998, in un’ottica di accelerazione e di semplificazione processuale, consente al giudice di limitarsi a fissare i criteri di determinazione del danno, demandando all’amministrazione il compito di offrire al danneggiato una somma fissata mediante l’applicazione di tali canoni.
Tuttavia, nel caso di specie, sussistendo un contrasto fra le parti in ordine alle stesse modalità di calcolo delle voci di danno, risulta necessaria un’apposita istruttoria tecnica.
Pertanto, ai fini della determinazione del valore venale dell’immobile, è indispensabile l’espletamento di apposita consulenza tecnica di ufficio, secondo le modalità di seguito indicate, con sottoposizione al consulente tecnico designando dei seguenti quesiti:
"Dica il CTU, tenendo conto di tutti gli atti di causa, nonché dei documenti e degli atti esibiti dalle parti, previo rituale scambio, nonché degli eventuali necessari accertamenti tecnici, effettuati con congruo preavviso alle parti:
1) quale fosse il valore venale dell’immobile, secondo i criteri fissati dall’articolo 43 del testo unico delle espropriazioni, all’epoca di notificazione del ricorso di primo grado, nonché all’epoca dell’inizio dell’occupazione (21 dicembre 2001);
2) quali siano state le variazioni medie del valore dell’immobile nel periodo compreso fra le due date indicate al punto 1, indicando la misura media del valore dell’immobile, debitamente rivalutato, in relazione a ciascun anno di riferimento;
3) quale sia la misura degli interessi legali riferita a ciascuno dei valori e dei periodi indicati ai punti precedenti 1) e 2)."
La predetta consulenza tecnica, da effettuarsi senza la presenza del Giudice, dovrà riportare distintamente i risultati e le conclusioni finali in una relazione scritta con allegati i documenti ritenuti necessari all’accertamento sopra disposto.
A norma dell’art. 201/1 c.p.c., le parti possono nominare propri consulenti tecnici sino al momento dell’inizio delle operazioni della c.t.u., alle quali gli stessi consulenti tecnici di parte e i difensori possono intervenire ai sensi e per gli effetti dell’art. 194/2 c.p.c..
A tal fine, il consulente tecnico nominato da questo Consiglio, ai sensi degli artt. 90 e 91 disp. att. c.p.c., comunicherà alle parti costituite, presso il domicilio eletto, ed agli eventuali consulenti tecnici di parte, la data di inizio delle operazioni peritali e ciò almeno 5 giorni prima.
Per l’espletamento dell’incarico, il consulente tecnico potrà chiedere chiarimenti alle parti, assumere informazioni da terzi e svolgere tutte le indagini ritenute necessarie.
Nella camera di consiglio dell’11 marzo 2009 ore 10, il C.T.U. designato presterà giuramento, come da separato verbale.
Le spese saranno liquidate con la sentenza definitiva.
Da ultimo, la parte appellante contesta la pronuncia relativa alla compensazione delle spese del giudizio.
Tale aspetto della lite, peraltro, dovrà essere deciso all’esito della disposta consulenza tecnica.
Pertanto, l’appello deve essere accolto nei sensi sopra precisati
Ai fini della determinazione del danno dovranno essere valutate le risultanze della disposta consulenza tecnica di ufficio.
Per Questi Motivi
Il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, non definitivamente pronunciando, accoglie l'appello, nei sensi indicati in motivazione;
dispone gli incombenti istruttori indicati in motivazione;
nomina CTU il dott. Schimmenti Emanuele con studio in Palermo, rinvia alla camera di consiglio dell’11 marzo 2009 per la prestazione del giuramento;
spese al definitivo.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'Autorità amministrativa.
Così deciso in Palermo, nella camera di consiglio del 12 dicembre 2008, dal Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, in sede giurisdizionale, con l'intervento dei signori: Riccardo Virgilio Presidente, Chiarenza Millemaggi, Marco Lipari, estensore, Antonino Corsaro, Filippo Salvia, Componenti.
F.to: Riccardo Virgilio, Presidente
F.to: Marco Lipari, Estensore
F.to: Loredana Lopez, Segretario
Depositata in segreteria il 18 febbraio 2009.

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